Dalla difesa della razza a lustrascarpe di Netanyahu

Come la destra italiana è passata da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni



C’erano una volta la Patria, la sovranità, l’onore nazionale. C’erano le parole dure di chi si opponeva sia all’imperialismo americano sia all’internazionalismo sovietico. C’era una destra “terzaforzista”, che rifiutava di scegliere tra est e ovest, tra Mosca e Washington, e che talvolta flirtava con i regimi panarabisti in nome dell’anti-globalismo. Quella destra si chiamava MSI e aveva in Giorgio Almirante il suo portabandiera.

Almirante, figura controversa e storicamente ingombrante, fu segretario di redazione de “La Difesa della Razza” negli anni ’30, organo ufficiale del razzismo fascista. Dopo la guerra fondò il Movimento Sociale Italiano, raccogliendo reduci della RSI e nostalgici del regime. Un partito che si proclamava nazionale, sociale, identitario, antisistema. Rifiutava l’antifascismo come fondamento della Repubblica, denunciava le foibe, l’esodo giuliano-dalmata e il “tradimento” dei partiti del CLN.


E oggi?

Oggi quella destra è diventata Fratelli d’Italia, e il suo leader – Giorgia Meloni – bacia la mano a Netanyahu, si allinea senza una piega alle posizioni di Washington, Tel Aviv e Bruxelles, e firma impegni atlantici senza esitazioni. La sovranità è piegata ai trattati europei, l’identità nazionale è ridotta a slogan da palco, e le dichiarazioni sulla “civiltà giudaico-cristiana” fanno impallidire anche i più atlantisti dei democristiani di una volta.

Nel giro di 70 anni, la destra italiana è passata:

  • dalla difesa del sangue e della razza alla retorica “pro-Israele a prescindere”;
  • dall’antisemitismo biologico all’ebraismo come pilastro identitario dell’Occidente;
  • dall’autarchia e dalla sovranità economica al pieno appoggio al libero mercato, alla NATO e al neoliberismo.

Certo, i tempi cambiano, e ogni partito ha il diritto di rinnovarsi. Ma qui non si tratta di evoluzione, bensì di mutazione profonda, quasi genetica. Non è un cammino lineare: è un ribaltamento.

Chi una volta si proclamava erede della RSI, oggi è complice delle strategie americane in Europa e nel Mediterraneo, sostenitore senza riserve di Zelensky, e paladino dell’occidentalismo senza identità.


Dalla tribuna al TikTok: la premier-influencer

Nel frattempo, il linguaggio si è fatto spettacolo. Il contenuto ha ceduto il passo alla comunicazione istintiva. Giorgia Meloni non è solo la leader di un partito di governo: è diventata un brand, un personaggio da social, una figura che alterna citazioni di Tolkien a video ammiccanti, slogan virali e clip emozionali da centinaia di migliaia di visualizzazioni.

Matteo Renzi, che di comunicazione politica se ne intende, l’ha definita "L'influencer", sintetizzando bene il clima: la sostanza ideologica è secondaria, l’estetica digitale è tutto. La premier si rivolge al “popolo” come una creator, non come una statista: dice ciò che funziona, misura il consenso in like e visualizzazioni, e plasma il suo patriottismo su misura per l’algoritmo.

Risultato? Una leadership emotiva, epidermica, dove il patriottismo diventa intrattenimento e il consenso è questione di engagement, non di radicamento. Così, mentre l’Italia assiste a un restringimento degli spazi democratici, la retorica della “nazione sovrana” si consuma in diretta stories.


Un patriottismo usa-e-getta?

“Dalla difesa della razza a lustrascarpe di Netanyahu” non è solo una provocazione retorica. È il riassunto amaro di una parabola politica che ha barattato la coerenza ideologica con il potere, la memoria con la convenienza, la nazione con il globalismo mascherato.

Il vecchio MSI, con tutte le sue colpe, non avrebbe mai obbedito senza discutere a Bruxelles, Tel Aviv o Washington. Oggi invece, la destra “sovranista” governa con la bandiera italiana in mano e i piani NATO in tasca.

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