Quando le leggi diventano immutabili: il mito dei successi mai realizzati

Nella politica, come nella vita, è raro trovare chi abbia il coraggio di ammettere un errore e chiedere scusa. Molto più frequente è la tendenza a scaricare la colpa sugli altri, sul destino o su circostanze incontrollabili. In questo contesto, non sorprende che alcune leggi rimangano in vigore anche quando non producono i risultati sperati.

Sbagliare è umano, mentre continuare ( a sbagliare) è diabolico 

In Italia, esempi emblematici sono la legge Merlin, che abolì le case chiuse, e la legge Basaglia, che riformò la psichiatria. Entrambe furono celebrate come “conquiste di civiltà”, ma entrambe hanno incontrato difficoltà pratiche che ne hanno limitato l’efficacia. Eppure, gli eredi politici di chi le approvò continuano a difenderle, raramente ammettendo i limiti o i fallimenti. Il risultato è che la legge diventa quasi sacra, mentre il reale impatto sociale viene spesso ignorato o minimizzato.

Questo fenomeno non riguarda solo l’Italia. Ovunque la politica si muova tra ideali e realtà, emerge la stessa tendenza: attribuire i fallimenti a fattori esterni, evitare l’autocritica e difendere a priori ciò che è stato deciso. Ma se la politica non è capace di riconoscere i propri errori, come può davvero correggersi e migliorare?

Riflettere su questo meccanismo è essenziale. Non si tratta di negare il valore simbolico di leggi o riforme, ma di capire che una “conquista di civiltà” non si misura solo nelle intenzioni o nei titoli dei giornali, bensì nei risultati concreti e nel benessere reale delle persone. Solo allora la politica smetterà di essere un monumento all’orgoglio e diventerà uno strumento di reale progresso.

Il Frutto e l’Albero: la Libertà di Cadere Lontano

Ci sono padri che mettono pistole e coltelli nelle mani dei propri figli, come se la violenza fosse un’eredità naturale da trasmettere. Ci sono padri che hanno conosciuto il carcere e scelgono invece di far studiare i propri figli, sperando che diventino persone perbene. In entrambi i casi, la domanda sorge spontanea: può un frutto cadere lontano dal proprio albero?

Il proverbio popolare suggerisce che i figli, inevitabilmente, assomigliano ai genitori. È un’immagine semplice, quasi rassicurante: il destino racchiuso nella radice, il cammino già tracciato. Ma la realtà è molto più complessa. L’ambiente familiare, certamente, imprime al bambino una prima impronta, modellandone il linguaggio, i valori, le paure. Tuttavia, questa impronta non determina il destino in modo assoluto. Il figlio non è mai una copia perfetta del padre; è un’eco, una variazione, un contrappunto. Può assomigliargli, respingerlo, o cercare un sentiero completamente diverso.

Esistono storie di figli che, nati in contesti di violenza e criminalità, hanno scelto la via opposta, trasformando l’eredità paterna in monito di cambiamento. Psicologia e sociologia confermano che questo processo è possibile: ciò che determina la rotta di una vita è una complessa interazione tra radici, vento e terreno. Le radici sono la famiglia, il primo contatto con il mondo; il vento è il contesto sociale, le amicizie, le figure di riferimento che si incontrano; il terreno è costituito dalle opportunità educative e dall’energia interiore, quella resilienza che permette di rialzarsi e scegliere.

C’è una forza invisibile che spinge il frutto a rotolare lontano dall’albero. È fatta di coscienza, di dolore trasformato in volontà, di incontri che aprono prospettive nuove. Ciò che sembra destino, spesso è una scelta consapevole: la scelta di non ripetere un errore, di riscattare una storia, di costruire un futuro diverso. In questo senso, il frutto può cadere lontano, e talvolta farlo diventa un atto di amore verso se stessi e verso chi ha cercato di proteggerti.

Pensa a Luca, cresciuto in un quartiere segnato dalla criminalità. Suo padre aveva un passato di reati e finì in carcere quando lui era ancora piccolo. Il ragazzo avrebbe potuto seguire quella strada, attratto dalla familiarità e dalla mancanza di alternative. E invece scelse di studiare, trovò in un insegnante un modello e oggi lavora come educatore, impegnato ad aiutare ragazzi in difficoltà. Il suo cammino è una testimonianza di come l’eredità paterna possa trasformarsi in monito, e di come un frutto possa distaccarsi dal tronco.

Poi c’è Sofia, figlia di genitori appartenenti a una famiglia molto religiosa. Cresciuta con valori di sacrificio e disciplina, Sofia decide di diventare artista, vivendo lontano dalle regole rigide che aveva imparato. Pur mantenendo rispetto e amore per i genitori, la sua scelta dimostra che il frutto può prendere direzioni inaspettate, perché il terreno in cui cresce è fatto anche di aspirazioni personali.

Esistono anche storie più complesse, come quella di Marco, il cui padre è un ex detenuto che, dopo anni dietro le sbarre, dedica la propria vita a far studiare i figli. Marco cresce con la consapevolezza del dolore e dell’errore, e sceglie una vita all’insegna della giustizia: diventa avvocato specializzato in diritti umani. Qui il frutto non solo cade lontano, ma porta con sé la volontà di riscattare la storia dell’albero stesso.

Infine, ci sono esempi di figli che restano molto vicini al loro albero. Come Pietro, che cresce in una famiglia di artigiani e sceglie di continuare la tradizione, senza stravolgere il destino. Il suo non è un atto di imitazione passiva, ma una scelta consapevole, nutrita da amore e rispetto per le radici. Anche questa è una forma di caduta: vicina, ma piena di senso.

Il proverbio “la mela non cade lontano dall’albero” resta una metafora potente, ma non una legge. L’albero offre la prima impronta, ma non scrive il destino. Il frutto decide dove cadere. Alcuni restano all’ombra del tronco, altri si lasciano trasportare dal vento, trovando terreni inaspettati. E talvolta, proprio quella caduta lontana diventa la più bella forma di libertà.




Il frutto e il vento

Il frutto cade.
A volte scivola appena, restando vicino alle radici, come per voler continuare a nutrirsi dell’albero.
Altre volte rotola lontano, spinto da un vento sottile, che porta con sé sogni, paure, scelte.

Cadere è un atto di coraggio.
È dire no a ciò che si è stati, e sì a ciò che si può diventare.
È lasciare il tronco per cercare il proprio sole.

E allora sì, il frutto può cadere lontano.
Può trovare nuovi terreni, germogliare altrove, crescere diverso.
Perché la vita non è la legge dell’albero,
ma il viaggio del seme.

E in quel viaggio, ogni caduta è una storia.

Io non crollo con i like, voi sì

Non sono a caccia di like.

Il like più importante è quello che mi do io, ogni giorno, quando mi guardo allo specchio e so di essere rimasto fedele a me stesso. Non è un numero a stabilire il mio valore, ma la mia coscienza.


Qualcuno, vedendo i miei inizi lenti, crede che mollerò come altre volte. Pensa che i pochi accessi dei primi mesi siano il segno di un fallimento già scritto. E invece è proprio lì che sbagliate: io non mi fermo davanti al silenzio, anzi è nel silenzio che divento più forte.

Mi fanno sorridere certi “grandi del web”: ho proposto uno scambio di link, un gesto semplice, uno scambio alla pari. Risultato? Nessuna risposta. Troppa paura che il loro pallone gonfiato si sgonfi con un confronto vero. Come se io avessi bisogno dei loro utenti o della loro approvazione.

Voi, che vi credete intoccabili, siete i primi a crollare. Rumorosi per un attimo, poi sparite: schiuma nel mare, fumo nell’aria.
Io invece resto. Perché la mia forza non sta nei vostri like, ma nella mia costanza.

E allora ricordatevelo:
io non crollo con i like. Voi sì.

Quando la Giustizia Divina supera quella degli uomini

Un anno fa, il 30 settembre 2024, si è chiusa per sempre la vita di chi aveva tolto quella dei miei cugini Vincenzo e Fabio.

Era il 3 settembre 1989 quando scomparvero improvvisamente. I giorni successivi furono pieni di angoscia e attesa: le ricerche, la speranza di un ritorno che non ci sarebbe mai stato. La loro auto fu ritrovata solo settimane dopo, immersa in un lago vicino, e con essa il tragico destino dei miei cugini. La notizia scosse profondamente tutta la famiglia: la perdita non era solo personale, ma si intrecciava con il dolore di una comunità intera.

Il processo si trascinò con le sue fasi, tra primo grado e appello. Alla fine, l’unico riconosciuto colpevole per il delitto fu chi aveva tolto loro la vita. Condannato a lungo, purtroppo scontò solo metà della pena grazie alla buona condotta. La giustizia degli uomini, pur facendo il suo corso, non poteva restituire Vincenzo e Fabio, né alleviare il dolore dei familiari.

Poi, lo scorso anno, la vita di quell’uomo si è interrotta a 68 anni per un attacco cardiaco. Non provo gioia, perché nulla potrà mai restituire ciò che è stato tolto, ma in quell’evento c’è un segno: la Giustizia Divina non ammette compromessi, non concede sconti, e rende il conto a chi ha seminato dolore.

Nonostante il tempo passato, porto ancora Vincenzo e Fabio dentro di me, nei ricordi, nei legami, nelle immagini di due ragazzi che meritavano di vivere una vita piena e non di essere strappati via così presto. Ogni giorno, la memoria di loro è un richiamo alla giustizia, all’amore per chi ci è caro e alla consapevolezza che la vita, pur fragile, conserva un equilibrio che spesso l’uomo non vede.

Ettore Alpi: Il Nome che Mi Salva

O Saturno, che mi lasciasti orfano,
mi lasciasti sulla salita
per essere padre e figlio di me stesso.


Non tutti sanno che dietro un nome c’è un destino. Io lo scopro nei miei fallimenti, nel cammino dell’eroe che ho percorso senza guida. Orfano di un mentore, ho imparato che il viaggio non può compiersi senza una voce che ci preceda. Così ho creato Ettore Alpi.

Ettore Alpi non è soltanto un nome. È un sigillo, una porta, un’ombra e una luce insieme. È il mio doppio, il mio vero nome è il suo mentore silenzioso, Lui è  il volto pubblico della mia anima creativa. Dietro le quinte, io porto il mio vero nome. Lì coltivo le radici. Sul palcoscenico, Ettore Alpi prende vita, come un guerriero chiamato alla prova. Antonio De Curtis e Totò non sono stati che un esempio di questo miracolo: separare la carne dal mito, l’uomo dal personaggio.

Enzo P.  è il mentore di Ettore Alpi 

Il mio nome vero è il custode. Ettore Alpi è l’eroe. Due nomi, due percorsi, un’unica anima. Sui social, questa distinzione è un rito: LinkedIn custodisce la mia identità reale, mentre il resto del mondo accoglie Ettore Alpi. Così creo una danza segreta, una relazione tra ciò che sono e ciò che posso diventare.

Questo sdoppiamento non è fuga, è evoluzione. È una scelta di coraggio. È liberare se stessi dal peso del passato. È trasformare una ferita in una leggenda. Io sono l’uomo dietro le quinte, Ettore Alpi è la storia che racconto. E insieme, camminiamo verso un destino che ancora non conosciamo.

Dalla Democrazia Cristiana al Politico Cattolico del Futuro

Storia, crisi e rinascita possibile di un impegno politico ispirato dalla fede

La Galassia Democristiana



Le radici: la fortuna politica della Democrazia Cristiana

Per comprendere se sia ancora possibile oggi un impegno politico significativo dei cattolici, dobbiamo guardare alla fortuna storica della Democrazia Cristiana (DC) nel secondo dopoguerra.

Erede del Partito Popolare di Don Luigi Sturzo (1919), la DC nacque come argine democratico al comunismo e alternativa alla sinistra marxista. Nel suo successo confluirono:

  • Cattolici autenticamente impegnati, che avevano vissuto con sofferenza il ventennio fascista;
  • Ex clerico-fascisti riciclati, che vedevano nella DC un rifugio presentabile dopo il crollo del regime;
  • Conservatori moderati, reduci dal mondo badogliano, destinati a confluire decenni dopo nel centrodestra berlusconiano;
  • Quadri amministrativi e imprenditoriali, interessati a stabilità e continuità più che a ideologia pura.

Tutti insieme formarono un blocco di potere centrista, conservatore nei modi ma progressista nei toni, che occupava i banchi della destra parlamentare, accanto ai missini, pur definendosi "Centro". Questo equilibrio precario reggeva grazie alla forza numerica e alla capacità della DC di parlare a più anime sociali e territoriali, spesso con mediazioni clientelari e paternalistiche, ma anche con figure di alto profilo come De Gasperi, Moro, Andreotti, Fanfani.


Oggi: secolarizzazione e frammentazione del centro

La società italiana è profondamente mutata. I cattolici praticanti sono una minoranza sociologica e spesso divisi culturalmente. Il Vangelo non è più codice condiviso nemmeno tra coloro che frequentano le chiese.

Il quadro politico attuale vede:

  • Un centro affollato, dove tra centrismi liberali, riformismi d’occasione, cattolici “disinnescati” e ex democristiani riciclati si litiga per il 5-7% del consenso;
  • Partitini nati da nobili intenzioni cristiane finiti ostaggio di logiche di scambio, spesso irrilevanti senza un “contentino” nelle trattative di governo;
  • Una Chiesa che tace sulla politica, o che parla genericamente al sociale, ma non forma più una classe dirigente politica.

Eppure, qualcosa potrebbe cambiare. La nuova enfasi sul sociale nella Chiesa, ipoteticamente guidata da un Papa Leone (figura simbolica di forza e dottrina), riporta in auge Sturzo, De Gasperi, Toniolo e la Dottrina Sociale della Chiesa.

Ma attenzione: non sarà più tempo di partiti-massa. Sarà tempo di testimonianze forti, piccole reti, politici credibili.  


Verso il futuro: la Carta del Politico Cattolico

Oggi chi crede in un nuovo impegno dei cattolici nella cosa pubblica deve pensare in termini diversi rispetto al passato. Nessuna riedizione nostalgica della DC. Nessuna delega all’alto clero. Nessun partito confessionale.

Serve una nuova generazione di cattolici formati, liberi, coraggiosi. Serve un profilo nuovo, incarnato nella Carta del Politico Cattolico del Futuro:


La Carta del Politico Cattolico del Futuro

(Sintesi)

  1. Radicato nella fede, non prigioniero dell’identità
  2. Libero nel pensiero, saldo nei valori
  3. Competente e formato
  4. Al servizio del bene comune, non del tornaconto
  5. Popolare ma non populista
  6. Costruttore di ponti, non di fazioni
  7. Visionario e realista
  8. Sobrio nello stile, integro nella condotta
  9. Accogliente, non accondiscendente
  10. Seminatore di futuro

“Non vi conformate alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente.” (Romani 12,2)

 

Conclusione: testimoni, non nostalgici

Il politico cattolico del futuro non nasce da un progetto partitico, ma da un percorso personale e comunitario: nella parrocchia, nell’università, nell’impresa, nella cittadinanza attiva.

Se la politica è davvero, come diceva Paolo VI, “la forma più alta di carità”, allora è tempo di un nuovo protagonismo laicale, fatto di radici profonde e azione concreta.

La Carta del Politico Cattolico del Futuro può essere il primo passo. Un piccolo seme, per una grande semina.


Cateno De Luca e il potere dal basso: tra politica locale, storia e dinamiche globali

La scalata di un outsider
In un’Italia sempre più frammentata e dominata dai grandi partiti nazionali, emergono figure capaci di scalare il consenso dal basso, affidandosi al carisma personale e al contatto diretto con la gente. Cateno De Luca, sindaco di piccoli comuni del Messinese prima, di Messina poi e oggi di Taormina, è l’esempio perfetto di questo modello. Non ha sponsor, lobby o grandi apparati alle spalle, ma possiede una capacità di comunicare che sembra uscita da un manuale di marketing politico. Non è raro vederlo durante eventi pubblici compiere gesti spettacolari: tuffi in piscina vestito, flash mob amministrativi, dichiarazioni clamorose a sorpresa. Ogni azione diventa simbolo di rottura, di distacco dalle regole consuete della politica, e riesce a colpire l’immaginario collettivo.

Il suo movimento “Sud chiama Nord” e la lista “Libertà” alle elezioni europee del 2024 incarnano questa filosofia: un mosaico di piccole sigle, ambientalisti, animalisti, ex attivisti anti-establishment, tutti uniti non da un’ideologia coerente, ma dalla voglia di provare a scardinare il sistema tradizionale. Nonostante decine di migliaia di preferenze raccolte in Sicilia e nel Messinese, il tentativo non ha superato lo sbarramento, confermando una lezione che la storia politica e la teoria dei movimenti dal basso ci hanno insegnato: emergere senza appoggi o condizioni favorevoli resta una sfida estremamente ardua.

La lezione di Lenin e Trotsky
La storia moderna offre esempi emblematici di come un movimento popolare possa avere successo solo in presenza di circostanze favorevoli dall’alto. Durante la Prima Guerra Mondiale, Lenin e Trotsky non avrebbero potuto entrare in Russia senza l’intervento strategico dei tedeschi, che li trasferirono da Zurigo a San Pietroburgo su un vagone piombato. Senza questo aiuto esterno, lo Tsar li avrebbe facilmente annientati, e la rivoluzione russa probabilmente non sarebbe mai esplosa.

Questo esempio serve a illustrare un principio generale: anche i movimenti più organizzati e popolari rischiano di fallire se il contesto non è favorevole. Si tratta del ruolo potenziale di potenze straniere nella storia e nella geopolitica, sottolineando come l’interesse strategico di attori esterni possa cambiare le sorti di un movimento.

Geopolitica contemporanea: il basso e l’alto
Oggi la dinamica resta valida in termini teorici, anche se i mezzi si sono evoluti. Movimenti dal basso possono, in astratto, attirare attenzione o sostegno da attori esterni interessati a destabilizzare governi consolidati, sia in Europa sia in America Latina o negli Stati Uniti. L’intervento può assumere forme molto diverse: finanziamenti indiretti, campagne mediatiche, manipolazione dell’informazione o pressione diplomatica. Lo scopo di tali operazioni è sempre strategico: influenzare le scelte politiche, le alleanze internazionali o la stabilità interna di uno Stato.

È importante sottolineare che Cateno De Luca non rientra in questo scenario. Non c’è alcuna evidenza né ragione per pensare che il suo operato abbia a che fare con interessi esterni o con strategie di destabilizzazione. La sua ascesa è del tutto interna, fondata su consenso popolare, mobilitazione locale e capacità comunicativa. La storia e la geopolitica servono qui solo come cornice teorica per comprendere le difficoltà che i movimenti dal basso incontrano nel tentativo di emergere.

De Luca come laboratorio politico contemporaneo
Cateno De Luca rappresenta un caso interessante di come un outsider possa costruire un percorso politico senza appoggi tradizionali, utilizzando il radicamento locale e la teatralità politica per creare un impatto reale. I suoi flash mob, la capacità di parlare direttamente alla cittadinanza e la creazione di liste e movimenti frammentati sono tentativi di generare scompensi nell’ordinaria politica, ma sempre entro i limiti del sistema democratico. La politica locale diventa così un laboratorio, dove si sperimentano strumenti e linguaggi che raramente emergono nelle grandi coalizioni nazionali.

Quando il basso incontra il contesto favorevole
La politica reale non è mai solo questione di volontà: è un intreccio complesso di consenso popolare, opportunità storiche, contesto internazionale e condizioni locali. Senza fattori favorevoli, anche i politici più talentuosi rischiano di restare confinati alla dimensione locale. Ecco perché figure come De Luca ci ricordano che la democrazia non è solo urne e leggi, ma anche capacità di leggere il contesto, creare consenso e sperimentare nuovi strumenti di comunicazione e mobilitazione. La sua esperienza insegna che, pur senza appoggi esterni o potenze straniere, è possibile emergere dal basso, innovare la politica locale e attrarre attenzione, lasciando un segno duraturo anche senza scalare il livello nazionale.

Rivoluzione a Napoli: il mito che non esplode

La Rivolta di Masaniello 

Camminare per Napoli significa muoversi tra memoria e leggenda, tra vicoli stretti dove l’odore del ragù si mescola a quello del mare, e piazze che respirano storia ad ogni passo. La città ha sempre avuto la fama di essere pronta a ribellarsi, di covare sotto la pelle del popolo un fuoco che può divampare in qualsiasi momento. Si parla spesso delle Quattro Giornate del 1943 come di un esempio di eroismo collettivo, eppure la realtà era più complessa. Molti scapparono, si nascosero, si rifugiarono nelle cantine per paura delle bombe e delle rappresaglie. Solo pochi, come raccontano le cronache, affrontarono il rischio con coraggio: uomini e donne che salirono sui tetti, presero le armi improvvisate e affrontarono soldati tedeschi con un coraggio quasi disperato.

Salvatore Quasimodo, nei suoi versi, ricorda come all’indomani della Liberazione molti si presentarono nelle piazze come partigiani, anche coloro che avevano passato la guerra nascosti o che avevano abbandonato la camicia nera per mescolarsi tra la folla. La Resistenza italiana, nel suo complesso, vide una minoranza attiva; la maggioranza osservava, attendeva, sopravviveva. Napoli non faceva eccezione, e il mito della città ribelle si costruì più sui gesti simbolici e sugli episodi eclatanti che su un impegno costante e organizzato.

Eppure, Napoli continua a incarnare il sogno di rivoluzione. È una città densamente popolata, dove ogni tensione sociale diventa visibile, dove l’energia del popolo si manifesta con passionalità e teatralità. È la città dei “cofano sale e cofano scende”, dove ieri si poteva essere fascisti, oggi democristiani, domani comunisti, e in mezzo si cercava solo di mangiare e sopravvivere, secondo il famoso detto popolare: “O con la Francia o con la Spagna, basta che si magna.” Napoli è il fulmine che tutti intravedono, ma raramente il tuono che scuote davvero la società italiana.

La città è piena di aneddoti che raccontano questa contraddizione. Si dice che durante la Repubblica Partenopea del 1799, molti nobili e cittadini abbiano salutato con entusiasmo la rivoluzione solo quando le truppe francesi entrarono in città, per poi ritirarsi nei quartieri più sicuri quando la repressione borbonica si fece sentire. Le strade, ancora oggi, raccontano storie di coraggio improvviso e di prudenza radicata, di gesti di eroismo e di sotterfugi per sopravvivere. Persone come Luisa Sanfelice, che persero la vita per la Repubblica Partenopea, rimangono figure eccezionali, mentre la massa dei cittadini preferiva proteggere sé stessa, oscillando tra paura e opportunismo.

Letterati e cronisti hanno sempre colto questa duplicità. Benedetto Croce parlava del popolo napoletano come di un insieme di passioni e contraddizioni, capace di grandi gesti e al contempo di una saggezza pratica che lo induce a non esporsi inutilmente. Eduardo De Filippo, nei suoi drammi, mostrava un popolo che ride e piange nello stesso respiro, pronto a partecipare a grandi eventi collettivi ma altrettanto abile a ritirarsi quando serve. Napoli, insomma, non è un popolo di rivoluzionari per vocazione, ma un popolo che rende ogni ribellione spettacolare, anche quando resta breve e sporadica.

E allora perché Napoli viene evocata come epicentro di rivoluzioni? Forse perché la città, con il suo calore, la densità dei vicoli, la mescolanza di poveri e ricchi, di arte e degrado, crea un terreno visibile, simbolico, dove anche un piccolo gesto può apparire gigantesco. Napoli è il mito della rivoluzione italiana: appariscente, passionale, rumorosa, ma raramente sistematica. È il fulmine che tutti intravedono, ma che difficilmente diventa il tuono in grado di scuotere l’intero Paese.

Dire ‘No’ ai Tuoi Figli: L’Atto d’Amore che la Società Ha Dimenticato

Tutti parlano di educazione, ma pochi parlano di famiglia. Oggi sembra più facile comprare un giocattolo costoso o lasciare il bambino davanti a uno schermo che assumersi la responsabilità di guidarlo. Eppure, crescere un figlio significa molto di più: significa costruire un carattere, insegnare il rispetto, trasmettere valori. La scuola può aiutare, certo, ma non può sostituirsi ai genitori.

Conosco una famiglia in cui il figlio adolescente faceva ciò che voleva: interrompeva i genitori, ignorava le regole, reagiva con rabbia a ogni limite. La scuola l’aveva segnalato più volte, ma niente cambiava. Solo quando i genitori hanno deciso di stabilire confini chiari, spiegando il senso di ogni “no” e mostrando coerenza tra parole e azioni, qualcosa è cambiato. Il ragazzo ha imparato che il rispetto non è un optional, che la responsabilità non è un peso e che l’amore non significa assecondare ogni capriccio.



Un’altra amica raccontava che sua figlia di sette anni non sapeva aspettare: voleva tutto subito, dai regali alle attenzioni. Solo quando i genitori hanno introdotto piccole regole quotidiane, come aiutare in casa e aspettare il proprio turno, la bambina ha scoperto la soddisfazione di meritarsi le cose, di rispettare gli altri e di sentirsi competente. La scuola poteva solo confermare ciò che già accadeva a casa.

Mettere al mondo un figlio significa assumersi una duplice responsabilità: verso di lui, per farlo crescere sano, equilibrato e consapevole, e verso la società, perché diventi un adulto capace di inserirsi con rispetto e responsabilità. In una società di consumismo e opulenza, molti genitori pensano che basti un regalo o un like sui social per colmare ogni vuoto. Ma la vera crescita passa attraverso i limiti, i “no” spiegati e l’esempio coerente di chi ti ama davvero.

Educare non è delegare. Educare richiede coraggio, pazienza e amore. Dire “no” oggi può salvare il futuro di un bambino domani. Chi pensa che viziare sia amore si illude: l’amore vero sa guidare, correggere e preparare a vivere nel mondo, non solo a sopravvivere nel proprio piccolo universo.

Campania 2025: I Demitiani Decideranno Chi Vince le Regionali in Campania

La vera partita delle elezioni regionali campane del 23 e 24 novembre non si giocherà solo nei comizi, nei social e nei sondaggi. Il centro della scena è rappresentato da una rete di potere silenziosa ma decisiva: i demitiani, eredi politici e amministrativi di Ciriaco De Mita, la cui influenza sul territorio può ribaltare ogni previsione. Nel 2010 furono loro, abbandonando il centrosinistra e Bassolino, a spalancare le porte della vittoria a Caldoro. Cinque anni più tardi, invece, furono riassorbiti da Vincenzo De Luca, che poté contare sulla loro rete di dirigenti nelle Asl campane per consolidare il proprio potere e blindare il successo elettorale.



Oggi, la situazione appare altrettanto cruciale. Il candidato del centrosinistra parte con un vantaggio nei grandi centri e con il sostegno dei principali partiti tradizionali, ma la partita resta aperta. Il candidato del centrodestra dovrà fare i conti con la capacità dei demitiani di spostare consenso e mobilitare elettori, soprattutto nelle province strategiche come Salerno e Caserta e, pure la loro scelta potrebbe trasformare una vittoria apparente in un risultato incerto e ribaltare il quadro dei pronostici.
Naturalmente, il centrodestra potrebbe riconoscere la sconfitta a tavolino, presentando un candidato di bandiera che si bruci. Ce ne accorgeremo perché il nome verrebbe scelto a pochi giorni dal termine per presentare le candidature e a ridosso della campagna elettorale ufficiale. Quella ufficiosa è iniziata già da tempo. 

In Campania, dunque, le elezioni non si vincono solo con i manifesti o i comizi: si vincono attraverso le alleanze, le reti di potere locali e il controllo dei meccanismi che muovono il consenso sul territorio. I demitiani continuano a incarnare l’ago della bilancia, e la loro decisione potrebbe rivelarsi determinante per chi sarà il prossimo governatore della Regione.

Essere o non essere: la cremazione come scelta contemporanea

Un giorno, forse, l’alunno distratto confonderà Otello con Amleto e leggerà “Essere o non essere, questo è il problema” afferrando un'urna cineraria; nel mondo funerario invece il dubbio non è filosofico, ma pratico, e si traduce in una scelta concreta: cremazione o sepoltura? Oggi in Italia la risposta si sposta sempre più verso la prima.

Secondo le ultime statistiche ufficiali pubblicate da SEFIT Utilitalia, nel 2023 l’incidenza delle cremazioni sui decessi totali ha raggiunto il 38,16 %, in crescita rispetto al 36,43 % del 2022. Per il 2024 non ci sono ancora dati consolidati, ma le stime parlano di una quota compresa tra il 38 e il 40 %, con punte molto più alte nel Nord Italia, dove in alcune città si sfiora l’80 %.

La crescita ha radici lontane. Alla fine del secolo scorso la cremazione era pressoché marginale: nel 2000 interessava poco più del 5 % dei decessi. Nel 2020 si era già arrivati oltre il 33 %. Oggi in molte aree del Nord e Centro Italia le percentuali superano la media nazionale, mentre al Sud la diffusione è frenata dalla minore disponibilità di impianti, con conseguente trasferimento delle salme verso altre regioni.

Gli esperti stimano che, se il trend proseguirà con questo ritmo, entro il 2030 la cremazione potrebbe arrivare a coprire fino al 90 % dei decessi, lasciando nei cimiteri interi settori dei campi di inumazione vuoti. Una trasformazione che ridisegnerà non solo la geografia del lutto, ma anche lo stesso paesaggio urbano, modificando la funzione e l’uso dei cimiteri.

Amleto 2.0: al posto del teschio l'urna cineraria 

Oltre agli aspetti economici e pratici, questa rivoluzione solleva interrogativi più profondi. I cimiteri non sono solo luoghi di sepoltura, ma spazi di memoria collettiva, custodi di storie, affetti e identità comunitarie. Se intere aree resteranno inutilizzate, occorrerà ripensarne il ruolo: da distese silenziose di croci e lapidi a possibili parchi della memoria, spazi culturali o luoghi di meditazione aperti alla collettività. In fondo, la scelta tra sepoltura e cremazione non riguarda soltanto il destino di un corpo, ma il modo in cui una società decide di custodire il ricordo dei propri morti e, con esso, la propria storia.

Ira di Dio: quando uno Stato si fa rispettare

L’estate del 1972 doveva essere un momento di festa e celebrazione per il mondo intero. I Giochi Olimpici di Monaco promettevano sport, fratellanza e pace tra le nazioni. Ma il 5 settembre, quell’atmosfera di gioia venne distrutta da un evento che sarebbe rimasto impresso nella memoria collettiva: un gruppo di terroristi palestinesi dell’organizzazione Settembre Nero irruppe nel villaggio olimpico e prese in ostaggio undici atleti israeliani. La tragedia si concluse con la morte di tutti gli ostaggi e di un poliziotto tedesco, e il mondo rimase scioccato, impotente di fronte a tanta brutalità.


In Israele, il dolore si trasformò rapidamente in rabbia e determinazione. La premier Golda Meir, con la sua ferrea volontà e il senso di responsabilità verso il suo popolo, prese una decisione che avrebbe segnato un’epoca: autorizzare il Mossad a rintracciare e colpire, ovunque si trovassero, i responsabili dell’attentato. Non si trattava di una vendetta cieca, ma di una risposta calcolata e sistematica, una dichiarazione chiara al mondo che uno Stato può farsi rispettare anche di fronte al terrore internazionale.

Il Mossad si mise subito all’opera. Gli agenti, addestrati a muoversi come ombre, iniziarono una caccia spietata che attraversò città europee e mediorientali. Lisbona, Parigi, Atene, Roma: nessun luogo era troppo lontano, nessuna strada troppo sicura. Ogni movimento dei terroristi veniva seguito, ogni contatto controllato, ogni dettaglio annotato. Quando il momento era giusto, l’azione era fulminea e precisa: esplosioni calibrate, colpi mirati, sparizioni improvvise. Nessuno dei membri di Settembre Nero poteva sentirsi al sicuro.

L’operazione durò anni, tra missioni segrete e tensioni diplomatiche. Molti attacchi rimasero nascosti all’opinione pubblica, e le notizie trapelavano solo come voci o rapporti riservati. L’Ira di Dio divenne così non solo una caccia ai colpevoli, ma una dimostrazione del potere di uno Stato deciso a difendere la propria dignità. In Israele fu accolta come giustizia necessaria; in Europa, alcuni governi guardavano con preoccupazione quegli omicidi clandestini, temendo per la sovranità dei propri territori e per la legalità internazionale.

Il Mossad dimostrò di saper colpire con precisione chirurgica, ma lasciò dietro di sé una scia di ombre, paure e dilemmi morali. La vendetta poteva essere giustificata, ma il prezzo era alto: vite umane perse, tensioni internazionali crescenti, un senso di inquietudine che attraversava le strade delle capitali europee.

Oggi, a decenni di distanza, l’Ira di Dio resta una pagina indelebile della storia contemporanea. Non è solo un racconto di vendetta, ma la testimonianza di come uno Stato possa affermare il proprio rispetto e la propria sicurezza con mano ferma, anche nelle situazioni più oscure. È la storia di un’azione implacabile, segreta e decisiva, dove giustizia e vendetta si intrecciano, e dove la determinazione di pochi può cambiare il corso della storia.

Israele tra politica e autodistruzione: il libro che scuote le coscienze

In un momento storico segnato da tensioni interne e conflitti esterni, Il suicidio di Israele di Anna Foa emerge come una lettura potente e provocatoria. L’autrice ci porta nel cuore di uno Stato che sembra camminare sul filo del rasoio, tra derive politiche, tensioni sociali e dilemmi morali che rischiano di compromettere la sua stessa sopravvivenza.


Anna Foa

Foa parte da una constatazione inquietante: Israele, già prima degli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, stava vivendo una profonda crisi interna. Le proteste contro il governo, le divisioni tra correnti sioniste e il crescente isolamento internazionale hanno creato una situazione in cui la democrazia sembra vacillare. Ma il “suicidio” di cui parla l’autrice non è solo militare. È politico, etico, sociale. È il rischio che le scelte interne portino a un isolamento morale e a un indebolimento dello Stato stesso.

Il libro affronta con chiarezza e rigore temi difficili: la discriminazione dei cittadini non ebrei, la legislazione che enfatizza il carattere ebraico dello Stato, e la tensione tra antisemitismo e legittima critica politica. Foa invita il lettore a distinguere tra odio verso gli ebrei e critica verso le politiche dello Stato di Israele, aprendo uno spazio di riflessione necessario e urgente.

Attraverso la storia del sionismo, dai suoi inizi più liberali e dialoganti fino alle correnti nazionaliste e religiose più estreme, il libro dipinge un quadro in cui le tensioni ideologiche interne rischiano di minare la stabilità e la coesione dello Stato. È un invito a guardare oltre la cronaca degli eventi, a comprendere le dinamiche profonde che plasmano il destino di Israele.

Ma Il suicidio di Israele non si limita a denunciare problemi. Foa indica anche possibili vie d’uscita: il riconoscimento dei diritti di tutti i cittadini, la fine dell’occupazione e il dialogo con i palestinesi. In un Paese in cui la politica interna spesso sovrasta le priorità morali e sociali, l’autrice ci ricorda che la sopravvivenza di una democrazia dipende tanto dalla capacità di affrontare le proprie contraddizioni quanto dalla forza militare.

Leggere questo libro significa confrontarsi con una realtà complessa, sfidante, talvolta scomoda. È una lettura che scuote, che provoca domande difficili, e che lascia il lettore con la consapevolezza che il futuro di Israele non è scritto, e che ogni scelta interna ha conseguenze sul destino dell’intero Paese.

Il Custode della Penna

Era una sera di dicembre, gelida e silenziosa, quando lo incontrai per la prima volta nei pressi di piazza Statuto. Le luci dei lampioni tremolavano tra la nebbia e i sampietrini bagnati riflettevano ombre lunghe e sottili. Non c’era anima in giro, eppure sentii un brivido quando lui comparve all’improvviso, come se fosse sempre stato lì, nascosto nell’aria stessa. «Non avere paura», disse, e la sua voce era calma, ferma, come se avesse sempre conosciuto il mio pensiero prima ancora che lo formulassi.



Mi parlò di altri scrittori che lo avevano seguito, di successi già scritti nel libro del destino, di recensioni e applausi che avrei avuto, e di un solo rischio: restare fumo nell’aria, schiuma nel mare. Non era un’offerta, era un comando velato di promessa: sarei diventato la sua penna, il suo strumento. Sentii un brivido di terrore e curiosità insieme.

«Ma come posso scrivere ciò che trovo sbagliato?» chiesi, il cuore che batteva come un tamburo in petto.
«Affogherai la tua coscienza nello champagne», rispose con un sorriso che era più ombra che volto. «Seduto nella piscina della tua villa, ti accorgerai che ciò che scrivi non ti appartiene più».

E così accettai, sospinto da un’attrazione che non comprendevo. Non fu lunga l’attesa: la storia iniziò a riversarsi nella mia mente come acqua nera. Scene, parole, pensieri che non sentivo miei si formavano con una chiarezza spaventosa. Non era solo ispirazione, era come se lui, questa voce viva, si insinuasse nelle mie vene e nelle mie ossa, riscrivendo ciò che ero e ciò che credevo di sapere.

I protagonisti della storia erano due uomini adulti, sposati, con vite ordinarie. Li vidi ritrovarsi in un albergo ad ore, lontani da occhi indiscreti, e sentii le parole della voce dettarmi sospiri, carezze, corpi che si cercavano con urgenza e curiosità. Ogni gesto, ogni respiro, ogni parola carica di lussuria si insinuava nelle pagine che non avrei mai voluto scrivere. Annotavo quelle scene con mani tremanti, con il vomito della coscienza sul fondo della gola, combattuto tra fascino e disgusto.

Non era la nudità né il desiderio a turbare me, ma l’idea di trasformare quella notte in un romanzo che la normalizzasse, che la rendesse esempio per chiunque avrebbe letto. Rispetto profondamente la loro realtà e il loro sentimento, ma rifiutavo di esserne l’apostolo. Scrivere quelle parole con la voce del Custode dentro di me mi faceva sentire complice di qualcosa che non potevo accettare come mia responsabilità morale.

Alla fine, con il tremore nelle mani e il cuore in subbuglio, lo mandai via. Lo scacciai dalla mia testa, deciso a non diventare portavoce di ciò che non avrei mai voluto propagare. La voce rimase, paziente, sicura che qualcun altro avrebbe completato quella storia. Io rimasi solo, sconosciuto e povero, ma integro nella mia resistenza, consapevole di aver visto la lussuria e la tenerezza, e di aver rifiutato di trasformarle in predica.

Eppure, nella quiete della mia stanza, sapevo che non lo avrei mai davvero scacciato. Sentivo ancora il suo respiro nell’aria, la penna invisibile muoversi tra le mie mani, e un’ombra che sorrideva nell’angolo più oscuro della mente, custode eterno di tutto ciò che potevo essere e non osavo diventare. Il Custode della Penna era lì, paziente e immutabile, testimone del confine sottile tra talento e tentazione, tra scrittura e moralità, tra il desiderio e la resistenza.

Il familismo amorale nel Mezzogiorno d’Italia: radici, studi e prospettive di superamento

Il termine familismo amorale fu introdotto dal politologo americano Edward C. Banfield nel 1958, nel celebre studio Le basi morali di una società arretrata, frutto di una lunga osservazione in un paese della Basilicata che l’autore chiamò con lo pseudonimo di “Montegrano”. Banfield descrisse un modello di comportamento diffuso nelle comunità del Mezzogiorno, fondato su un principio semplice e disarmante: agire nell’interesse esclusivo della propria famiglia, anche a costo di danneggiare gli altri o la collettività. Questo atteggiamento, apparentemente naturale e persino legittimo, si rivela però “amorale” perché ignora i valori di giustizia, equità e cooperazione sociale che consentono lo sviluppo di una comunità più ampia.

Secondo Banfield, il familismo amorale è una delle cause che spiegano il divario storico tra Nord e Sud. La logica del clan familiare porta infatti a diffidare delle istituzioni pubbliche, a preferire il favore personale alla regola universale, a coltivare reti di relazioni chiuse anziché capitali sociali aperti. Ne derivano fenomeni che ancora oggi si possono osservare: clientelismo, scarso senso civico, debolezza della fiducia reciproca, rassegnazione verso l’inefficienza amministrativa. Molti studiosi italiani ed europei hanno ripreso e discusso l’intuizione di Banfield. Alcuni l’hanno criticata per il suo carattere stereotipico e per l’impronta culturalista, altri ne hanno riconosciuto la capacità di cogliere un tratto reale, pur semplificato, delle dinamiche sociali meridionali.

Successivi contributi, come quelli di Robert Putnam con La tradizione civica nelle regioni italiane (1993), hanno confermato che le regioni del Nord e del Centro, più abituate a forme di associazionismo e cooperazione, mostrano livelli più alti di efficienza istituzionale, mentre il Sud appare intrappolato in un circolo vizioso in cui la mancanza di fiducia nelle istituzioni alimenta comportamenti familistici, e viceversa. Tuttavia, non mancano ricerche più recenti che hanno messo in evidenza le trasformazioni in atto: nuove reti di cittadinanza attiva, associazioni antimafia, cooperative sociali e movimenti civici stanno lentamente incrinando quella logica chiusa che per decenni ha dominato.

Comunità che rompono il ciclo
In Sicilia, ad esempio, numerose cooperative nate sui terreni confiscati alla mafia hanno trasformato beni che un tempo simboleggiavano potere criminale in risorse per la collettività. Libera Terra, la rete promossa dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti, ha creato opportunità di lavoro giovanile, rafforzato il tessuto sociale e mostrato che la collaborazione può sostituire il favore clientelare.

In Campania, le esperienze dei beni comuni urbani – come l’ex Asilo Filangieri a Napoli o il Giardino degli Scalzi – hanno dato vita a spazi gestiti collettivamente da cittadini e associazioni. Questi luoghi sperimentano un nuovo senso di appartenenza che non passa per legami di sangue, ma per la condivisione di un progetto comune.

In Calabria, iniziative come il “modello Riace” hanno dimostrato che l’accoglienza e l’integrazione possono generare capitale sociale in territori segnati da spopolamento e sfiducia. La rinascita di un paese abbandonato grazie a migranti e residenti che collaborano ha rappresentato, pur tra contraddizioni, un esempio di rottura con l’isolamento del familismo.

Anche in Puglia e Basilicata si moltiplicano esperienze di associazionismo giovanile, festival culturali e cooperative agricole che rifiutano la logica del “particulare” per costruire reti economiche e civiche inclusive.

Il confronto con il Nord: due Italie civiche
Il confronto con il Nord Italia, che Putnam mise in luce con la sua indagine, è illuminante. Le regioni settentrionali hanno conosciuto, fin dal Medioevo, una tradizione di comuni, corporazioni e autonomie locali che hanno insegnato ai cittadini a fidarsi delle istituzioni e a praticare la collaborazione oltre i confini della famiglia. Le cooperative emiliane, nate nell’Ottocento e sviluppatesi nel Novecento, sono un esempio lampante: reti economiche fondate sulla solidarietà, capaci di generare ricchezza e servizi senza ricorrere al clientelismo.

Nelle aree settentrionali, la forza delle istituzioni locali e l’attitudine a partecipare a organizzazioni collettive hanno creato un terreno fertile per lo sviluppo economico e sociale. Il capitale sociale accumulato nel tempo si è tradotto in fiducia reciproca, rispetto delle regole, senso civico diffuso. Questo non significa che il Nord sia immune da corruzione o particolarismi, ma la differenza sta nell’equilibrio: la norma è la collaborazione aperta, non la chiusura nel clan familiare.

Verso una nuova cultura civica
Il superamento del familismo amorale nel Mezzogiorno non può avvenire dall’oggi al domani, perché riguarda abitudini culturali profonde, trasmesse di generazione in generazione. Serve un lavoro paziente di educazione civica, di rafforzamento delle istituzioni e di promozione di spazi comunitari in cui le persone possano sperimentare fiducia reciproca. La scuola gioca un ruolo decisivo, così come l’associazionismo e il volontariato, che permettono di uscire dalla logica del favore privato per sperimentare la collaborazione su basi di uguaglianza. Anche lo sviluppo economico, se accompagnato da politiche inclusive e trasparenti, può incidere: dove ci sono opportunità per tutti, la tentazione di cercare scorciatoie clientelari si riduce.

Linee d’azione per il futuro
Per favorire un vero cambiamento, le politiche pubbliche dovrebbero puntare su alcuni assi strategici. Innanzitutto, investire in un’istruzione di qualità che non si limiti alla trasmissione di saperi, ma che formi cittadini consapevoli e attivi. In secondo luogo, rafforzare le autonomie locali e garantire trasparenza amministrativa, così da rendere più affidabili le istituzioni agli occhi dei cittadini. Fondamentale è anche sostenere le realtà associative e cooperative che già operano sul territorio, facilitando reti tra imprese sociali, comuni, scuole e cittadini. Infine, andrebbe promossa una nuova narrazione del Sud, che non si limiti alla retorica del vittimismo o dell’arretratezza, ma valorizzi le esperienze virtuose come modello da imitare.

In definitiva, il familismo amorale è una lente utile per comprendere alcune difficoltà strutturali del Mezzogiorno, ma non deve diventare una condanna. La storia recente dimostra che, laddove comunità, istituzioni e cittadini riescono a costruire fiducia reciproca, i vecchi schemi culturali si indeboliscono. Il futuro del Sud, dunque, dipende anche dalla capacità di trasformare la forza della famiglia – risorsa indiscutibile nella vita quotidiana – in un ponte verso la società, e non in un muro che la separa dal bene comune.

Il Cavaliere e il Paese che rideva e fischiava

Silvio Berlusconi non è mai stato un politico come gli altri. Forse, a ben guardare, non è mai stato un politico in senso stretto. Era un imprenditore, un comunicatore, un intrattenitore prestato alla politica quando il suo mondo di riferimento, quello dei partiti della Prima Repubblica, crollò in polvere con Tangentopoli. La sua “discesa in campo” nel 1994 fu più simile a una campagna pubblicitaria che a una fondazione di partito: slogan orecchiabili, colori vivaci, un jingle che sembrava uscito da uno stadio. Forza Italia nacque come un marchio, non come un movimento, e il marchio funzionò subito.

Quell’anno vinse le elezioni mettendo insieme una coalizione impossibile: al Nord la Lega di Bossi, al Sud i post-missini di Fini. Una combinazione che nessun politico di professione avrebbe osato tentare. Il suo primo governo durò pochi mesi, ma bastò per cambiare il tono della politica italiana: da allora in poi, per quasi vent’anni, lo scontro non fu più tra destra e sinistra, ma tra berlusconiani e antiberlusconiani.

Il Cavaliere aveva un’arma che i suoi avversari non possedevano: sapeva piacere. Con il pubblico ci sapeva fare, e non è un dettaglio da poco in un Paese che vive di televisione. Mentre molti leader di sinistra apparivano austeri, professorali, quasi infastiditi dal contatto con la piazza, Berlusconi rideva, stringeva mani, raccontava barzellette, si sedeva al pianoforte e intonava canzoni napoletane. Si racconta che durante un vertice internazionale, in un momento di pausa, abbia improvvisato “’O sole mio”, lasciando sbigottiti gli altri capi di Stato. Un gesto che in un altro sarebbe parso ridicolo, ma in lui sembrava naturale, come se fosse sempre sul palcoscenico di un varietà.

Certo, il suo impero economico e i suoi processi segnarono profondamente la sua parabola politica. Molte leggi furono viste come strumenti di difesa personale, e la sua figura rimase costantemente al centro di polemiche, scandali e conflitti di interessi. Eppure, nonostante tutto, tornava sempre. Dopo ogni caduta, dopo ogni sconfitta, riusciva a ripresentarsi come se nulla fosse. Nel 2001 restò al governo per cinque anni, nel 2008 tornò a Palazzo Chigi per l’ultima volta.

La sua uscita di scena, nel 2011, fu teatrale quanto la sua entrata: dimissioni sotto la pressione dei mercati e dell’Europa, il Quirinale circondato da una folla che lo fischiava e intonava cori. Lui, salendo in macchina, accennò un sorriso. Perché anche i fischi, per un uomo che ha sempre vissuto la politica come spettacolo, erano pur sempre applausi rovesciati.

Silvio Berlusconi, il Cavaliere, ha lasciato un’Italia divisa e trasformata. Lo si può amare o detestare, accusare o difendere, ma non ignorare. La sua epopea resta quella di un imprenditore che ha trasformato la politica in un grande palcoscenico, e che, nel bene e nel male, ha saputo tenere milioni di spettatori incollati allo spettacolo della sua vita.

Al Signor Presidente della Repubblica Sergio Mattarella



Egregio Signor Presidente,

sono un cittadino residente nella zona rossa del Vesuvio, una delle aree più a rischio del nostro Paese, dove la vita di ciascuno di noi potrebbe essere messa in pericolo da un’eventuale eruzione.

Con profonda amarezza Le scrivo a seguito dei cori razzisti intonati durante il raduno della Lega a Pontida, nei quali si invocava l’eruzione del Vesuvio e la distruzione di Napoli. Sentire augurare la morte di persone soltanto perché meridionali suscita in me interrogativi e inquietudini profondi.

La Lega, presente sulla scena politica da oltre quarant’anni, ha inciso in maniera rilevante sul dibattito e sulle decisioni nazionali. La recente pronuncia della Corte Costituzionale che ha respinto l’autonomia differenziata evidenzia quanto le spinte divisive possano alimentare fratture gravi nel tessuto democratico e unitario della Repubblica.

Mi chiedo, Signor Presidente, come sia possibile che di fronte a manifestazioni così esplicite di razzismo, mai si sia ritenuto opportuno applicare con rigore le disposizioni della legge Mancino, fino ad arrivare – se necessario – allo scioglimento di un partito che alimenta odio e discriminazione.

Confido nel Suo alto magistero di garante dell’unità nazionale e della Costituzione, affinché i cittadini del Mezzogiorno possano sentirsi pienamente tutelati e rispettati come parte integrante e insostituibile della comunità nazionale.

Con deferente ossequio,

Ettore Alpi
(al secolo Enzo P)


L'eruzione del Vesuvio tanto amata dai Leghisti


Ecco i 10 politici più odiati dagli italiani (il 3° ti sorprenderà)

Introduzione
Gli italiani amano discutere di politica, ma ancora di più amano odiarla. Non a caso, i politici sono tra i personaggi più divisivi del Paese: c’è chi li difende a spada tratta, e chi non perde occasione per insultarli sui social. Ma chi sono oggi i politici più odiati dagli italiani? E soprattutto, perché il terzo nome della lista potrebbe sorprenderti?

1. Giorgia Meloni
La Presidente del Consiglio è amata dai suoi sostenitori ma altrettanto odiata dai detrattori. A pesare non sono solo le sue scelte di governo, ma anche le accuse di limitazione della libertà di stampa e una certa vicinanza a retoriche considerate neo-fasciste.
Per i suoi oppositori è la “Madonna delle querele”, pronta a zittire i giornalisti critici.

2. Matteo Salvini
Da anni in cima alla lista dei più contestati. Il leader della Lega divide il Paese con i suoi slogan anti-immigrazione, le battaglie contro l’Europa e la comunicazione aggressiva sui social.
Per molti è il simbolo di una politica fatta di slogan facili e promesse irrealizzabili.

3. Francesco Lollobrigida (il nome che sorprende)
Il Ministro dell’Agricoltura non è tra i più televisivi, né tra i più seguiti sui social. Eppure è entrato di diritto nella “top ten” degli odiati. Il motivo? Alcune dichiarazioni che hanno fatto discutere: quando parlò di “sostituire i bambini italiani con qualcun altro”, evocando teorie complottiste sul “grande rimpiazzo”.
A questo si è aggiunta la sua crociata contro la carne coltivata in laboratorio, vista dagli scienziati come un freno al progresso.
Sorprende trovarlo qui perché non è un leader di partito né una star mediatica, ma un ministro “di settore” che ha acceso polemiche inaspettate.

4. Vincenzo De Luca
Il “cinghialone” della Campania. Popolarissimo tra i suoi fan, odiatissimo dai detrattori. Il suo linguaggio diretto, a volte violento, e le polemiche giudiziarie lo rendono uno dei politici più divisivi.
Ama fare il comico, ma i suoi avversari lo accusano di fare solo cabaret politico.

5. Cateno De Luca
Teatrale e sopra le righe. Dai travestimenti in aula ai siparietti da “Money Heist”, è amato per la sua spontaneità, ma molti lo considerano un pagliaccio della politica.
Lui però ci gioca: “Meglio un sindaco nudo che un politico corrotto”.

6. Beppe Grillo
Fondatore del Movimento 5 Stelle, resta un personaggio amatissimo e odiatissimo. Predica contro l’establishment ma vive da miliardario. Per molti è il padre del populismo italiano.
Un comico che ha fatto ridere milioni… e fatto arrabbiare milioni di altri.

7. Giuseppe Conte
Ex premier, oggi volto del M5S. Più elegante di altri, ma accusato di incoerenze e promesse mancate. I suoi critici lo chiamano “l’avvocato del popolo… tranne che del suo”.
Per qualcuno è un uomo di Stato, per altri solo un attore consumato.

8. Guido Crosetto
Ministro della Difesa, bersagliato per la sua vicinanza al mondo degli armamenti e per le querele ai giornalisti.
Per chi lo critica è il simbolo del potere silenzioso delle lobby.

9. Alessandro Giuli
Subentrato a Gennaro Sangiuliano al Ministero della Cultura nel settembre 2024, Giuli si porta dietro un passato giornalistico e televisivo già divisivo. La sua nomina-lampo dopo le dimissioni del predecessore ha fatto discutere: per alcuni è stato un segnale di continuità, per altri l’ennesimo atto di gestione politicizzata della cultura.
Non ha ancora collezionato “gaffe storiche”, ma la sua presenza è già nel mirino dei critici.

10. Un posto condiviso da “tutti gli altri”
Perché in Italia c’è una verità eterna: il politico più odiato è sempre… quello al potere. Oggi tocca a loro, domani toccherà ad altri.

Conclusione
Che li si ami o li si odi, i politici italiani non smettono mai di far discutere. Ma il vero colpo di scena di questa lista è il numero 3: un ministro tecnico che, con poche parole, è riuscito ad attirare su di sé più odio di molti leader di partito.
Forse è questo il vero paradosso della politica italiana: non conta solo quello che fai, ma come lo dici.

Dal ricordo al presente: il peso della memoria ignorata

La Shoah, nella sua fase più acuta, durò circa quattro anni, dal 1941 al 1945, anche se la cosiddetta “Soluzione Finale” fu formalizzata solo con la Conferenza di Wannsee nel gennaio del 1942. Quell’inferno ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’umanità: milioni di vite spezzate, comunità annientate, un dolore così vasto da sembrare inconcepibile. Ogni anno, nel Giorno della Memoria, ci fermiamo a ricordare, a commemorare, a riflettere sulle responsabilità del passato. Ma mentre noi celebriamo quel ricordo, spesso in maniera rituale e simbolica, altrove la tragedia continua a consumarsi sotto gli occhi del mondo.

Il popolo palestinese soffre da decenni, dal 1948 a oggi, e non si tratta di commemorazione: è una sofferenza quotidiana, visibile, tangibile, che colpisce uomini, donne e bambini a Gaza, in Cisgiordania e nei campi profughi dei paesi vicini. Essi portano sulle proprie spalle un peso che noi possiamo solo intuire, pagando in prima persona il prezzo di decisioni storiche e ingiustizie internazionali di cui l’Europa ha parte della responsabilità. A differenza della memoria commemorativa, la loro sofferenza non ha giorni segnati sul calendario: è continua, inesorabile e silenziosa.

La memoria della Shoah dovrebbe insegnarci qualcosa di più del semplice ricordo: dovrebbe scuoterci, spingerci all’azione e impedirci di voltare lo sguardo di fronte alle ingiustizie presenti. Oggi, osservando la condizione dei palestinesi, ci troviamo davanti a una prova di coscienza che non possiamo ignorare: ricordare il passato significa riconoscere il dolore del presente e assumersi la responsabilità di reagire, prima che la storia continui a ripetersi sulle spalle di chi non ha voce.

Guida pratica - Come creare un’isola di resistenza dove sei nato

Restare non deve significare arrendersi.

Se vivi in un contesto ostile, degradato o semplicemente sfavorevole alla crescita personale e professionale, puoi comunque costruire un’oasi di libertà, autonomia e sviluppo. Ecco come fare.


1.  Emigra con la mente

Non puoi scegliere dove vivi, ma puoi scegliere cosa pensi.

Leggi libri, ascolta podcast e segui contenuti che vengono da contesti evoluti.

Spegni le lamentele quotidiane. Il “telegiornale mentale” del quartiere va disattivato.

Medita e scrivi ogni giorno: crea uno spazio interiore non contaminato.

Principio: il tuo ecosistema mentale dev’essere più forte dell’ambiente che ti circonda.


2. Seleziona relazioni sane

Le persone sono il suolo dove cresci.

Coltiva rapporti solo con chi ti eleva, ti stimola, ti mette in discussione costruttivamente.

Riduci al minimo l’interazione con chi vive nel vittimismo, nel cinismo o nella mediocrità.

Se non trovi alleati localmente, cerca online: gruppi tematici, corsi, forum, mentorship.

Principio: serve una piccola comunità selezionata per non perdere la rotta.


3. Alza i tuoi standard, ovunque tu sia

Anche se vivi in un contesto decadente, tu puoi comportarti come se fossi a Stoccolma.

Cura il tuo lavoro, la tua comunicazione, la tua etica. Nessuno ti vieta di essere eccellente.

Automatizza, organizza, semplifica: l’efficienza personale ti rende libero.

Rifiuta il “così fan tutti”.

Principio: non si resiste col lamento, si resiste con la disciplina.


4. Collegati al mondo esterno

Non chiuderti in una trincea. Apri una finestra sul mondo.

Collabora con realtà fuori dalla tua città o nazione.

Offri i tuoi servizi online, studia con docenti internazionali, crea un’identità digitale.

Lavora per il mondo, anche se resti in paese.

Principio: essere locali per residenza, ma globali per influenza.


5. Diventa un faro silenzioso

La miglior risposta all’ambiente che ti soffoca è una vita straordinaria vissuta con coerenza.

Non giustificarti. Non spiegarti. Non chiedere permesso.

Fai vedere che un’alternativa esiste: incarnala.

Prima o poi, qualcuno ti seguirà.

Principio: non aspettarti approvazione. Offri ispirazione.


In sintesi

Restare dove sei nato può essere un atto rivoluzionario. Ma solo se scegli di non diventare come ciò che ti circonda.

Un’isola non è isolata: è protetta e autonoma.

E può diventare, col tempo, un ponte verso un mondo nuovo.

Dall'Internazionalismo alla Fiera delle Élite

La parabola della sinistra italiana tra abbandono sociale e rivoluzione culturale




Dalle origini al compromesso storico

La sinistra italiana nasce come movimento operaio e popolare, radicato nelle periferie industriali, nelle fabbriche, tra i ceti medi e i lavoratori. Il Partito Comunista Italiano di Berlinguer incarna un modello di lotta sociale e culturale che mira a rappresentare gli interessi delle classi subalterne, con un occhio attento alle questioni nazionali e internazionali.

Con il passare degli anni, però, la sinistra italiana inizia un processo di trasformazione, segnato dal compromesso storico, dall’entrata nel sistema e dalla progressiva moderazione delle istanze popolari in favore di un’apertura europeista e atlantista.


L’allontanamento dalle periferie

Dagli anni ’90 in poi, la sinistra italiana si sposta progressivamente dal cuore operaio e popolare verso le élite urbane, lasciando indietro le periferie e il ceto medio-lavoratore, che sono invece sempre più attratti da politiche sovraniste o populiste.

Questo allontanamento non è solo economico, ma anche culturale: le istanze sociali tradizionali vengono sostituite da temi di identità culturale e diritti civili, spesso percepiti come lontani dai problemi concreti della gente comune.


La rivoluzione culturale e il “festival delle élite”

La sinistra abbraccia così battaglie “culturali” come quelle sui diritti LGBTQ+, il femminismo intersezionale, le politiche migratorie aperte e il politicamente corretto. Questi temi, simbolizzati in eventi come il Gay Pride, diventano il nuovo terreno di conquista elettorale.

Se da un lato queste battaglie sono importanti per la difesa dei diritti, dall’altro esse vengono spesso percepite come un distacco dalle esigenze materiali di chi vive nelle periferie o nelle zone più deindustrializzate, creando un cortocircuito tra la base storica e la leadership.


Il prezzo del globalismo e dell’Europa

L’europeismo convinto, il sostegno incondizionato alle politiche di austerità e la fedeltà ai vincoli NATO accentuano ulteriormente il senso di estraneità che molti lavoratori e ceti medi avvertono verso la sinistra.

Il risultato è una sinistra sempre meno radicata nei territori, sempre più dipendente da settori intellettuali e mediatici, e meno capace di rappresentare gli interessi economici e sociali più tradizionali.




Conclusione: tra sfida e crisi d’identità

La sinistra italiana si trova oggi di fronte a una sfida cruciale: riconquistare la fiducia delle periferie, recuperare il rapporto con il lavoro e con il ceto medio, senza rinunciare alle sue battaglie identitarie e culturali.

La sfida sarà difficile, perché richiede un equilibrio che finora è mancato: non un abbandono delle nuove istanze, ma una riconciliazione tra diritti civili e giustizia sociale, tra globalismo e radicamento territoriale.


Il Sud che arriva ultimo può diventare il primo: l’isola di progresso che ancora non vediamo


Si dice spesso che nel Mezzogiorno le novità arrivino sempre in ritardo. Le tecnologie, le riforme, le mode culturali, persino le idee di progresso passano prima per Milano, Bologna o Torino e solo anni dopo trovano spazio a Napoli, Bari o Palermo. Non è un caso: il provincialismo degli abitanti, la diffidenza cronica verso il nuovo e il conservatorismo delle classi dirigenti hanno costruito un muro che respinge ogni tentativo di innovazione.

Eppure proprio qui, dove tutto sembra immobile, può nascere una vera rivoluzione. Un’isola di progresso in Italia Meridionale è possibile, e non come eccezione romantica, ma come laboratorio concreto.

La storia lo dimostra: i luoghi che arrivano ultimi al cambiamento, quando finalmente si muovono, spesso saltano direttamente alcune tappe e si lanciano più avanti. È accaduto con certe città asiatiche, che da villaggi arretrati sono diventate metropoli tecnologiche in una generazione. Accade anche in piccoli borghi del Sud dove esperimenti culturali, sociali o imprenditoriali — spesso snobbati all’inizio — hanno poi acceso interi territori.

Il punto è che il provincialismo può trasformarsi da maledizione a risorsa. Quella lentezza che oggi rallenta, domani può custodire autenticità, comunità, legami che altrove sono stati già spazzati via dalla corsa cieca alla modernità. Se a questi valori antichi si aggiunge la forza di una visione nuova, allora il Sud non sarà soltanto ultimo ad adottare i cambiamenti altrui, ma potrà diventare il primo a inventarne di propri.

Un’isola di progresso non nasce convincendo tutti, ma resistendo al ridicolo iniziale. È un bar che diventa centro culturale, una scuola che adotta modelli innovativi, un gruppo di giovani che apre un’impresa globale restando a Matera o a Reggio Calabria. All’inizio sembrano utopie isolate. Poi, quando i risultati si vedono, la diffidenza crolla.

Il Mezzogiorno non ha bisogno di copiare il Nord, né l’Europa del Nord. Ha bisogno di accendere piccole fortezze di progresso che funzionino davvero, nonostante lo scetticismo. Perché quando il Sud “arriva” al futuro, spesso lo fa con più passione, più identità, più coraggio.

Il vero paradosso è che proprio dove oggi tutto sembra in ritardo, domani potrebbe accendersi la scintilla capace di guidare gli altri. Ma per vederla, serve qualcuno disposto a restare, a resistere e a credere che l’isola possa diventare faro.

Sud tradito: basta sudditanza ai partiti nazionali

La Lega ha ottenuto l’autonomia differenziata grazie alla complicità di chi avrebbe dovuto opporsi. Eppure, quegli stessi partiti hanno sezioni in Sud Italia e si sostengono proprio sui voti di politici meridionali. Fingere di non vedere questa contraddizione significa tradire il Sud e i cittadini che ti hanno scelto, peggio di chi sfoggia con orgoglio il simbolo della Lega.

Non serve essere neoborbonici o seguaci di Pino Aprile: capire che un politico ha un rapporto simbiotico con la propria comunità è questione di buon senso. Agire per la propria gente non è un’opzione: è un dovere.

Chi governa il Sud deve comportarsi come un imprenditore intelligente: usare i partiti nazionali come strumenti, non come padroni. Il voto premia persone capaci, non sigle vuote. Chi ancora pensa che basti obbedire alla direzione nazionale consegna il Sud agli interessi di altri.

Il Sud non ha bisogno di sudditi. Ha bisogno di chi mette la propria comunità davanti a tutto, senza compromessi, senza alibi e senza paura. Chi non lo capisce, tradisce. Punto.

Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pan...