Nel 1992, con l’arresto di Mario Chiesa, si aprì una stagione destinata a travolgere la Prima Repubblica. Tangentopoli non fu solo un’inchiesta giudiziaria: fu un terremoto politico, culturale, simbolico. Al centro di quella tempesta si impose Antonio Di Pietro, figlio di contadini molisani, magistrato dall’accento duro e dalla determinazione inflessibile. Per milioni di italiani, egli divenne il volto della riscossa, l’uomo che finalmente metteva alle corde un sistema corrotto e diffuso. Chi non ricorda le sue apparizioni televisive, la camicia bianca, la cravatta leggermente slacciata, l’urlo “Mario Chiesa, ti voglio vedere!” che faceva vibrare salotti e piazze?
Per qualche anno, la speranza sembrò tangibile. Le tangenti smascherate, le liste di politici inquisiti e i nomi di ministri e sindaci caduti dalla scena erano raccontati come cronaca quotidiana: da Bettino Craxi che lasciava l’Italia per rifugiarsi ad Hammamet, fino alle file di imprenditori tremanti in aula di tribunale. Ricordate il caso dell’appalto per i rifiuti a Napoli? Tutti parlavano di trasparenza e legalità, eppure gli scandali si ripresentavano sotto altre forme, più sottili, più sofisticate. Oppure le polemiche sull’uso dei fondi pubblici per campagne politiche, sempre giustificate come “necessità della comunicazione”. L’Italia degli onesti ebbe in Di Pietro un simbolo di rivincita civile. Ma la parabola fu breve. Quando il magistrato lasciò la toga per fondare l’Italia dei Valori e approdare al ministero, la sua immagine cambiò. Da “giustiziere” divenne uomo di parte, e le ambiguità della politica cominciarono a incrinare il mito: i contratti, le alleanze, gli intrighi dietro le quinte.
Col passare degli anni, il mito si spense. Gli inquisiti di allora furono riabilitati, i partiti travolti cambiarono nome ma non abitudini, e nuovi saltimbanchi presero la scena con lo stesso sorriso cinico. La cronaca di quegli anni resta memorabile non solo per gli scandali, ma per i siparietti quasi grotteschi che accompagnarono la storia: ministri sorpresi a mentire spudoratamente, deputati che cambiavano casacca tra un processo e l’altro, imprenditori che inventavano conti correnti in paradisi fiscali come se fosse routine quotidiana.
Dal mio osservatorio tra tombe silenziose e corone sepolcrali, vedo l’Italia che ride dei suoi simboli e festeggia i suoi traditori. Il destino di Mani Pulite è diventato il destino del Paese: un’occasione mancata, un’alba che ha solo illuso. La corruzione non fu spazzata via, ma resa più invisibile, più elegante, più accettabile. Come diceva il Principe di Salina ne Il Gattopardo, “bisogna che tutto cambi affinché tutto resti com’è”: nel romanzo di Lampedusa la frase denuncia la cruda realtà dei cambiamenti apparenti, dove la forma muta ma il potere sostanziale rimane intatto. Nella nostra storia politica, questa frase suona quasi profetica: le inchieste, i partiti che crollano, i ministri che cadono… tutto sembra rivoluzionario, eppure i meccanismi di controllo e compromesso restano, più sottili ma invariati.
E oggi, mentre gli onesti si chiedono dove siano finiti, io sorrido tra le lapidi: forse l’Italia degli onesti non è mai esistita, e il vero miracolo di Mani Pulite è stato quello di farci credere per un attimo che potesse esistere… prima di ricordarci, con un ghigno, che la vita continua come prima, solo con nuovi attori sul palco della stessa farsa.
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