Perché scrivo

Ogni giorno mi faccio sempre la stessa domanda: perché scrivo?

Non certamente per arricchirmi, perché a quarantanove anni mi sono abituato a vivere una vita normale, senza la necessità di possedere una villa o di andare in giro con un SUV. La ricchezza ostentata mi ha sempre infastidito: l’ostentazione è una trappola che alimenta l’invidia altrui, e l’invidia — lo so — è la scorciatoia con cui i ladri trovano la strada di casa.
Anche se avessi miliardi di euro, manterrei uno stile sobrio. Forse sceglierei solo un luogo diverso dove vivere, un posto più in sintonia con il mio modo d’essere.

Se non lo faccio per i soldi, allora poco mi interessa il numero di persone che mi leggono.
Eppure, non scrivo nemmeno solo per me stesso: ciò che mi racconto non trova mai parole pienamente adeguate, perché è frutto di esperienze intrecciate — mie e altrui — osservate e meditate. Quello che potrei scrivermi sarebbe sempre meno di ciò che ho compreso.

Lo faccio per altruismo?
Forse in parte sì, ma con cautela: perché ogni conoscenza può essere usata in modi imprevisti. Non è detto che ciò che dono in un testo diventi un vantaggio per chi lo riceve. Il sapere può ritorcersi contro chi lo ottiene. Talvolta, l’ignoranza è una coperta di Linus — e la legge, si sa, a volte ammette l’ignoranza più di quanto ammetta la verità.

Lo faccio per vanità? No.
Non c’è vanità nel sapere che sarò dimenticato, come tutti gli altri.
Non mi illudo che le mie parole restino: verranno lette, forse comprese, poi svaniranno. È naturale. Tutto ciò che vive è destinato a dissolversi, anche le parole.
Scrivere, perciò, non è un atto di vanità ma di necessità.

Scrivere è un bisogno.
Un bisogno simile al respiro, un modo per dare forma al caos e ordine al pensiero.
Quando scrivo, le cose si chiariscono: le emozioni trovano un nome, i pensieri si fanno trasparenti. Scrivere è un modo di ascoltare me stesso, di mettere a tacere il rumore del mondo, di ritrovare un punto fermo nel flusso dell’esistenza.

Non scrivo per cambiare il mondo — sarebbe un’illusione — ma per non farmene travolgere.
Ogni parola che metto giù è una diga contro l’oblio, un tentativo di fermare ciò che scorre. È come accendere una candela sapendo che presto si spegnerà, ma godendo comunque della luce che fa.

Scrivere non è intrattenimento.
Certo, può esserlo per qualcuno, ma il vero senso è più profondo. Ogni testo ha più livelli: superficiale e profondo, essoterico ed esoterico, letterale e simbolico.
Chi legge coglie ciò che può, ciò che è pronto a cogliere. C’è chi vede solo la storia e chi riconosce il segno, il simbolo, il messaggio nascosto.
La parola è un seme: germoglia in modi diversi, a seconda del terreno in cui cade.

Io non posso insegnare la vita a nessuno — ognuno la impara da sé, passo dopo passo, errore dopo errore. Ma posso lasciare strumenti, chiavi di lettura, segni che, senza di me, andrebbero perduti. Scrivere è il modo più naturale che conosco per trasmettere l’essenza di ciò che ho appreso.

Perché ogni essere umano parte da zero.
E anche se la reincarnazione fosse reale, non cambierebbe nulla: l’esperienza si azzera con la memoria, e ogni vita ricomincia senza il bagaglio della precedente. Perciò, ciò che non viene tramandato si perde per sempre.


Scrivere è, dunque, un atto di continuità.

Un gesto di riconsegna: lascio al mondo ciò che il mondo mi ha dato, trasformato attraverso la mia esperienza. Non so chi lo raccoglierà, né se servirà davvero a qualcuno. Ma lo faccio perché è l’unico modo che conosco per non vanificare il passaggio della mia coscienza attraverso il mondo.

Scrivo perché non posso farne a meno.
Scrivo perché finché scrivo, esisto.
E finché esisto, voglio lasciare almeno un segno di consapevolezza, una scia di luce, una parola che dica:
“Anch’io sono passato di qui, e ho cercato di capire.”

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