La Trattativa Stato-Mafia: perché lo Stato Italiano non rispose con una “Ira di Dio” dopo le Stragi del 1992-1993

 


Le stragi di Capaci (23 maggio 1992) e Via D’Amelio (19 luglio 1992), in cui furono assassinati rispettivamente il magistrato antimafia Giovanni Falcone e il suo collega Paolo Borsellino, rappresentano due momenti traumatici della storia italiana. Questi attentati, insieme alla successiva ondata di attentati dinamitardi avvenuti nel 1993 a Roma, Firenze e Milano, segnarono un’escalation di violenza senza precedenti da parte di Cosa Nostra.

In un contesto internazionale, episodi simili di terrorismo avevano ricevuto risposte immediate e senza compromessi: basti pensare alla “operazione ira di Dio” attuata dal governo israeliano dopo la strage delle Olimpiadi di Monaco nel 1972, con azioni mirate e dure contro i responsabili del massacro. Molti italiani si aspettavano una reazione altrettanto ferma da parte dello Stato italiano, fatta di azioni risolutive, arresti rapidi e una repressione senza quartiere.

E invece, ciò che venne fuori fu un quadro molto più complesso e controverso: emerse infatti l’esistenza di una cosiddetta “trattativa Stato-Mafia”, un percorso negoziale che mirava a contenere la violenza mafiosa in cambio di concessioni giudiziarie e politiche. Questa realtà ha avuto effetti profondi sull’immagine e sull’autostima nazionale, alimentando dubbi e polemiche ancora oggi.


1. Il contesto politico e istituzionale dell’Italia negli anni ’90

Gli anni ’90 rappresentarono un periodo di profonda trasformazione per l’Italia. Il sistema politico, tradizionalmente instabile, fu travolto dagli scandali di Tangentopoli e dall’inchiesta Mani Pulite che, mentre faceva piazza pulita di molte collusioni, indeboliva la classe dirigente e le istituzioni.

In questo scenario di crisi, le istituzioni dello Stato apparivano divise, con una magistratura combattiva ma spesso isolata, e una politica impaurita e confusa su come affrontare la mafia. Le forze dell’ordine e i servizi segreti erano chiamati a gestire una minaccia gravissima, ma spesso la loro azione non fu pienamente coordinata o efficace.


2. La forza e la strategia di Cosa Nostra

Nonostante i colpi inferti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, Cosa Nostra manteneva una forte presenza territoriale e una rete di influenza molto estesa, sia nel nord che nel sud Italia.

La stagione delle stragi del 1992-1993 fu una strategia deliberata: una serie di attentati e atti di violenza destinati a far sentire la forza dell’organizzazione, a intimidire lo Stato e a forzare un confronto diretto. La mafia intendeva così imporre il proprio potere negoziale, dimostrando che non si sarebbe piegata a un semplice sistema giudiziario.


3. Il timore di una spirale di violenza incontrollata

A differenza di situazioni come quella israeliana, l’Italia non era pronta ad avviare una “guerra totale” contro la mafia con strumenti extragiudiziari o operazioni di polizia militare a tappeto.

Le istituzioni temevano che una reazione eccessiva potesse provocare un’escalation incontrollata, con danni a civili e un generale indebolimento dello Stato stesso. Vi era anche la paura che, in un clima di terrore, la mafia potesse ricevere un consenso passivo da alcune aree della popolazione, complicando ulteriormente la situazione.


4. La “zona grigia” tra Stato e Mafia

Uno degli aspetti più inquietanti emersi negli anni successivi sono le indagini che hanno confermato l’esistenza di canali di comunicazione clandestini tra pezzi deviati dello Stato — apparati di polizia, servizi segreti, politica — e esponenti mafiosi.

Questa “zona grigia” creava una situazione di ambiguità, nella quale alcune parti delle istituzioni non vedevano la mafia esclusivamente come un nemico da abbattere, ma anche come un interlocutore con cui trattare per mantenere un equilibrio. Questo ha reso impossibile una linea dura e unitaria nella lotta antimafia.


5. La trattativa: un compromesso doloroso

Le richieste mafiose includevano la riduzione del carcere duro (41 bis), la revisione di alcune leggi antimafia, e il congelamento di alcune inchieste. Lo Stato, da parte sua, mirava a fermare la spirale di violenza e a preservare la stabilità istituzionale.

Questo compromesso, mai formalmente ammesso, ha avuto un prezzo elevatissimo: la giustizia è apparsa negoziabile, le vittime sono state tradite dalla lentezza e dalle ambiguità dello Stato, e la percezione pubblica della legalità è stata profondamente scossa.


6. Le conseguenze politiche e sociali

La trattativa ha lasciato profonde ferite nel Paese. La fiducia nelle istituzioni è stata minata, e il senso di impotenza è diventato un sentimento diffuso.

Dal punto di vista politico, la vicenda ha alimentato sfiducia e polemiche, provocando riforme e cambiamenti nel modo in cui la lotta alla mafia viene condotta — con una maggiore attenzione alla trasparenza e al coordinamento, ma anche con la consapevolezza che la criminalità organizzata è un fenomeno radicato e complesso.


Conclusione

La mancata risposta in stile “ira di Dio” dopo le stragi del 1992-1993 non fu un semplice fallimento, ma il risultato di un intreccio di fattori: la fragilità dello Stato, la potenza della mafia, le paure di una spirale di violenza, e soprattutto la presenza di una zona grigia tra istituzioni e criminalità organizzata.

Questo capitolo della storia italiana resta un monito sull’importanza di uno Stato forte, trasparente e coeso, capace di affrontare senza compromessi la criminalità e di mantenere viva la fiducia dei cittadini nella giustizia.

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