“Il Mezzogiorno è la più grande colonia che l’Italia settentrionale possieda”. Così Gaetano Salvemini, quasi un secolo fa, sintetizzava la condizione meridionale. E non era il solo: Giustino Fortunato parlava della “più grave malattia della nazione italiana”, mentre Antonio Gramsci accusava le élite meridionali di comportarsi come mediatori servili degli interessi settentrionali. A ben vedere, nulla di sostanziale è cambiato.
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| Gaetano Salvemini |
Al Nord persiste uno sguardo riduttivo, eredità di quella Lega che negli anni ’90 gridava “Roma ladrona” e bollava il Sud come zavorra improduttiva. Ma il vero nodo sta a Sud, dove da decenni prevalgono protagonismi individuali, familismi e logiche clientelari. Edward Banfield, osservando un paesino lucano negli anni Cinquanta, coniò l’espressione “familismo amorale”: l’idea che l’interesse privato prevalga sempre su quello collettivo. È un concetto che continua a descrivere perfettamente la scena politica meridionale, costellata di “primedonne” più attente alla propria carriera che al destino delle comunità.
Qui la metafora degli ascari diventa tristemente attuale: come i soldati coloniali che combattevano per conto di un esercito straniero, così molti politici del Sud finiscono per eseguire ordini dettati altrove, garantendosi in cambio un piccolo privilegio personale. Francesco Saverio Nitti, da presidente del Consiglio, raccontava amaramente che in Parlamento “per un meridionale era più facile ottenere un ministero che un acquedotto per la sua terra”. Una battuta amara che resta oggi di drammatica attualità.
Il risultato è duplice: da un lato, un Nord che rafforza il pregiudizio secondo cui il Meridione sarebbe pigro, corrotto o incapace; dall’altro, un Sud che si auto-condanna a restare diviso, incapace di fare sistema e di esprimere una vera classe dirigente. Così la “barzelletta” che accompagna da decenni il racconto del Sud rischia di trasformarsi in tragedia: spopolamento, fuga dei giovani, intere province ridotte a deserti sociali.
Il vero scandalo non è che il Sud venga deriso, ma che i meridionali stessi recitino, consapevoli o meno, la parte di comparse nella commedia del declino. Fino a quando la logica dell’applauso immediato e della rendita personale prevarrà sulla costruzione di un destino comune, il Mezzogiorno resterà intrappolato nel ruolo che gli altri gli hanno cucito addosso. E allora Salvemini, Fortunato e Gramsci avranno avuto ragione: il Sud non sarà mai davvero padrone del proprio futuro.

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