Napoli, piazza Mercato, ottobre 1268. Un boia alza la spada, la folla trattiene il fiato, un ragazzo di appena sedici anni china il capo. Si chiama Corradino di Svevia, l’ultimo discendente di Federico II, e il suo sangue scorrerà sul selciato come una sentenza. Non è solo la fine di una dinastia, ma l’inizio di un destino che cambierà per sempre il Mezzogiorno.
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| Monumento funebre di Corradino di Svevia - Chiesa del Carmine (Napoli) |
La sua morte segna la chiusura brutale della stagione sveva, quella in cui il Regno di Sicilia non era terra di conquista ma centro di un progetto imperiale che dialogava con l’Europa. Con Corradino decapitato, Carlo d’Angiò prende possesso del trono: il Sud diventa pedina nelle mani di potenze straniere, e Napoli, da capitale promettente, si trasforma in una vetrina di ricchezze spremute per altri.
La storia ufficiale la conosciamo. Angioini avidi, Aragonesi raffinati ma divisi, Spagnoli lontani che governano con tasse e viceré, fino all’Unità d’Italia che cala sul Mezzogiorno come una seconda conquista. Un filo rosso di subalternità e sfruttamento che si trascina per secoli, interrotto solo a tratti, quando qualche dinastia restituiva dignità e respiro al regno.
Ma proviamo per un istante a cambiare prospettiva. E se quel giorno a Tagliacozzo, invece di cadere nell’inganno, Corradino avesse vinto? L’immagine cambia: Carlo d’Angiò sconfitto, Napoli capitale sveva, il Regno di Sicilia saldo nell’orbita imperiale. Non più viceré forestieri ma una corte giovane, radicata e ambiziosa, capace di legare il Mediterraneo al cuore dell’Europa. Forse il Rinascimento avrebbe trovato qui, nel Sud, il suo laboratorio più precoce. Forse il Regno avrebbe potuto reggere come potenza autonoma, simile all’Aragona o al Portogallo, e l’Italia unita, se mai fosse nata, avrebbe avuto un Sud protagonista, non un fratello minore.
La tragedia di Corradino non sta solo nel volto smarrito di un adolescente condannato a morte. Sta nel destino spezzato di un popolo e nella possibilità perduta di un’altra storia. Ogni volta che si ripensa a quel giorno di ottobre, tra le pietre di piazza Mercato, si sente l’eco di ciò che poteva essere: un Mezzogiorno diverso, più libero, più centrale, più suo.

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