Gli ultimi re: il volto del tramonto

C’è sempre un’ombra tragica attorno agli ultimi sovrani. Quando una dinastia si spegne, l’epigono resta sul trono come un attore costretto a recitare l’ultima scena di un dramma già scritto. Non importa se dissoluto, ingenuo o persino onesto: la storia lo inchioda a simbolo del declino.

Prendiamo Luigi XVI, che amava più le serrature e la caccia che le tempeste della politica. La Francia bolliva di rabbia, affamata e impaziente di giustizia; lui rispondeva con esitazioni e silenzi. Non fu mai il tiranno che i giacobini descrissero, ma un uomo incapace di interpretare il suo tempo. La ghigliottina, più che punirlo, suggellò la morte di un mondo intero.

Più a est, un secolo dopo, Nicola II Romanov ripeteva inconsapevolmente lo stesso copione. Devoto alla famiglia, tenero con i figli, ma disarmato di fronte a un impero sterminato e inquieto. Rasputin, le repressioni sanguinose, la guerra mal gestita: ogni errore divenne un passo verso la catastrofe. La notte di Ekaterinburg non spazzò via solo i Romanov, ma la stessa idea di autocrazia russa.

In Austria, Carlo I d’Asburgo provò a ribaltare la maledizione. Giovane, idealista, sinceramente convinto di poter ridare fiato a un impero che scricchiolava sotto i colpi dei nazionalismi, tentò persino la pace separata durante la Grande Guerra. Ma arrivò troppo tardi: la storia non concede seconde possibilità agli epigoni. Morì in esilio, povero, con la fama di un santo mancato più che di un imperatore sconfitto.

Carlo I d'Asburgo

Non sempre, però, gli ultimi re sono figure tragiche e compassionevoli. Talvolta diventano caricature del potere. Faruq d’Egitto, con i suoi harem, le auto di lusso e le collezioni eccentriche, sembrava la personificazione stessa di un regime corrotto e marcescente. Mentre lui festeggiava, l’esercito perdeva la faccia contro Israele e il paese sprofondava nella miseria. Quando Nasser lo costrinse all’esilio, il popolo non pianse: rise.

Più discreta, ma altrettanto amara, fu la fine di Manuele II del Portogallo, detronizzato a ventun anni. Un ragazzo colto e gentile, amante della musica e delle lettere, ma inadatto a fronteggiare la tempesta repubblicana. Se ne andò senza clamori, vivendo da esule raffinato. Il suo ricordo resta quello di un giovane elegante, troppo fragile per reggere l’urto della storia.

E infine l’Italia, con Umberto II di Savoia, il “Re di Maggio”. Non fu dissoluto come Gian Gastone de’ Medici, né timoroso come Francesco II di Borbone, né corrotto come Faruq. Era un uomo perbene, educato, rispettato. Ma l’Italia del 1946 non cercava un re gentiluomo: voleva chiudere i conti con il fascismo, la guerra e la complicità della Casa Savoia. Così Umberto pagò per tutti. Se fosse stato più duro, più populista, forse avrebbe resistito. Ma la monarchia era già morta, e il referendum la seppellì in poche settimane.

Guardando a questi volti — Luigi XVI, Nicola II, Carlo I, Faruq, Manuele II, Umberto II — colpisce un paradosso. Non furono sempre i peggiori sovrani, anzi: alcuni erano colti, altri sinceri, altri addirittura stimabili. Ma la storia li volle testimoni del tramonto, e nulla poté salvarli. L’ultimo re, qualunque sia la sua indole, diventa inevitabilmente il simbolo di un mondo che si spegne. E per questo lo ricordiamo sempre più per la sua fine che per la sua vita.

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