Da Salvia a Savoia: Passannante e il prezzo dell’umiliazione

Anni fa mi trovai a Savoia di Lucania, tra le strade acciottolate illuminate da lanterne tremolanti durante la festa di San Rocco. Passeggiando, i miei occhi furono catturati dai murales che raccontano la storia di Giovanni Passannante e del suo gesto disperato a Napoli. I colori sembravano vivi, le figure quasi respirare: il coltello, il volto teso del re, la folla confusa. C’era qualcosa di inquietante in quelle immagini, un brivido che correva lungo la schiena, come se la tragedia di Passannante continuasse a vivere tra le pietre del paese. E guardando quei murales, non potevo non pensare al nome stesso di quel luogo: Salvia, trasformato in Savoia, come se l’onta storica della postunità avesse voluto cancellare la memoria e l’identità di un piccolo borgo lucano. Convinto meridionalista, penso che quel nome andrebbe restituito, perché l’umiliazione è durata troppo a lungo e merita di finire.

Murales con l'immagine di Passannante

Giovanni Passannante nacque a Salvia nel 1849, in una casa modesta dove la miseria era padrona e il futuro un’ombra lunga sulle pareti. Crescendo tra stenti e privazioni, il suo cuore si fece cupo e ribelle. Ogni ingiustizia subita, ogni sguardo di disprezzo della società verso i poveri e i dimenticati, scavava più a fondo nel suo animo. Non era un uomo cattivo, ma un uomo piegato dal destino e dal contesto storico, consumato dalla rabbia verso un’Italia appena unita, percepita come fredda e oppressiva.

Il 17 novembre 1878, il destino e la storia si intrecciarono. Napoli era in fermento per la visita del re Umberto I. Passannante, con il cuore che batteva come un tamburo di guerra, si avvicinò al sovrano con un coltello stretto tra le dita. L’aria sembrava densa, ogni passo rimbombava nella mente come una sentenza. Tentò l’attentato. Il coltello si alzò, e per un istante il tempo parve fermarsi. Poi la folla, il caos, le urla. Il re fu solo lievemente ferito, ma l’atto era compiuto, e con esso il destino di Passannante si chiuse in un abisso dal quale non avrebbe mai più potuto uscire.

Arrestato e condannato, Passannante non vide giustizia, ma tortura. Fu rinchiuso nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove l’isolamento e i maltrattamenti divennero la sua prigione quotidiana. Le sue giornate si dissolvevano in silenzi, urla soffocate e sperimentazioni mediche crudeli, mentre la sua mente, già provata, si frantumava un frammento alla volta. La vita che aveva conosciuto era ridotta a un’ombra. Morì nel 1910, dimenticato da tutti, un uomo spezzato che era diventato simbolo del prezzo che la società fa pagare ai fragili e agli emarginati.

La vicenda di Giovanni Passannante è una ferita aperta nella memoria del Sud, un monito sulla crudeltà della storia e sul peso delle ingiustizie sociali. Tra i murales di Savoia di Lucania e le pietre silenziose di Salvia, si sente ancora il brivido di quel gesto disperato, la tragedia di un uomo e di un paese che meriterebbero di riappropriarsi della loro dignità. Restituire a Salvia il suo nome sarebbe più di un atto simbolico: sarebbe un riscatto, una luce in mezzo alle ombre, un piccolo gesto di giustizia verso chi, nella storia, ha già pagato un prezzo troppo alto.

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