C’è un tratto singolare nella storia d’Italia: spesso ciò che nasce qui, sotto forma di intuizione politica o culturale, diventa modello esportato e perfezionato altrove. È accaduto con la moda, con il design, con la cucina. Ma soprattutto con la politica, dove il nostro Paese sembra avere una strana vocazione: anticipare fenomeni che, una volta oltrepassate le Alpi o l’Atlantico, esplodono in forme più radicali e definitive.
Decenni dopo, la storia si ripete con un altro nome che segnerà un’epoca: Silvio Berlusconi. Quando scese in campo nel 1994, non era soltanto un imprenditore che entrava in politica, ma l’incarnazione di un modello nuovo: il leader mediatico, capace di parlare direttamente al pubblico attraverso i propri canali televisivi, scavalcando la politica tradizionale. L’Italia, ancora una volta, sperimentava per prima ciò che il resto del mondo avrebbe conosciuto anni dopo. Quando Donald Trump vinse le elezioni americane nel 2016, molti osservatori non ebbero dubbi: era la versione americana del berlusconismo. Stesse radici nell’imprenditoria, stessa abilità nel trasformare il carisma mediatico in consenso politico, stessa irriverenza verso le regole istituzionali.
Si potrebbe sorridere, ma c’è quasi un destino: l’Italia lancia il sasso, altri raccolgono l’onda. È accaduto con le dittature tra le due guerre, con il populismo televisivo negli anni Novanta, e in fondo accade anche con fenomeni culturali. Pensiamo alla pizza, nata come cibo povero napoletano, divenuta negli Stati Uniti un’industria miliardaria; o al Rinascimento, che esplose a Firenze e poi ridefinì l’intera Europa.
Forse, più che un paradosso, è la cifra della nostra storia. L’Italia inventa, sperimenta, azzarda. Gli altri prendono, rielaborano e spesso perfezionano. Eppure, senza la scintilla italiana, molte fiamme non si sarebbero mai accese.

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