Silvio Berlusconi non è mai stato un politico come gli altri. Forse, a ben guardare, non è mai stato un politico in senso stretto. Era un imprenditore, un comunicatore, un intrattenitore prestato alla politica quando il suo mondo di riferimento, quello dei partiti della Prima Repubblica, crollò in polvere con Tangentopoli. La sua “discesa in campo” nel 1994 fu più simile a una campagna pubblicitaria che a una fondazione di partito: slogan orecchiabili, colori vivaci, un jingle che sembrava uscito da uno stadio. Forza Italia nacque come un marchio, non come un movimento, e il marchio funzionò subito.
Quell’anno vinse le elezioni mettendo insieme una coalizione impossibile: al Nord la Lega di Bossi, al Sud i post-missini di Fini. Una combinazione che nessun politico di professione avrebbe osato tentare. Il suo primo governo durò pochi mesi, ma bastò per cambiare il tono della politica italiana: da allora in poi, per quasi vent’anni, lo scontro non fu più tra destra e sinistra, ma tra berlusconiani e antiberlusconiani.
Il Cavaliere aveva un’arma che i suoi avversari non possedevano: sapeva piacere. Con il pubblico ci sapeva fare, e non è un dettaglio da poco in un Paese che vive di televisione. Mentre molti leader di sinistra apparivano austeri, professorali, quasi infastiditi dal contatto con la piazza, Berlusconi rideva, stringeva mani, raccontava barzellette, si sedeva al pianoforte e intonava canzoni napoletane. Si racconta che durante un vertice internazionale, in un momento di pausa, abbia improvvisato “’O sole mio”, lasciando sbigottiti gli altri capi di Stato. Un gesto che in un altro sarebbe parso ridicolo, ma in lui sembrava naturale, come se fosse sempre sul palcoscenico di un varietà.
Certo, il suo impero economico e i suoi processi segnarono profondamente la sua parabola politica. Molte leggi furono viste come strumenti di difesa personale, e la sua figura rimase costantemente al centro di polemiche, scandali e conflitti di interessi. Eppure, nonostante tutto, tornava sempre. Dopo ogni caduta, dopo ogni sconfitta, riusciva a ripresentarsi come se nulla fosse. Nel 2001 restò al governo per cinque anni, nel 2008 tornò a Palazzo Chigi per l’ultima volta.
La sua uscita di scena, nel 2011, fu teatrale quanto la sua entrata: dimissioni sotto la pressione dei mercati e dell’Europa, il Quirinale circondato da una folla che lo fischiava e intonava cori. Lui, salendo in macchina, accennò un sorriso. Perché anche i fischi, per un uomo che ha sempre vissuto la politica come spettacolo, erano pur sempre applausi rovesciati.
Silvio Berlusconi, il Cavaliere, ha lasciato un’Italia divisa e trasformata. Lo si può amare o detestare, accusare o difendere, ma non ignorare. La sua epopea resta quella di un imprenditore che ha trasformato la politica in un grande palcoscenico, e che, nel bene e nel male, ha saputo tenere milioni di spettatori incollati allo spettacolo della sua vita.
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