Il Napoli ha vinto il quarto scudetto, e le strade della città sono esplose in un tripudio di colori, cori e bandiere. È stato bello vedere quella gioia condivisa, la città intera unita in un’unica emozione. Ma appena le feste si placano, resta il senso amaro di un paradosso: quella stessa città che sa urlare di gioia per la sua squadra fatica a unirsi quando si tratta di migliorare la propria vita quotidiana, le proprie strade, le proprie scuole, il proprio futuro.
Non è un problema di passione o intelligenza. Napoli, da secoli, convive con la bellezza più pura e con problemi strutturali radicati. Benedetto Croce descrisse questa contraddizione come un “paradiso abitato da diavoli”: un luogo capace di incanto e genio, ma dove l’inerzia e la rassegnazione hanno sempre avuto spazio. La storia ha plasmato abitudini e strategie di sopravvivenza che premiano l’individualismo e la furbizia, a volte a scapito del bene comune. Eppure, questa città avrebbe tutte le potenzialità per diventare un esempio di energia e collaborazione civica.
Il calcio, allora, diventa una valvola di sfogo. È lì che si riversano frustrazioni, orgoglio, identità. Si urla, si canta, si piange per una vittoria che simboleggia ciò che altrove sarebbe incanalato in cambiamenti reali, politici o civici. Non è un fenomeno solo napoletano: accade in molte società latino-americane, dove la passione sportiva diventa un modo sicuro per esprimere rabbia e speranza. Ma la gloria del pallone non cambia le cose.
E così lo stereotipo resiste: un popolo di “pecore” che subisce regole e istituzioni inefficienti, mentre pochi furbi ne approfittano. Estremo? Forse. Ma osservando la realtà, è difficile ignorare quanto la sfiducia strutturale e la mancanza di collaborazione diffusa abbiano radici profonde. Eppure non tutto è fermo: ci sono persone che lottano, che innovano, che cercano di risvegliare la città. La vera sfida è trasformare l’energia che esplode per una vittoria sportiva in forza collettiva per cambiare la città stessa.
Fino a quel momento, Napoli continuerà a vincere in campo, ma a restare ferma fuori. Il trionfo calcistico sarà un lampo di gioia, un momento di orgoglio, senza diventare il simbolo di una comunità finalmente capace di fare squadra davvero.

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