Il Giornalista Arcangelo e il Demone Quero: appello a Matteo Pucciarelli

Quero: il demone del successo letterario 


Caro Matteo,

immagina per un attimo un regno sommerso: Atlantide, perduta nei fondali marini, dove sirene cantano in silenzio e tritoni ballano tra le correnti. Ora immagina un umile scriba, io, che cerca di sollevare le sue parole verso la superficie, mentre il perfido demone Quero gioca a nascondino con il destino dei libri. Oh, quanto è birichino! Fa rotolare le mie opere verso il macero ancora prima che possano sentire il profumo dell’inchiostro fresco.

Tu, però, caro Matteo, sei come un arcangelo con penna-lancia: lo hai fatto per Vannacci, e il mondo intero lo ha visto. Ora ti chiedo di indossare di nuovo l’armatura della parola, di sollevare la spada della tua recensione e fare quel piccolo, scintillante colpo di luce che può piegare il demone birbante. Non chiedo di trasformare le mie opere in bestseller da un milione di copie (anche se, ammettiamolo, sarebbe fantastico). Ti chiedo solo di farle emergere, farle respirare, far vedere che Atlantide non è del tutto perduta.

Pensa al demone Quero come a un drago dispettoso, che ama bruciare le bozze e nascondere le idee. Tu sei l’eroe con la penna magica, capace di ridere e insieme di far tremare il malandrino. Puoi farlo: una volta hai illuminato il cammino di un generale, ora puoi illuminare il mio piccolo regno di parole.

Ridrai, forse, come ridono gli angeli davanti ai giochi dei demoni, ma se lo fai, il miracolo accade. E chi legge – e io con loro – vedrà le parole emergere dal mare, tra bolle e raggi di sole, finalmente libere di nuotare.

Con stima, ironia e un pizzico di magia,
Ettore Alpi

Forza Italia dopo Berlusconi: Il ruolo di Antonio Tajani, la destra badogliana e la sfida del centrodestra

La scomparsa di Silvio Berlusconi ha aperto una nuova fase nella storia di Forza Italia, il partito che il Cavaliere ha fondato e plasmato per oltre vent’anni. Con la sua figura carismatica e dominante, Berlusconi era il cuore pulsante del movimento, l’unico in grado di tenere insieme anime diverse e correnti interne, ma anche di attrarre un vasto elettorato di centrodestra. Ora, senza di lui, Forza Italia si trova ad affrontare una crisi profonda, che mette in discussione la sua stessa sopravvivenza politica.

L’eredità difficile di Berlusconi e le dinamiche interne di Forza Italia

Forza Italia, sin dalla sua nascita, è stata un partito profondamente personalistico. La leadership di Berlusconi era caratterizzata da un controllo diretto e centrale, tanto che il partito spesso coincideva con la sua persona. La sua capacità di attrazione e il suo talento mediatico hanno oscurato spesso la presenza di altri leader, impedendo la formazione di eredi politici in grado di raccogliere il testimone.

Il passato ha visto le defezioni di figure importanti come Gianfranco Fini e Angelino Alfano, che in vari momenti hanno tentato di posizionarsi come successori, ma sono stati progressivamente marginalizzati o hanno scelto di abbandonare il partito. Ciò ha lasciato Forza Italia con un vuoto di leadership, aggravato dall’assenza di un ricambio generazionale capace di dare nuova linfa al movimento.

Nel periodo post-Berlusconi, il partito ha vissuto tensioni interne tra anime più moderate, centristi ed europeisti, e altri settori ancora legati alla tradizione del centrodestra berlusconiano più duro. Antonio Tajani è emerso come figura di riferimento in questo quadro complesso.

Antonio Tajani 


La destra badogliana: i manovratori dietro le quinte

Dietro la scena pubblica di Forza Italia e del centrodestra agisce quella che alcuni analisti definiscono la “destra badogliana”. Il termine richiama idealmente la figura di Pietro Badoglio, che nella storia italiana rappresentò un ruolo di mediazione e di gestione istituzionale in momenti di crisi, spesso lontano dai riflettori ma con un peso decisivo nelle scelte strategiche.

La destra badogliana è composta da una rete di esponenti politici, tecnici, manager e professionisti legati all’area moderata e istituzionale, che operano come “consiglieri” e “custodi” del patrimonio politico e amministrativo. Sono uomini e donne che conoscono profondamente le istituzioni, il funzionamento della macchina burocratica e dei rapporti con le forze economiche e sociali, e che preferiscono muoversi nell’ombra, favorendo la stabilità piuttosto che il protagonismo.

Questa componente ha svolto un ruolo cruciale nel mantenere un minimo di coesione e di presenza politica di Forza Italia anche dopo il declino del carisma berlusconiano. È la “forza tranquilla” che tenta di evitare fratture e di mantenere ponti con altre forze del centrodestra, soprattutto con la Lega e Fratelli d’Italia, nella prospettiva di salvaguardare un’area moderata di governo.

Tuttavia, questa destra badogliana rischia anche di rappresentare un freno al rinnovamento vero e proprio, poiché privilegia il pragmatismo e la conservazione dello status quo, piuttosto che l’innovazione e il coinvolgimento di nuovi elettori o correnti politiche. La sua influenza è spesso percepita come un “muro invisibile” che limita la possibilità di svolte radicali nel partito.


Antonio Tajani: il mediatore più che il leader carismatico

Antonio Tajani è un politico di lungo corso, con una carriera di alto profilo a livello europeo: ex Commissario europeo per l’Industria e i Trasporti, ex Presidente del Parlamento Europeo. La sua esperienza internazionale gli conferisce autorevolezza e competenza, soprattutto nell’ambito delle istituzioni europee.

Tuttavia, Tajani non possiede il carisma e la visibilità mediatica che hanno caratterizzato Berlusconi. Il suo stile è più istituzionale e sobrio, meno adatto a catalizzare un consenso popolare ampio e trasversale. La sua leadership è quindi spesso vista come quella di un mediatore e di un gestore del partito, più che come di un innovatore capace di rilanciare la macchina politica.

La sua strategia appare orientata a mantenere Forza Italia come forza moderata di governo, garante di stabilità e di orientamento europeista, più che a farne un partito di massa o una forza egemone nel centrodestra. Tajani sta lavorando per mantenere coeso un partito in cui convivono sensibilità diverse, ma la mancanza di slancio e rinnovamento resta un limite evidente.


La sfida nel centrodestra: Fratelli d’Italia e Lega

Il panorama politico del centrodestra italiano è cambiato profondamente negli ultimi anni. Da un lato, Fratelli d’Italia, con Giorgia Meloni, ha saputo costruire un’identità chiara e forte, giocando su temi nazionalisti, sovranisti, e su un richiamo alle radici culturali e ai valori tradizionali. Meloni ha mostrato un forte carisma, capacità comunicativa e una narrazione politica efficace, che hanno attratto un ampio consenso, in particolare tra i giovani e gli elettori più conservatori.

Dall’altro lato, la Lega ha mantenuto una base elettorale robusta, soprattutto nel Nord Italia, facendo leva su temi quali autonomia regionale, politiche economiche e immigrazione. Pur avendo modificato la propria identità da partito secessionista a forza nazionale, la Lega continua a rappresentare una componente fondamentale del centrodestra.

Forza Italia, posizionandosi più al centro, con una linea moderata, liberale ed europeista, ha visto progressivamente erodere il proprio consenso. I voti sono passati spesso verso Fratelli d’Italia e Lega a destra, ma anche verso nuove formazioni centriste e liberali come Azione o Italia Viva, che si presentano come alternative più moderne e dinamiche.


Il futuro di Forza Italia: tra declino e possibilità di resurrezione

Chi non salta comunista è!

Il rischio per Forza Italia è quello di diventare una forza residuale, incapace di ritrovare il ruolo di protagonista nel centrodestra. La mancanza di un progetto politico innovativo, l’assenza di giovani leader capaci di attrarre nuovi elettori, e la competizione agguerrita di Fratelli d’Italia e Lega, sembrano delineare un futuro di progressivo declino.

Tuttavia, non è detto che la partita sia chiusa. Tajani e i vertici del partito potrebbero tentare alcune strategie per rallentare o invertire questa tendenza:
  • Rinnovamento generazionale: puntare su nuove leve politiche capaci di rilanciare il partito con energie e linguaggi nuovi.
  • Rafforzamento dell’identità moderata: differenziarsi nettamente dagli estremismi, valorizzando il ruolo europeista e liberale, puntando su temi come economia, innovazione e stabilità istituzionale.
  • Alleati strategici: giocare un ruolo di mediatore all’interno del centrodestra, consolidando accordi e coalizioni per non essere emarginati.
  • Ricomposizione interna: superare le tensioni e le divisioni tra correnti, ricostruendo un senso di appartenenza e una linea politica condivisa.

Conclusione

Antonio Tajani è riuscito finora a mantenere a galla Forza Italia in un momento difficilissimo, evitando una frattura definitiva e una scomparsa immediata. Tuttavia, il partito appare in una fase di transizione e di crisi identitaria, destinato a perdere sempre più terreno se non riuscirà a trovare nuove energie e una strategia convincente. In questo contesto, Tajani è più un custode che un leader capace di rilanciare la creatura di Berlusconi.

Nel frattempo, la “destra badogliana” continua a operare dietro le quinte, cercando di gestire il partito e le sue alleanze con prudenza e pragmatismo, ma rischiando anche di impedire un ricambio necessario per il futuro.

Il futuro del centrodestra italiano sembra oggi più che mai nelle mani di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, con la Lega a consolidare il suo ruolo, mentre Forza Italia rischia di diventare un attore secondario, a meno di una svolta politica significativa.

Quando la vita dice no: imparare a trasformare il rifiuto in forza

C’è un momento che accomuna tutti, prima o poi: ricevere un “no”. Non importa che arrivi dall’amore della nostra vita, dal datore di lavoro dopo un colloquio, da un amico a cui chiediamo un favore o persino da un familiare che non approva una scelta. Quel monosillabo, così breve, ha il potere di bloccarci, ferirci e, a volte, stravolgere la nostra percezione di noi stessi.


Il rifiuto amoroso è forse la forma più immediata e riconoscibile. Chi non ha mai provato la sensazione di bussare a una porta chiusa? Ma sarebbe riduttivo pensare che il “no” viva solo nelle storie sentimentali. Basta guardare al mondo del lavoro: quanti curriculum inviati senza risposta, quante promesse rimaste sospese. O ancora alle dinamiche di amicizia, quando ci rendiamo conto che non siamo sulla stessa lunghezza d’onda di qualcuno a cui tenevamo.

La cronaca ci insegna che, purtroppo, non sempre il rifiuto viene accettato. Ci sono storie tragiche, come quella accaduta a Messina lo scorso marzo, dove un semplice “non ti voglio” si è trasformato in violenza irreparabile. Questi episodi scuotono l’opinione pubblica e ci spingono a confondere il tema della violenza di genere con quello del rifiuto. Ma non sono la stessa cosa. La violenza nasce nella pretesa di possesso, nel bisogno patologico di controllare l’altro. Il rifiuto, invece, è un’esperienza universale: fa parte della vita e non si può eliminare.

La vera sfida è imparare a gestirlo. Qualcuno, di fronte a un “no”, si chiude in sé stesso, qualcun altro si arrabbia con il mondo, altri ancora si buttano a capofitto in nuove esperienze. La differenza non la fa il rifiuto in sé, ma la risposta che scegliamo di dare. C’è chi si lascia definire da quel diniego e chi, invece, lo trasforma in occasione di crescita.

Ricordo un ragazzo che, dopo essere stato lasciato, ha deciso di iscriversi a un corso di fotografia. “Volevo riempire il vuoto con qualcosa che fosse solo mio”, mi disse. Oggi quella passione è diventata il suo lavoro. Il “no” sentimentale, che all’inizio gli era sembrato un macigno, si è rivelato la porta per una vita nuova.

Ecco il punto: ogni “no” ci obbliga a fare i conti con i nostri limiti e con la libertà degli altri. L’unica strada sana è rispettare quella libertà e continuare il cammino. È vero, si potrebbe andare oltre parlando di comunicazione persuasiva, strategie relazionali, modi sottili per trasformare un “no” in un “forse”. Ma prima di tutto serve un passo fondamentale e alla portata di tutti: accettare che nessuno ci deve nulla, che la sintonia non è scontata e che la distonia è parte della convivenza umana.

La vita, in fondo, è un mosaico di sì e di no. I primi ci confortano, i secondi ci insegnano. Sta a noi decidere se fermarci davanti a un rifiuto o usarlo come trampolino per cercare chi – o cosa – risuona davvero con la nostra frequenza.

Maria Sofia, l’ultima regina ribelle: la donna che non volle mai arrendersi all’Italia unita

C’è chi la ricorda come una regina senza trono, chi come una sovrana guerriera, chi come una cospiratrice instancabile. Maria Sofia di Borbone, nata principessa di Baviera e divenuta ultima regina delle Due Sicilie, è una di quelle figure che sembrano uscire da un romanzo più che da un manuale di storia. Bella, intelligente, caparbia, visse tutta la sua esistenza come una lunga sfida al destino: quello di essere moglie di un re inetto e devoto, Francesco II, e di vedere il suo regno dissolversi sotto l’urto dell’unificazione italiana.


Il suo battesimo di fuoco arrivò a Gaeta, durante l’assedio del 1860. Mentre suo marito si rifugiava nella preghiera, Maria Sofia si muoveva sulle mura, parlava con i soldati, incitava alla resistenza, divenendo un simbolo di fierezza che persino i nemici rispettarono. Ma quella fierezza non bastò a salvare un trono già condannato. Costretta all’esilio, Maria Sofia non si trasformò mai in una regina malinconica: scelse invece la via dell’opposizione, e per decenni alimentò speranze di restaurazione e vendette cospirative.

Nella Parigi fin de siècle, tra salotti aristocratici e circoli rivoluzionari, il suo nome continuava a circolare. Non erano fantasie: attorno a lei si muovevano monarchici legittimisti e anarchici, accomunati dall’odio contro la monarchia sabauda. Che vi fosse una sua ombra dietro l’attentato di Monza del 1900, quando Gaetano Bresci uccise Umberto I, non fu mai provato, ma l’eco del sospetto bastò a trasformarla in leggenda nera. Maria Sofia divenne così il volto di un Sud che non aveva mai perdonato l’Italia unita, e il suo nome evocava più paura che nostalgia.

Neppure la vecchiaia le tolse la voglia di combattere. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si schierò senza esitazioni con gli Imperi Centrali: non per fede politica, ma per calcolo, nella speranza che una disfatta italiana portasse allo smembramento dello Stato unitario. Andava a visitare i prigionieri meridionali catturati dagli austriaci, li incoraggiava, li trattava come figli di un regno che non c’era più. In quell’atto, insieme propagandistico e profondamente umano, Maria Sofia mostrava l’anima che l’aveva animata fin dall’inizio: non una rassegnata vedova della storia, ma una madre orgogliosa che vegliava sui suoi figli perduti.

Il fascino di Maria Sofia nasce da questa contraddizione: era allo stesso tempo moderna e arcaica, rivoluzionaria e reazionaria, capace di incantare con la sua bellezza e la sua forza, ma anche di ispirare timore con il suo spirito implacabile. Se il Risorgimento consegnò all’Italia eroi luminosi e retorici, lei rimase l’ombra dietro la scena, la regina ribelle che non si piegò mai, nemmeno quando tutto intorno a lei le ricordava che aveva perso.

Gli ultimi re: il volto del tramonto

C’è sempre un’ombra tragica attorno agli ultimi sovrani. Quando una dinastia si spegne, l’epigono resta sul trono come un attore costretto a recitare l’ultima scena di un dramma già scritto. Non importa se dissoluto, ingenuo o persino onesto: la storia lo inchioda a simbolo del declino.

Prendiamo Luigi XVI, che amava più le serrature e la caccia che le tempeste della politica. La Francia bolliva di rabbia, affamata e impaziente di giustizia; lui rispondeva con esitazioni e silenzi. Non fu mai il tiranno che i giacobini descrissero, ma un uomo incapace di interpretare il suo tempo. La ghigliottina, più che punirlo, suggellò la morte di un mondo intero.

Più a est, un secolo dopo, Nicola II Romanov ripeteva inconsapevolmente lo stesso copione. Devoto alla famiglia, tenero con i figli, ma disarmato di fronte a un impero sterminato e inquieto. Rasputin, le repressioni sanguinose, la guerra mal gestita: ogni errore divenne un passo verso la catastrofe. La notte di Ekaterinburg non spazzò via solo i Romanov, ma la stessa idea di autocrazia russa.

In Austria, Carlo I d’Asburgo provò a ribaltare la maledizione. Giovane, idealista, sinceramente convinto di poter ridare fiato a un impero che scricchiolava sotto i colpi dei nazionalismi, tentò persino la pace separata durante la Grande Guerra. Ma arrivò troppo tardi: la storia non concede seconde possibilità agli epigoni. Morì in esilio, povero, con la fama di un santo mancato più che di un imperatore sconfitto.

Carlo I d'Asburgo

Non sempre, però, gli ultimi re sono figure tragiche e compassionevoli. Talvolta diventano caricature del potere. Faruq d’Egitto, con i suoi harem, le auto di lusso e le collezioni eccentriche, sembrava la personificazione stessa di un regime corrotto e marcescente. Mentre lui festeggiava, l’esercito perdeva la faccia contro Israele e il paese sprofondava nella miseria. Quando Nasser lo costrinse all’esilio, il popolo non pianse: rise.

Più discreta, ma altrettanto amara, fu la fine di Manuele II del Portogallo, detronizzato a ventun anni. Un ragazzo colto e gentile, amante della musica e delle lettere, ma inadatto a fronteggiare la tempesta repubblicana. Se ne andò senza clamori, vivendo da esule raffinato. Il suo ricordo resta quello di un giovane elegante, troppo fragile per reggere l’urto della storia.

E infine l’Italia, con Umberto II di Savoia, il “Re di Maggio”. Non fu dissoluto come Gian Gastone de’ Medici, né timoroso come Francesco II di Borbone, né corrotto come Faruq. Era un uomo perbene, educato, rispettato. Ma l’Italia del 1946 non cercava un re gentiluomo: voleva chiudere i conti con il fascismo, la guerra e la complicità della Casa Savoia. Così Umberto pagò per tutti. Se fosse stato più duro, più populista, forse avrebbe resistito. Ma la monarchia era già morta, e il referendum la seppellì in poche settimane.

Guardando a questi volti — Luigi XVI, Nicola II, Carlo I, Faruq, Manuele II, Umberto II — colpisce un paradosso. Non furono sempre i peggiori sovrani, anzi: alcuni erano colti, altri sinceri, altri addirittura stimabili. Ma la storia li volle testimoni del tramonto, e nulla poté salvarli. L’ultimo re, qualunque sia la sua indole, diventa inevitabilmente il simbolo di un mondo che si spegne. E per questo lo ricordiamo sempre più per la sua fine che per la sua vita.

Asili nido e lavoro femminile: il nodo irrisolto del Mezzogiorno

Tra famiglie in affanno e donne costrette a casa

Al Sud, il ruolo dei nonni è spesso determinante nell’accudimento dei nipoti in età prescolare. L’assenza di una rete capillare di asili nido comunali viene supplita, laddove possibile, dalla famiglia allargata, che rappresenta un vero e proprio ammortizzatore sociale. Tuttavia, quando i nonni non possono essere di supporto – perché troppo anziani, malati, residenti lontano o semplicemente non più in vita – le famiglie si trovano davanti a un bivio: ricorrere a strutture private, spesso costose e quindi non accessibili a tutti, oppure rinunciare al lavoro della madre, che in molti casi diventa casalinga suo malgrado.


Ne consegue un circolo vizioso: la mancanza di servizi pubblici adeguati riduce le possibilità occupazionali femminili, alimentando disuguaglianze sociali e territoriali. Investire in asili nido pubblici e in scuole dell’infanzia dotate di mensa e orario prolungato non significa solo offrire un servizio ai bambini, ma garantire reale libertà di scelta alle donne, che troppo spesso sono costrette a sacrificare il proprio percorso professionale.

Sostenere le madri lavoratrici, quindi, equivale a rafforzare l’intero tessuto sociale ed economico: un asilo nido non è un costo, ma un investimento in capitale umano, pari opportunità e sviluppo del Paese.

Mani Pulite: l’alba che divenne crepuscolo

Antonio Di Pietro 

Nel 1992, con l’arresto di Mario Chiesa, si aprì una stagione destinata a travolgere la Prima Repubblica. Tangentopoli non fu solo un’inchiesta giudiziaria: fu un terremoto politico, culturale, simbolico. Al centro di quella tempesta si impose Antonio Di Pietro, figlio di contadini molisani, magistrato dall’accento duro e dalla determinazione inflessibile. Per milioni di italiani, egli divenne il volto della riscossa, l’uomo che finalmente metteva alle corde un sistema corrotto e diffuso. Chi non ricorda le sue apparizioni televisive, la camicia bianca, la cravatta leggermente slacciata, l’urlo “Mario Chiesa, ti voglio vedere!” che faceva vibrare salotti e piazze?

Per qualche anno, la speranza sembrò tangibile. Le tangenti smascherate, le liste di politici inquisiti e i nomi di ministri e sindaci caduti dalla scena erano raccontati come cronaca quotidiana: da Bettino Craxi che lasciava l’Italia per rifugiarsi ad Hammamet, fino alle file di imprenditori tremanti in aula di tribunale. Ricordate il caso dell’appalto per i rifiuti a Napoli? Tutti parlavano di trasparenza e legalità, eppure gli scandali si ripresentavano sotto altre forme, più sottili, più sofisticate. Oppure le polemiche sull’uso dei fondi pubblici per campagne politiche, sempre giustificate come “necessità della comunicazione”. L’Italia degli onesti ebbe in Di Pietro un simbolo di rivincita civile. Ma la parabola fu breve. Quando il magistrato lasciò la toga per fondare l’Italia dei Valori e approdare al ministero, la sua immagine cambiò. Da “giustiziere” divenne uomo di parte, e le ambiguità della politica cominciarono a incrinare il mito: i contratti, le alleanze, gli intrighi dietro le quinte.

Col passare degli anni, il mito si spense. Gli inquisiti di allora furono riabilitati, i partiti travolti cambiarono nome ma non abitudini, e nuovi saltimbanchi presero la scena con lo stesso sorriso cinico. La cronaca di quegli anni resta memorabile non solo per gli scandali, ma per i siparietti quasi grotteschi che accompagnarono la storia: ministri sorpresi a mentire spudoratamente, deputati che cambiavano casacca tra un processo e l’altro, imprenditori che inventavano conti correnti in paradisi fiscali come se fosse routine quotidiana.

Dal mio osservatorio tra tombe silenziose e corone sepolcrali, vedo l’Italia che ride dei suoi simboli e festeggia i suoi traditori. Il destino di Mani Pulite è diventato il destino del Paese: un’occasione mancata, un’alba che ha solo illuso. La corruzione non fu spazzata via, ma resa più invisibile, più elegante, più accettabile. Come diceva il Principe di Salina ne Il Gattopardo, “bisogna che tutto cambi affinché tutto resti com’è”: nel romanzo di Lampedusa la frase denuncia la cruda realtà dei cambiamenti apparenti, dove la forma muta ma il potere sostanziale rimane intatto. Nella nostra storia politica, questa frase suona quasi profetica: le inchieste, i partiti che crollano, i ministri che cadono… tutto sembra rivoluzionario, eppure i meccanismi di controllo e compromesso restano, più sottili ma invariati.

E oggi, mentre gli onesti si chiedono dove siano finiti, io sorrido tra le lapidi: forse l’Italia degli onesti non è mai esistita, e il vero miracolo di Mani Pulite è stato quello di farci credere per un attimo che potesse esistere… prima di ricordarci, con un ghigno, che la vita continua come prima, solo con nuovi attori sul palco della stessa farsa.

Fare il furbo conviene? La verità sulle tasse italiane

In Italia parlare di tasse significa parlare di un equilibrio fragile tra dovere e sopravvivenza. La Costituzione è chiara: tutti devono contribuire secondo le proprie possibilità. Ma nella vita reale, chi si trova a pagare tutto spesso ha la sensazione di fare da bancomat a uno Stato che sembra più socio leonino che garante. Non sorprende, quindi, che molti si chiedano: fare il furbo conviene?


Commercialisti, ragionieri e consulenti del lavoro lo sanno bene: il sistema è un labirinto di leggi, eccezioni e soglie oltre le quali pagare diventa un rischio più grande che un vantaggio. Chi ha mezzi e informazioni trova scorciatoie legali o semi-legali; chi non le trova subisce, e chi le sfrutta spesso viene percepito come intelligente più che immorale. Questo crea un paradosso: l’apparato repressivo dello Stato può multare e inseguire, ma non cambia la percezione di ingiustizia.

Il vero problema non sono solo le aliquote alte o la burocrazia soffocante, ma la mancanza di reciprocità: chi paga tutto deve sentire che il suo contributo produce servizi concreti, tutela e sicurezza. Fino a quando questa percezione manca, il patto tra cittadino e Stato resta fragile. Fare i furbi non diventa solo una tentazione, ma una risposta logica a un sistema percepito come sbilanciato.

Pagare le tasse in Italia oggi è più di un obbligo legale: è una scelta morale, un gesto di fiducia in uno Stato che spesso dimentica chi contribuisce davvero. La riforma fiscale non potrà limitarsi a cambiare numeri e scaglioni: dovrà creare un sistema comprensibile, equo e credibile, dove pagare sia percepito come naturale, vantaggioso e giusto. Solo allora, forse, il furbo non sarà più il vincitore di turno.

Lettera aperta a Giorgia Meloni da un socialdemocratico cattolico

Cara Giorgia,

nel mio blog mi definisco socialdemocratico, ma sono anche un cattolico. Non vedo contraddizione in questo: la giustizia sociale e la dignità umana sono valori che affondano le radici sia nella dottrina cristiana che nel pensiero socialista originario.

Ti ricordo che Benito Mussolini, prima di fondare i Fasci di combattimento, era socialista e direttore de L’Avanti!. La rottura con il Partito Socialista avvenne allo scoppio della Grande Guerra, quando Mussolini, sostenitore dell’interventismo, si scontrò con la neutralità che il partito voleva mantenere. Il resto è storia: la “vittoria mutilata”, le delusioni di Versailles e il disincanto di un Paese che si era sentito tradito.

Fu un’umiliazione doppia: prima quella di essere sputtanati dai bolscevichi, che resero pubbliche le clausole segrete del Patto di Londra, mostrando al mondo i motivi per cui avevamo pugnalato alle spalle gli Imperi Centrali — nostri alleati da trent’anni — e poi quella di essere gabbati da Francia e Gran Bretagna, con il beneplacito del presidente Wilson.
Pare che siamo pugnalatori di spalle seriali! Peccato che, in questo Paese, c’è chi a destra e a sinistra si vanta ancora di essere un emulo di Bruto e Cassio. Nessuno è mai riuscito a correggere questo difetto, nemmeno i sionisti.

L’anima socialista rimase in Mussolini, specialmente nell’area di sinistra del Partito Nazionale Fascista, anche se il compromesso con la Corona sabauda — che gli consentì la presa del potere nel 1922 — spinse il suo governo su posizioni più conservatrici, a favore delle classi dominanti e per stroncare il bolscevismo.

Quell’anima socialista, sopita, sopravvisse fino al 1945, anche se più come retorica che come pratica, sotto la Repubblica Sociale Italiana. Non voglio riaprire vecchie ferite, perché dal mio punto di vista l’Italia in quegli anni fu tradita da tutti, compreso Mussolini: avremmo perso l’indipendenza comunque, che fossero stati i tedeschi o gli Alleati a prevalere. Il vicolo cieco in cui ci eravamo infilati come nazione aveva un solo esito possibile: diventare uno Stato di seconda importanza, al traino dei tedeschi o degli americani.

Solo una cosa era certa: mai dell’Unione Sovietica, che pure aveva sconfitto il nazismo al prezzo di oltre venti milioni di morti, ma aveva lasciato l’Italia agli Alleati nella spartizione di Yalta. E poiché fu Mussolini a introdurci in quel vicolo cieco, egli rimane, davanti al tribunale della storia, il più colpevole di tutti. Il suo tentativo meschino di restare in sella come fantoccio del suo allievo oltre il Brennero — che nel frattempo aveva superato il maestro — ne fu la prova.

Non è questa la sede per discutere della damnatio memoriae a cui furono relegati i combattenti repubblichini, né dell’esaltazione dei resistenti antifascisti saliti sul carro del vincitore per meriti reali o presunti. Sappiamo bene che la storia, nei primi cento anni, viene scritta sempre dai vincitori, e che gli storici neutrali arrivano solo molto dopo.
Giampaolo Pansa, a tal proposito, ha avuto il merito di riesumare i torti subiti dagli sconfitti.

Parliamo invece di quella anima socialista sopravvissuta nel dopoguerra dentro il Movimento Sociale Italiano: un partito di reduci e nostalgici, rimasto fino al 1993 fuori dall’arco costituzionale, che nel frattempo aveva imbarcato anche i monarchici.

Fu con la discesa in campo di Berlusconi che avvenne lo sdoganamento del post-fascismo. Ma il MSI dovette cambiare pelle: a Fiuggi, Fini compì la svolta, andò a Gerusalemme, indossò la kippah e pianse lacrime davanti al Muro del Pianto — sincere o motivate, non lo so.

Pure tu, Giorgia, hai fatto lo stesso percorso fino al Popolo delle Libertà, che però, tornato a chiamarsi Forza Italia, è diventato stretto per parecchi di voi. Al Sud, molti, non credendo nel progetto di Fratelli d’Italia, sono rimasti personaggi di secondo piano alla mercé di ex venditori di Publitalia; altri sono saliti sul carro della Lega, mangiando polvere, perché non si cancellano decenni in cui si invocava l’eruzione del Vesuvio per distruggere Napoli.

Capisco che abbiano famiglia, ma è stato come passare dalla padella alla brace.
Tra loro ci sono validi ex-AN, persone contro cui non ho nulla da eccepire, tranne il fatto che militino in un partito che è sempre stato nemico di coloro ai quali ora va a chiedere i voti. È un po’ come se i nazisti pretendessero i voti degli ebrei, tanto per intenderci.

Il governo Monti vi ha dato l’occasione di fondare Fratelli d’Italia, e mi congratulo per il successo che avete avuto. Tuttavia, la mia speranza è che le lacrime di Fini a Gerusalemme fossero sincere, perché sappiamo bene le boiate degli anni ’30 in Germania e, di riflesso, in Italia: le leggi razziali del 1938 e il genocidio che seguì durante la guerra.

Se quelle lacrime fossero state finte, e la vostra adesione servile alle derive nefaste del sionismo fosse solo strumentali alla vostra legittimazione al governo, poco importerebbe ora. Ma molti si chiedono: dicevi la verità quando, dai banchi dell’opposizione, difendevi la causa palestinese, o ora che ti accuso di lustrare le scarpe a Netanyahu?

Io credo che dicessi la verità quando non avevi nulla da perdere.
Ce lo insegna Guicciardini nei Ricordi: “La politica non si fonda su principi astratti, bensì sulla capacità di adattarsi alle circostanze.”

Ti ho accusata di non difendere più la razza italica come Giorgio Almirante, e di esserti piegata a difendere la razza ebraica. Ti ringrazio, però, di questo sforzo: non terrei una Menorah sulla mia libreria pensile per sfizio.

Non si tiene una Menorah in casa tanto per caso,
come un busto del Duce nel salotto.

Siamo cattolici da troppe generazioni, da  secoli non mangiamo più kosher, ma il nostro cognome geografico tradisce le nostre origini. Chi è rimasto alla vecchia religione contribuì alla nascita del fascismo, e fu pugnalato alla schiena quando esso aderì alle boiate hitleriane.

Il problema è che il sionismo è per il popolo ebraico ciò che fu il nazismo per quello tedesco: un movimento nato con ideali, ma poi corrotto. Golda Meir, per me, è una nonna.
Fino a trent’anni fa, un Netanyahu al governo d’Israele sarebbe stato impensabile — soprattutto con alleati come Bezalel Smotrich o il famigerato Itamar Ben-Gvir, personaggi che non hanno nulla da invidiare ai macellai della storia.

Un’inchiesta di Fanpage ha mostrato che il tuo partito ha la doppia pelle come i Visitors, perché nei circoli privati si inneggia ancora a Hitler e Mussolini. C’è chi espone ancora il busto del Duce nel salotto di casa.

Per questo sono convinto che tu fossi autentica quando stavi all’opposizione, perché la destra “bluette” di cui fai parte — termine coniato dal filosofo Diego Fusaro — si contrappone solo per finta alla sinistra “fucsia” delle ZTL e dei Gay Pride: due scarpe diverse, ma dello stesso padrone americano.

Linguaggio diverso, stesso burattinaio.
Il complotto ebraico contro il mondo non è mai esistito prima del 1945: è semmai una conseguenza delle persecuzioni subite, il cui culmine fu l’Olocausto. Ma nel tempo, fare le vittime è diventato uno strumento di potere, man mano che il movimento sionista degenerava.

Il senso di colpa inculcato agli europei — soprattutto ai tedeschi, disposti a soccorrere Israele fino alla propria autodistruzione — serve agli americani per avere carne da macello, come fecero con i sovietici durante la Seconda guerra mondiale.

Oggi, non avendo più la Russia a disposizione come esportatore di carne umana, si vorrebbe che fossero gli europei a immolarsi, quando i pazzi di Tel Aviv tenteranno di realizzare la Grande Israele dal Nilo all’Eufrate.

I palestinesi sono solo l’assaggio: una volta fatti fuori da Gaza e Cisgiordania, gli “Accordi di Abramo” serviranno solo a gettare fumo negli occhi degli altri arabi. Aspettiamoci scintille dalla Turchia, che presto arriverà ai ferri corti per Cipro e per i giacimenti offshore tra la sua costa e la foce del Nilo. Anche l’Egitto se n’è accorto, proponendo una NATO arabo-islamica, ma al Cairo non sospettano minimamente ciò che accadrà in Medio Oriente nei prossimi due o tre anni.

Questo è tutto, da underdog ad underdog.

Ettore Alpi

Il Napoli Vince, Napoli Resta Ferma

Il Napoli ha vinto il quarto scudetto, e le strade della città sono esplose in un tripudio di colori, cori e bandiere. È stato bello vedere quella gioia condivisa, la città intera unita in un’unica emozione. Ma appena le feste si placano, resta il senso amaro di un paradosso: quella stessa città che sa urlare di gioia per la sua squadra fatica a unirsi quando si tratta di migliorare la propria vita quotidiana, le proprie strade, le proprie scuole, il proprio futuro.

Non è un problema di passione o intelligenza. Napoli, da secoli, convive con la bellezza più pura e con problemi strutturali radicati. Benedetto Croce descrisse questa contraddizione come un “paradiso abitato da diavoli”: un luogo capace di incanto e genio, ma dove l’inerzia e la rassegnazione hanno sempre avuto spazio. La storia ha plasmato abitudini e strategie di sopravvivenza che premiano l’individualismo e la furbizia, a volte a scapito del bene comune. Eppure, questa città avrebbe tutte le potenzialità per diventare un esempio di energia e collaborazione civica.


Il calcio, allora, diventa una valvola di sfogo. È lì che si riversano frustrazioni, orgoglio, identità. Si urla, si canta, si piange per una vittoria che simboleggia ciò che altrove sarebbe incanalato in cambiamenti reali, politici o civici. Non è un fenomeno solo napoletano: accade in molte società latino-americane, dove la passione sportiva diventa un modo sicuro per esprimere rabbia e speranza. Ma la gloria del pallone non cambia le cose.

E così lo stereotipo resiste: un popolo di “pecore” che subisce regole e istituzioni inefficienti, mentre pochi furbi ne approfittano. Estremo? Forse. Ma osservando la realtà, è difficile ignorare quanto la sfiducia strutturale e la mancanza di collaborazione diffusa abbiano radici profonde. Eppure non tutto è fermo: ci sono persone che lottano, che innovano, che cercano di risvegliare la città. La vera sfida è trasformare l’energia che esplode per una vittoria sportiva in forza collettiva per cambiare la città stessa.

Fino a quel momento, Napoli continuerà a vincere in campo, ma a restare ferma fuori. Il trionfo calcistico sarà un lampo di gioia, un momento di orgoglio, senza diventare il simbolo di una comunità finalmente capace di fare squadra davvero.

Democrazia sotto attacco: perché serve formazione politica

L’improvvisazione in politica non è un dettaglio innocuo, non è semplicemente la “moneta cattiva che scaccia la buona”. È un pericolo reale, che mette in gioco il destino della democrazia stessa. In un mondo in cui élite economiche attendono solo il collasso dei sistemi democratici per consolidare monopoli e cartelli, la superficialità dei governanti non è solo una debolezza: è un’occasione di predazione. Poco importa se sparisce il ceto medio o se gran parte della popolazione cade in miseria, perché per chi conta solo il profitto la crisi è un’opportunità.



Eppure, la democrazia non è condannata a trasformarsi in tirannide. Ogni regime ha un ciclo: nascita, maturità, decadenza. Ma la durata di quel ciclo dipende dalla capacità dei cittadini di comprendere, partecipare e guidare. Salvare la democrazia non è un gesto simbolico: è un atto di responsabilità, un impegno concreto contro chi, silenzioso e potente, attende il suo cadavere.

Contrastare l’improvvisazione non significa solo smascherare il dilettante che si presenta alle elezioni comunali senza esperienza. Significa costruire strumenti, reti, scuole di formazione politica capaci di trasmettere conoscenza e visione. Non si tratta di distinguere tra delibera e determina: si tratta di formare menti in grado di leggere la società, di anticipare le conseguenze delle decisioni, di governare con consapevolezza.

E tutto questo deve partire dal piccolo, dal concreto. È nella gestione quotidiana delle comunità locali che nasce la competenza necessaria per affrontare sfide più grandi. La politica non si improvvisa: si impara, si costruisce, si difende. La democrazia sopravvive solo se chi la guida non è un improvvisatore, ma un custode attento e preparato.

Dallas 1963: l’omicidio che nessuno sembra credere davvero

Il 22 novembre 1963, la città di Dallas diventò teatro di un evento destinato a cambiare per sempre la storia americana: l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. La versione ufficiale, quella della Commissione Warren, parla di un singolo individuo, Lee Harvey Oswald, che agì da solo. Secondo questa narrazione, Oswald avrebbe sparato dal deposito di libri scolastici senza alcun complice né sostegno esterno. Tuttavia, sin dai primi istanti dopo la tragedia, questa spiegazione ha suscitato dubbi e scetticismo, dando origine a una delle più longeve e complesse serie di teorie del complotto del XX secolo.

L'attentato di Dallas - 22 novembre 1963

Tra le ipotesi più ricorrenti vi è quella che coinvolge la mafia americana. L’amministrazione Kennedy, e in particolare Robert Kennedy, aveva dichiarato guerra aperta al crimine organizzato, creando nemici potenti e ben collegati. Alcuni legami tra Oswald, Jack Ruby – l’uomo che poche ore dopo l’assassinio uccise Oswald – e ambienti mafiosi di New Orleans e Chicago, hanno alimentato sospetti concreti. In questa prospettiva, l’attentato non sarebbe stato un atto isolato, ma il risultato di una logica di vendetta e di preservazione di interessi criminali, con Ruby come pedina di collegamento.

Altra pista intrigante riguarda la CIA e i settori deviati dell’apparato statale. Il conflitto tra Kennedy e l’agenzia di intelligence americana era evidente: dalla fallita invasione della Baia dei Porci alla gestione della crisi dei missili di Cuba, il presidente era percepito da molti funzionari come un ostacolo per la politica estera aggressiva degli Stati Uniti. Documenti desecretati in anni successivi mostrano operazioni e rapporti non divulgati, lasciando aperta la possibilità che elementi interni abbiano pianificato l’assassinio o, quanto meno, abbiano contribuito a insabbiarne le tracce.

Molti hanno anche avanzato l’ipotesi che più cecchini abbiano partecipato all’attentato. Alcuni testimoni riportarono colpi provenienti dal cosiddetto grassy knoll, mentre analisi successive hanno sollevato dubbi sulla cosiddetta “magic bullet”, la pallottola che avrebbe colpito Kennedy e il governatore Connally seguendo una traiettoria apparentemente impossibile. Sebbene nessuna prova fisica abbia mai confermato la presenza di più tiratori, il mistero della dinamica dei colpi continua a nutrire sospetti su una verità molto più complessa di quella raccontata ufficialmente.

Le ipotesi meno probabili ma comunque presenti nella narrazione alternativa coinvolgono Cuba, l’URSS o addirittura intrighi interni alla politica americana. Castro, in fuga da continue operazioni della CIA mirate a eliminarlo, e Oswald stesso, con il suo passato legato all’Unione Sovietica, sono stati a lungo citati come potenziali mandanti o pedine. Tuttavia, la mancanza di prove concrete e l’alto rischio politico rendono queste versioni molto più fragili.

Ciò che emerge con chiarezza è che, a sessant’anni di distanza, l’assassinio di Kennedy resta avvolto da un alone di incertezza. La versione del “lupo solitario” non riesce a spiegare tutte le anomalie, mentre le connessioni tra mafia, apparato statale e possibili più fucilieri offrono una cornice di plausibilità maggiore. Dallas 1963 non fu solo un omicidio: fu un evento in cui il potere, il crimine e la politica internazionale si intrecciarono in modi che ancora oggi sfidano la nostra comprensione.

La Destra Montanelliana e la Destra Badogliana: due destre italiane, mondi opposti

In Italia, la parola destra ha assunto nel tempo molteplici significati, a volte addirittura contraddittori. In questo panorama, due concetti spiccano per densità simbolica e contrapposizione culturale: la Destra Montanelliana e la Destra Badogliana. Pur condividendo in apparenza un orientamento conservatore, rappresentano in realtà due visioni del mondo antitetiche. E in questo scontro ideologico, si inserisce anche una terza figura: il giustizialismo all’italiana, rappresentato emblematicamente da Marco Travaglio, che prende qualcosa dall’una e si oppone frontalmente all’altra.


La Destra Montanelliana: liberale, scettica, borghese

Indro Montanelli (1909 -2001)

Il termine Destra Montanelliana si riferisce alla visione culturale incarnata da Indro Montanelli, giornalista di razza, monarchico, anticomunista ma anche profondamente liberale e scettico verso ogni potere costituito. Questa destra si distingue per alcune caratteristiche fondamentali:

  • Anticomunismo disilluso, ma anche antifascismo culturale: Montanelli fu un giovane fascista, ma se ne distaccò negli anni ’40, criticandone l’ideologia e l’autoritarismo.
  • Liberalismo borghese: una visione dell’Italia come paese da tenere al riparo dagli estremismi, con una borghesia colta e ironica a fare da argine.
  • Laicismo e anticlericalismo democratico: pur rispettando la tradizione cristiana, Montanelli diffidava delle ingerenze vaticane in politica.
  • Spirito anti-retorico e sobrio: opposto al populismo, al sensazionalismo, all’urlo di piazza. La destra montanelliana è fatta di misura, scetticismo, eleganza intellettuale.

In sintesi, è una destra che non ama il potere, anche quando lo sostiene; che si fida più della cultura che dei partiti; che preferisce essere minoranza pensante piuttosto che massa acclamante.


La Destra Badogliana: trasformismo e sopravvivenza

Tutt’altra cosa è la cosiddetta Destra Badogliana, definizione che prende origine da Pietro Badoglio, il maresciallo d’Italia che, nel settembre del 1943, dopo anni di fedeltà al fascismo, firmò l’armistizio con gli Alleati e fuggì lasciando il paese allo sbando. Da allora, “badogliano” è sinonimo di trasformismo, opportunismo, adattamento al nuovo potere.

Questa destra:

  • È priva di un impianto ideologico stabile. Può passare dal fascismo alla democrazia, dal liberismo al dirigismo, purché non perda le poltrone.
  • È attendista, mai rivoluzionaria, pronta a cambiare pelle per salvare sé stessa.
  • Ama il potere per il potere, e considera i valori un ornamento da esibire, non una bussola.
  • È retorica e rassicurante, capace di usare il patriottismo come coperta, senza però prendersi mai davvero responsabilità.


In altre parole, la Destra Badogliana è quella che non muore mai, che sopravvive a tutte le stagioni politiche, che si mimetizza con chi comanda. Dove la destra montanelliana muore per coerenza, quella badogliana sopravvive per convenienza.


Giustizialismo e Marco Travaglio: né con l’una, né con l’altra?

Nel mezzo di queste due visioni, si colloca il giustizialismo italiano, ossia quella tendenza culturale a porre la questione morale e la legalità come uniche bussole politiche. A differenza della sinistra riformista o della destra tradizionale, il giustizialismo non costruisce un progetto politico organico, ma si limita a denunciare – spesso con toni apocalittici – la corruzione del sistema.

Il giornalista Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, è il principale esponente di questa visione. Travaglio fu allievo diretto di Montanelli, da cui ha ereditato la scrittura affilata, l’insofferenza verso il potere, l’amore per l’ironia. Tuttavia:

A differenza di Montanelli, Travaglio non è garantista, ma spesso pende verso un giustizialismo moralista.

È populista nei toni, vicino alle istanze del Movimento 5 Stelle e ai magistrati della stagione di Mani Pulite.

Rifiuta tanto la Destra Badogliana (che accusa di essere corrotta e trasformista), quanto quella Montanelliana, giudicata troppo borghese e indulgente verso le élite.

Potremmo definirlo un eretico montanelliano, uno che ha preso la spina dorsale di Montanelli e l’ha innestata su un corpo populista. È un cane da guardia della legalità, ma con la tendenza a mordere senza distinzioni, anche a costo di travolgere lo stato di diritto.


Chi sopravvive oggi?

Oggi, la Destra Montanelliana è quasi scomparsa: non ha eredi nei partiti, e i suoi giornali – da Il Giornale a La Voce – sono stati snaturati. La Destra Badogliana, al contrario, prospera: si adatta ai nuovi equilibri, mantiene fedeltà al potere di turno, continua a galleggiare.

Il giustizialismo travagliesco, invece, ha trovato spazio in una parte dell’opinione pubblica delusa, disillusa, impaurita, ma anche affamata di giustizia. Tuttavia, non ha mai costruito un progetto positivo, restando un eterno controcanto, a volte fastidioso, altre necessario.


Conclusione

Nel caos delle destre italiane, la Destra Montanelliana rimane un ricordo nobile ma inascoltato; la Destra Badogliana è la regina silenziosa del Palazzo, sempre pronta a cambiare cappello; mentre il giustizialismo di Travaglio rappresenta l'anima inquieta del Paese, quella che denuncia ma non governa, che grida ma non costruisce.

Comprendere queste tre anime aiuta a leggere non solo la destra italiana, ma l’intera fragilità del sistema politico nazionale, fatto più di tatticismi e narrazioni che di idee forti e visioni coraggiose.

Italia, la fucina invisibile delle mode politiche: da Mussolini a Berlusconi, fino a Trump

C’è un tratto singolare nella storia d’Italia: spesso ciò che nasce qui, sotto forma di intuizione politica o culturale, diventa modello esportato e perfezionato altrove. È accaduto con la moda, con il design, con la cucina. Ma soprattutto con la politica, dove il nostro Paese sembra avere una strana vocazione: anticipare fenomeni che, una volta oltrepassate le Alpi o l’Atlantico, esplodono in forme più radicali e definitive.


Il fascismo ne è il caso più evidente. Quando Mussolini marciò su Roma nel 1922, l’Europa guardò con stupore e inquietudine. Nessuno aveva ancora visto una dittatura moderna capace di mescolare miti antichi, nazionalismo e spettacolo di massa. Hitler stesso, ancora un politico in ascesa, osservava attentamente il Duce. Gli storici ricordano come le prime organizzazioni naziste imitassero i riti, le adunate e perfino lo stile delle camicie nere italiane. Senza Mussolini, il nazismo avrebbe forse trovato altre strade, ma difficilmente avrebbe avuto un prototipo così tangibile da seguire.

Decenni dopo, la storia si ripete con un altro nome che segnerà un’epoca: Silvio Berlusconi. Quando scese in campo nel 1994, non era soltanto un imprenditore che entrava in politica, ma l’incarnazione di un modello nuovo: il leader mediatico, capace di parlare direttamente al pubblico attraverso i propri canali televisivi, scavalcando la politica tradizionale. L’Italia, ancora una volta, sperimentava per prima ciò che il resto del mondo avrebbe conosciuto anni dopo. Quando Donald Trump vinse le elezioni americane nel 2016, molti osservatori non ebbero dubbi: era la versione americana del berlusconismo. Stesse radici nell’imprenditoria, stessa abilità nel trasformare il carisma mediatico in consenso politico, stessa irriverenza verso le regole istituzionali.

Si potrebbe sorridere, ma c’è quasi un destino: l’Italia lancia il sasso, altri raccolgono l’onda. È accaduto con le dittature tra le due guerre, con il populismo televisivo negli anni Novanta, e in fondo accade anche con fenomeni culturali. Pensiamo alla pizza, nata come cibo povero napoletano, divenuta negli Stati Uniti un’industria miliardaria; o al Rinascimento, che esplose a Firenze e poi ridefinì l’intera Europa.

Forse, più che un paradosso, è la cifra della nostra storia. L’Italia inventa, sperimenta, azzarda. Gli altri prendono, rielaborano e spesso perfezionano. Eppure, senza la scintilla italiana, molte fiamme non si sarebbero mai accese.

Gli Ebrei nello Stato Pontificio e le angherie subite

Nella Roma papalina, fino al 1870 e alla presa di Porta Pia, la condizione degli ebrei era segnata da discriminazioni, umiliazioni e coercizioni che affondavano le radici nel Medioevo. Lo Stato della Chiesa, pur avendo momenti di maggiore tolleranza, mantenne a lungo un regime di separazione e subordinazione.


Il Ghetto

Nel 1555, con la bolla Cum nimis absurdum di papa Paolo IV, fu istituito il Ghetto di Roma, una zona angusta e malsana sulle rive del Tevere, nei pressi del Portico d’Ottavia. Qui gli ebrei erano obbligati a vivere, chiusi da cancelli che si aprivano al mattino e si serravano al tramonto. Le abitazioni erano sovraffollate, le condizioni igieniche pessime, e spesso le piene del fiume allagavano i piani bassi con gravi conseguenze.

Ghetto di Roma - scorcio della sinagoga


Restrizioni e umiliazioni

Gli ebrei non potevano possedere beni immobili, erano esclusi da molte professioni e obbligati a portare un segno distintivo (cappelli gialli per gli uomini, veli dello stesso colore per le donne). Dovevano inoltre subire pubbliche prediche di conversione.


Le prediche forzate

Una delle umiliazioni più dure era l’obbligo di assistere alle prediche coatte: gli ebrei venivano condotti nella chiesa di San Gregorio a Ponte Quattro Capi, proprio ai margini del ghetto, dove regolarmente venivano loro rivolti sermoni volti a convincerli a convertirsi. Non era possibile sottrarsi: la partecipazione era obbligatoria, e l’esperienza era vissuta come una violenza psicologica.


Conversioni forzate e rapimenti di bambini

Il caso più famoso è quello di Edgardo Mortara (1858). Nato a Bologna da una famiglia ebrea, da piccolo fu battezzato di nascosto da una domestica cattolica che temeva per la sua salute. Quando le autorità pontificie ne vennero a conoscenza, ordinarono che fosse sottratto ai genitori e affidato a un’istituzione cattolica, perché, essendo ormai cristiano, non poteva crescere in una famiglia ebrea. Pio IX seguì personalmente il caso, rifiutando ogni richiesta di restituzione. Questo episodio ebbe enorme risonanza internazionale, diventando simbolo delle angherie inflitte agli ebrei nello Stato Pontificio.


L’uscita dal ghetto

Solo con l’arrivo delle truppe italiane nel 1870 e la fine del potere temporale dei papi, i cancelli del ghetto furono abbattuti. Da quel momento gli ebrei ottennero la piena cittadinanza, anche se il peso delle discriminazioni secolari non svanì subito.

Quello che emerge è che la Roma papalina, lungi dall’essere solo la capitale spirituale del cattolicesimo, fu anche un luogo di oppressione per chi professava un’altra fede. Le conversioni forzate, le prediche coatte e i rapimenti di minori restano tra le pagine più buie della sua storia.

La mia Menorah a casa


Da Salvia a Savoia: Passannante e il prezzo dell’umiliazione

Anni fa mi trovai a Savoia di Lucania, tra le strade acciottolate illuminate da lanterne tremolanti durante la festa di San Rocco. Passeggiando, i miei occhi furono catturati dai murales che raccontano la storia di Giovanni Passannante e del suo gesto disperato a Napoli. I colori sembravano vivi, le figure quasi respirare: il coltello, il volto teso del re, la folla confusa. C’era qualcosa di inquietante in quelle immagini, un brivido che correva lungo la schiena, come se la tragedia di Passannante continuasse a vivere tra le pietre del paese. E guardando quei murales, non potevo non pensare al nome stesso di quel luogo: Salvia, trasformato in Savoia, come se l’onta storica della postunità avesse voluto cancellare la memoria e l’identità di un piccolo borgo lucano. Convinto meridionalista, penso che quel nome andrebbe restituito, perché l’umiliazione è durata troppo a lungo e merita di finire.

Murales con l'immagine di Passannante

Giovanni Passannante nacque a Salvia nel 1849, in una casa modesta dove la miseria era padrona e il futuro un’ombra lunga sulle pareti. Crescendo tra stenti e privazioni, il suo cuore si fece cupo e ribelle. Ogni ingiustizia subita, ogni sguardo di disprezzo della società verso i poveri e i dimenticati, scavava più a fondo nel suo animo. Non era un uomo cattivo, ma un uomo piegato dal destino e dal contesto storico, consumato dalla rabbia verso un’Italia appena unita, percepita come fredda e oppressiva.

Il 17 novembre 1878, il destino e la storia si intrecciarono. Napoli era in fermento per la visita del re Umberto I. Passannante, con il cuore che batteva come un tamburo di guerra, si avvicinò al sovrano con un coltello stretto tra le dita. L’aria sembrava densa, ogni passo rimbombava nella mente come una sentenza. Tentò l’attentato. Il coltello si alzò, e per un istante il tempo parve fermarsi. Poi la folla, il caos, le urla. Il re fu solo lievemente ferito, ma l’atto era compiuto, e con esso il destino di Passannante si chiuse in un abisso dal quale non avrebbe mai più potuto uscire.

Arrestato e condannato, Passannante non vide giustizia, ma tortura. Fu rinchiuso nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove l’isolamento e i maltrattamenti divennero la sua prigione quotidiana. Le sue giornate si dissolvevano in silenzi, urla soffocate e sperimentazioni mediche crudeli, mentre la sua mente, già provata, si frantumava un frammento alla volta. La vita che aveva conosciuto era ridotta a un’ombra. Morì nel 1910, dimenticato da tutti, un uomo spezzato che era diventato simbolo del prezzo che la società fa pagare ai fragili e agli emarginati.

La vicenda di Giovanni Passannante è una ferita aperta nella memoria del Sud, un monito sulla crudeltà della storia e sul peso delle ingiustizie sociali. Tra i murales di Savoia di Lucania e le pietre silenziose di Salvia, si sente ancora il brivido di quel gesto disperato, la tragedia di un uomo e di un paese che meriterebbero di riappropriarsi della loro dignità. Restituire a Salvia il suo nome sarebbe più di un atto simbolico: sarebbe un riscatto, una luce in mezzo alle ombre, un piccolo gesto di giustizia verso chi, nella storia, ha già pagato un prezzo troppo alto.

Strisce blu, il grande abuso: così i Comuni trasformano le città in bancomat

C’è un punto oltre il quale la regolazione della sosta smette di essere un servizio e diventa un prelievo forzoso mascherato. In molte città italiane questo limite è stato superato da tempo, e il fenomeno delle strisce blu è ormai percepito da migliaia di cittadini come l’emblema di amministrazioni che hanno smarrito il senso della misura. L’idea originaria – favorire la rotazione delle auto nelle aree congestionate e migliorare la vivibilità urbana – è stata piegata a logiche di cassa, fino a trasformarsi in un sistema che colpisce indiscriminatamente residenti, lavoratori, studenti e visitatori.

La legge parla chiaro: il Codice della Strada impone che i parcheggi a pagamento siano affiancati, nelle immediate vicinanze, da adeguate aree di sosta gratuita. È un principio di equità, non un dettaglio tecnico. Ma in molte città è diventato lettera morta. Quartieri interi sono stati saturati di strisce blu, mentre le strisce bianche sono state relegate ai margini più remoti, quando non sono scomparse del tutto. E il tutto viene giustificato con la formula magica dell’“impossibilità tecnica”, un’espressione che ricorre con sospetta frequenza nelle delibere comunali e che spesso nasconde l’assenza di una reale volontà politica di garantire alternative.

Il caso di Napoli è uno degli esempi più eclatanti. Qui il prezzo per un’ora di sosta nelle aree centrali è arrivato a toccare quattro euro, se non di più nelle zone considerate “pregiate”. Una tariffa che non scoraggia l’uso dell’auto: semplicemente punisce chi non ha altre opzioni. Chi vive nella provincia, infatti, non gode di un sistema di trasporto pubblico degno di una grande città europea. Ci sono territori dove gli autobus passano con frequenze inaffidabili, dove i collegamenti sono insufficienti, dove l’auto privata non è una scelta ma un obbligo. In queste condizioni, imporre tariffe proibitive significa escludere intere fasce di popolazione dal diritto di accedere al centro cittadino. È una forma di selezione economica, non una politica di mobilità.

Il cittadino che arriva da fuori città, per una visita medica, un appuntamento di lavoro, un impegno burocratico o un semplice momento di vita quotidiana, si ritrova a dover scegliere tra pagare cifre esorbitanti o cercare un improbabile parcheggio gratuito a chilometri di distanza. E se non paga, rischia la sanzione. Non è un servizio: è un meccanismo punitivo, un pedaggio urbano non dichiarato che nulla ha a che vedere con una visione moderna della mobilità.

In questo scenario proliferano anche situazioni “creative”, con aree recintate senza sbarre ma piene di strisce blu, terreni adattati a parcheggi improvvisati e gestiti come se fossero infrastrutture moderne. Anche in questo caso la normativa imporrebbe chiarezza, trasparenza, cartellonistica adeguata, atti autorizzativi. Ma la realtà che molti cittadini incontrano è fatta di ambiguità e improvvisazione, dove il confine tra regolazione e abuso si fa sempre più sottile.

Alla fine, la percezione diffusa è che il sistema della sosta sia diventato uno strumento di autofinanziamento, non un mezzo per migliorare la qualità della vita. E quando la sosta diventa un lusso, la città smette di essere di tutti. I centri storici si svuotano di residenti e si riempiono di chi può pagare; la provincia resta periferia non solo geografica, ma anche sociale; il trasporto pubblico continua a non essere potenziato, perché non c’è alcun incentivo reale a farlo: tanto a pagare ci pensa chi arriva in auto.

Denunciare questo stato di cose non significa opporsi alla modernizzazione o alla sostenibilità. Significa, al contrario, richiamare le amministrazioni a una visione più ampia, in cui la mobilità sia davvero accessibile e il cittadino non sia trattato come una fonte di entrate. Le città dovrebbero essere luoghi aperti, non zone a pedaggio; spazi da vivere, non ostaggi della monetizzazione; comunità, non bancomat.

Finché le strisce blu rimarranno uno strumento pensato più per incassare che per servire, il rapporto tra cittadini e istituzioni continuerà a incrinarsi. E il centro delle nostre città resterà un privilegio riservato a chi può permetterselo, mentre per tutti gli altri sarà un territorio sempre più lontano, costoso e ostile.

Le Mille e una Notte come archetipo delle fiabe

Le Mille e una Notte non è soltanto una raccolta di racconti orientali, ma un vero e proprio archetipo della narrazione fiabesca, un laboratorio di temi, motivi e strutture che avrebbero plasmato l’immaginario di generazioni successive in tutto il mondo. La sua forza risiede, innanzitutto, nella struttura narrativa a cornice: la storia di Shahrazad, costretta a raccontare ogni notte una nuova vicenda per salvare la propria vita, crea un meccanismo di suspense e concatenazione che si ritrova in numerose fiabe occidentali. L’intreccio di storie dentro altre storie, l’abilità di sorprendere e di intrattenere simultaneamente, anticipa ciò che sarà poi il cuore della narrazione episodica e della fiaba seriale.


I motivi fantastici che popolano queste pagine costituiscono archetipi universali. Viaggi iniziatici, tesori nascosti, prove ardue, inganni astuti e magie trasformative sono elementi che non appartengono più soltanto al folklore mediorientale, ma diventano codici condivisi della fiaba in senso lato. Sindbad e i suoi sette viaggi, Aladino e la lampada magica, Ali Baba e i quaranta ladroni sono esempi di avventure in cui il coraggio, l’astuzia e la fortuna si intrecciano, elementi che ritroviamo in storie come Pinocchio o La Bella e la Bestia. L’amore e il pericolo convivono in un delicato equilibrio, così come il confine tra il reale e il fantastico si dissolve, aprendo la porta a mondi in cui l’eroe o l’eroina possono trasformarsi, crescere e trionfare.

Oltre all’aspetto narrativo, Le Mille e una Notte svolge una funzione morale ed educativa. Le vicende raccontate da Shahrazad non sono mai fini a se stesse; attraverso la parola e la narrazione, la protagonista impartisce insegnamenti impliciti sul coraggio, sulla giustizia e sull’ingegno. Questa dimensione pedagogica della fiaba, che si manifesta già in Oriente, diventerà un elemento essenziale della tradizione europea, conferendo alle fiabe una funzione non solo estetica ma anche etica e sociale.

La diffusione delle Mille e una Notte in Europa, a partire dal XVII secolo con le traduzioni di Antoine Galland, segna un punto di passaggio fondamentale: i motivi esotici, la magia e le complesse strutture narrative vengono assimilati e reinventati, dando origine a una nuova genealogia di fiabe che attraversa secoli e confini culturali. Così, ciò che era patrimonio di un’area geografica diventa matrice di narrazione universale, un modello da cui le fiabe occidentali hanno tratto ispirazione, spesso inconsapevolmente.

In definitiva, Le Mille e una Notte non è solo una raccolta di racconti affascinanti e avventurosi. È un archetipo della fiaba stessa, un laboratorio di forme, temi e insegnamenti che hanno plasmato la tradizione narrativa mondiale. La sua eredità non risiede soltanto nelle singole storie, ma nella capacità di costruire mondi, tensioni e significati che continuano a influenzare chiunque voglia raccontare una storia, rendendola eterna come la parola di Shahrazad.

Corradino, l’ultima testa del Sud: la storia che fu e quella che poteva essere

Napoli, piazza Mercato, ottobre 1268. Un boia alza la spada, la folla trattiene il fiato, un ragazzo di appena sedici anni china il capo. Si chiama Corradino di Svevia, l’ultimo discendente di Federico II, e il suo sangue scorrerà sul selciato come una sentenza. Non è solo la fine di una dinastia, ma l’inizio di un destino che cambierà per sempre il Mezzogiorno.

Monumento funebre di Corradino di Svevia - Chiesa del Carmine (Napoli)

La sua morte segna la chiusura brutale della stagione sveva, quella in cui il Regno di Sicilia non era terra di conquista ma centro di un progetto imperiale che dialogava con l’Europa. Con Corradino decapitato, Carlo d’Angiò prende possesso del trono: il Sud diventa pedina nelle mani di potenze straniere, e Napoli, da capitale promettente, si trasforma in una vetrina di ricchezze spremute per altri.

La storia ufficiale la conosciamo. Angioini avidi, Aragonesi raffinati ma divisi, Spagnoli lontani che governano con tasse e viceré, fino all’Unità d’Italia che cala sul Mezzogiorno come una seconda conquista. Un filo rosso di subalternità e sfruttamento che si trascina per secoli, interrotto solo a tratti, quando qualche dinastia restituiva dignità e respiro al regno.

Ma proviamo per un istante a cambiare prospettiva. E se quel giorno a Tagliacozzo, invece di cadere nell’inganno, Corradino avesse vinto? L’immagine cambia: Carlo d’Angiò sconfitto, Napoli capitale sveva, il Regno di Sicilia saldo nell’orbita imperiale. Non più viceré forestieri ma una corte giovane, radicata e ambiziosa, capace di legare il Mediterraneo al cuore dell’Europa. Forse il Rinascimento avrebbe trovato qui, nel Sud, il suo laboratorio più precoce. Forse il Regno avrebbe potuto reggere come potenza autonoma, simile all’Aragona o al Portogallo, e l’Italia unita, se mai fosse nata, avrebbe avuto un Sud protagonista, non un fratello minore.

La tragedia di Corradino non sta solo nel volto smarrito di un adolescente condannato a morte. Sta nel destino spezzato di un popolo e nella possibilità perduta di un’altra storia. Ogni volta che si ripensa a quel giorno di ottobre, tra le pietre di piazza Mercato, si sente l’eco di ciò che poteva essere: un Mezzogiorno diverso, più libero, più centrale, più suo.

Dai giocattoli agli ingranaggi: come la mancanza di schiavi ha fatto nascere le macchine

Immaginate di trovarvi in una bottega del mondo antico, tra ingranaggi di bronzo e ruote dentate. Davanti a voi c’è il meccanismo di Anticitera, un piccolo capolavoro di precisione: un orologio astronomico in grado di prevedere le eclissi e i movimenti dei pianeti. Un miracolo di ingegno, eppure, alla fine, un sofisticato giocattolo. 

Meccanismo di Anticitera

Nella Grecia e nella Roma antica, così come nel Medioevo europeo, la tecnologia esisteva, ma non era nata per sostituire l’uomo nel lavoro quotidiano. Automi, mulini ad acqua, orologi da torre erano meraviglie per stupire e divertire, non strumenti di produzione. Perché, allora, non inventare macchine capaci di fare il lavoro degli uomini? La risposta è semplice: il lavoro umano era praticamente gratis. Schiavi, servi e contadini vincolati rendevano inutile ogni altra sostituzione meccanica.

Ma la storia ha i suoi capovolgimenti. Quando la servitù cominciò a diminuire e il lavoro umano a costare di più, la situazione cambiò radicalmente. La scarsità di manodopera non era più solo un problema sociale: diventava un incentivo a inventare. Chi riusciva a creare macchine capaci di sostituire l’uomo otteneva un vantaggio enorme. Così, i filatoi meccanici, i primi telai e le macchine a vapore entrarono in scena. Non erano più semplici giochi di ingegno: erano strumenti concreti di produzione. L’ingegno smise di essere un divertimento da élite e divenne motore della rivoluzione industriale.

Così, il passaggio dalle meraviglie meccaniche antiche alle macchine industriali non è solo una questione di tecnica, ma anche di economia e società. Senza la scarsità di lavoro umano, il meccanismo di Anticitera sarebbe rimasto un giocattolo straordinario, ammirato ma inutile. Fu la mancanza di schiavi e servi a trasformare l’ingegno in produzione, aprendo la strada a un mondo dove le macchine cominciano a prendere il posto degli uomini, cambiando per sempre la storia.


Corpi Silenziosi: il Dramma delle Mutilazioni Genitali Femminili

In alcune parti del mondo, milioni di ragazze crescono sotto l’ombra di una violenza silenziosa, una tradizione antica che segna per sempre il loro corpo e la loro vita. L’infibulazione, la forma più estrema delle mutilazioni genitali femminili, non è solo un atto fisico: è una ferita indelebile, un marchio imposto dalla società, un simbolo di controllo sulla femminilità e sulla libertà. Le conseguenze sono immediate e devastanti: dolore lancinante, sanguinamento incontrollabile, infezioni che minacciano la vita. Ma le cicatrici più profonde sono invisibili: traumi psicologici, paura, vergogna, la sensazione che la propria esistenza sia stata decisa da altri.

Questa pratica affonda le sue radici in rituali secolari, legati a concetti di purezza, onore e appartenenza. In molte comunità, tagliare e cucire i genitali femminili è considerato un rito di passaggio, un modo per “preparare” la ragazza alla vita adulta e al matrimonio. Spesso si invocano motivazioni religiose, ma nessuna religione prescrive l’infibulazione: è la tradizione, la paura della disapprovazione sociale, la convinzione che senza questo rito la ragazza sarà respinta, a perpetuare l’orrore. Controllare il corpo femminile diventa così un modo per controllare la società stessa.

Nonostante leggi, campagne di sensibilizzazione e pressione internazionale, milioni di bambine continuano a subire mutilazioni ogni anno. Somalia, Sudan, Eritrea e altri paesi concentrano le statistiche più drammatiche, ma il fenomeno ha ormai superato i confini nazionali. Le migrazioni hanno portato queste pratiche anche in Europa, Nord America e Australia, dove comunità chiuse le mantengono segrete, come un oscuro rituale di fedeltà culturale. La forza della tradizione, unita alla paura dello stigma, mantiene viva una violenza che sembra invisibile agli occhi del mondo.

Per spezzare questa catena, servono strumenti concreti e coraggio collettivo. Leggi severe, programmi educativi, empowerment femminile e assistenza medica diventano armi contro un sistema culturale che ha imposto il silenzio. Bisogna parlare alle comunità, convincerle che proteggere le proprie figlie non significa tradire la tradizione, ma riscoprire la vera dignità della femminilità. Occorre dare voce alle vittime, offrire loro sostegno psicologico e sanitario, permettere che la cicatrice diventi simbolo di resilienza, non di vergogna.

Il futuro delle ragazze a rischio dipende da chi decide di non voltarsi dall’altra parte. Eliminare le mutilazioni genitali femminili significa restituire libertà, sicurezza e diritti. Significa immaginare un mondo in cui nessun corpo debba più pagare con il dolore, la paura e la superstizione. Solo così, un passo alla volta, la tradizione si trasformerà da condanna a protezione, e i corpi silenziosi potranno finalmente gridare la loro dignità.

Il cunto de li cunti: Basile e l’eco immortale delle fiabe

Nel cuore della Napoli del Seicento, Giambattista Basile diede vita a Il cunto de li cunti, un’opera che avrebbe cambiato per sempre il destino delle fiabe in Europa. Scritta in un napoletano brillante, intriso di ironia e di colori popolari, la raccolta non si limitava a trascrivere storie già raccontate a voce: Basile le arricchiva con intrecci complessi, personaggi vividi e dettagli grotteschi, trasformando la materia orale in letteratura vera e propria. Le sue fiabe erano al contempo spietate e divertenti, crudeli e poetiche, capaci di affascinare chiunque le leggesse.


L’influenza di Basile sulla letteratura europea è enorme e spesso sottovalutata. Storie come “Cenerentola” (La gatta Cenerentola), con la matrigna crudele e la fanciulla oppressa, o “La Bella Addormentata” (Sun, Moon and Talia), e persino “Pollicino”, furono riprese e adattate da autori come Charles Perrault e i fratelli Grimm. Ma queste versioni più note, edulcorate e adattate ai gusti del pubblico colto, sono in realtà discendenti dirette delle invenzioni di Basile. Nel Seicento, il concetto moderno di diritto d’autore era inesistente, e così le fiabe viaggiavano liberamente: venivano copiate, modificate, trasposte in contesti diversi e raccontate a nuove generazioni, creando una tradizione condivisa, ma sempre in evoluzione.

Questa circolazione delle storie non va letta come un semplice furto letterario, ma come un fenomeno creativo collettivo. Basile, ponendo per la prima volta su carta la vitalità della tradizione orale, ha permesso che le fiabe diventassero patrimonio europeo. Le sue storie, pur trasformate da Perrault in Francia o dai Grimm in Germania, conservano ancora oggi il fascino originario, la capacità di sorprendere e divertire, e soprattutto la loro forza narrativa originale.

In questo senso, Il cunto de li cunti non è soltanto una raccolta di fiabe: è il ponte tra oralità e letteratura, tra Napoli e il resto d’Europa, tra crudeltà popolare e magia della narrazione. Basile ha dimostrato che la creatività, anche quando condivisa e rielaborata, non perde mai la sua essenza: le sue fiabe, scopiazzate e mutate, continuano a vivere, ricordandoci che il potere della parola è immortale.

Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pan...