C’è un momento che accomuna tutti, prima o poi: ricevere un “no”. Non importa che arrivi dall’amore della nostra vita, dal datore di lavoro dopo un colloquio, da un amico a cui chiediamo un favore o persino da un familiare che non approva una scelta. Quel monosillabo, così breve, ha il potere di bloccarci, ferirci e, a volte, stravolgere la nostra percezione di noi stessi.
Il rifiuto amoroso è forse la forma più immediata e riconoscibile. Chi non ha mai provato la sensazione di bussare a una porta chiusa? Ma sarebbe riduttivo pensare che il “no” viva solo nelle storie sentimentali. Basta guardare al mondo del lavoro: quanti curriculum inviati senza risposta, quante promesse rimaste sospese. O ancora alle dinamiche di amicizia, quando ci rendiamo conto che non siamo sulla stessa lunghezza d’onda di qualcuno a cui tenevamo.
La cronaca ci insegna che, purtroppo, non sempre il rifiuto viene accettato. Ci sono storie tragiche, come quella accaduta a Messina lo scorso marzo, dove un semplice “non ti voglio” si è trasformato in violenza irreparabile. Questi episodi scuotono l’opinione pubblica e ci spingono a confondere il tema della violenza di genere con quello del rifiuto. Ma non sono la stessa cosa. La violenza nasce nella pretesa di possesso, nel bisogno patologico di controllare l’altro. Il rifiuto, invece, è un’esperienza universale: fa parte della vita e non si può eliminare.
La vera sfida è imparare a gestirlo. Qualcuno, di fronte a un “no”, si chiude in sé stesso, qualcun altro si arrabbia con il mondo, altri ancora si buttano a capofitto in nuove esperienze. La differenza non la fa il rifiuto in sé, ma la risposta che scegliamo di dare. C’è chi si lascia definire da quel diniego e chi, invece, lo trasforma in occasione di crescita.
Ricordo un ragazzo che, dopo essere stato lasciato, ha deciso di iscriversi a un corso di fotografia. “Volevo riempire il vuoto con qualcosa che fosse solo mio”, mi disse. Oggi quella passione è diventata il suo lavoro. Il “no” sentimentale, che all’inizio gli era sembrato un macigno, si è rivelato la porta per una vita nuova.
Ecco il punto: ogni “no” ci obbliga a fare i conti con i nostri limiti e con la libertà degli altri. L’unica strada sana è rispettare quella libertà e continuare il cammino. È vero, si potrebbe andare oltre parlando di comunicazione persuasiva, strategie relazionali, modi sottili per trasformare un “no” in un “forse”. Ma prima di tutto serve un passo fondamentale e alla portata di tutti: accettare che nessuno ci deve nulla, che la sintonia non è scontata e che la distonia è parte della convivenza umana.
La vita, in fondo, è un mosaico di sì e di no. I primi ci confortano, i secondi ci insegnano. Sta a noi decidere se fermarci davanti a un rifiuto o usarlo come trampolino per cercare chi – o cosa – risuona davvero con la nostra frequenza.

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