Israele nasce nel 1948, in seguito alla Dichiarazione di Indipendenza proclamata il 14 maggio, nel contesto drammatico della Seconda Guerra Mondiale e, soprattutto, della Shoah. Questo genocidio nazista ha portato allo sterminio di circa sei milioni di ebrei, una tragedia che ha lasciato un segno indelebile nella coscienza mondiale e ha creato il fondamento morale e politico dello Stato di Israele come rifugio e patria per il popolo ebraico.
Negli anni immediatamente successivi alla sua fondazione, Israele si è trovato in guerra con gli Stati arabi vicini (1948, 1956, 1967, 1973). Questi conflitti hanno consolidato l’immagine di Israele come “David” circondato da “Golia” arabi. La vittoria nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, che ha portato all’occupazione di territori come Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le Alture del Golan, ha segnato un punto di svolta, introducendo un nuovo capitolo di occupazione e conflitto.
Nei decenni successivi, le tensioni sono aumentate, culminando nelle Intifade palestinesi: la prima (1987-1993) e la seconda (2000-2005). Questi momenti di rivolta popolare hanno portato a gravi violenze da entrambe le parti, ma soprattutto hanno mostrato come la situazione dei palestinesi sotto occupazione fosse caratterizzata da sofferenze quotidiane, limitazioni di movimento, distruzioni di case e frequenti bombardamenti.
La Striscia di Gaza, da quando è stata sottratta al controllo diretto israeliano nel 2005, è divenuta il fulcro di un conflitto violento e prolungato. Le operazioni militari israeliane “Piombo Fuso” (2008-2009), “Margine Protettivo” (2014) e più recenti hanno causato migliaia di vittime civili, tra cui molti bambini. Le immagini di distruzione, ospedali colpiti, scuole devastate, hanno colpito l’opinione pubblica internazionale.
Per molti osservatori, queste azioni hanno segnato la perdita di quell’“innocenza” che Israele aveva conquistato nel dopoguerra. Non è più visto solo come Stato vittima della storia, ma come attore con responsabilità dirette nella sofferenza attuale dei palestinesi. Organizzazioni internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato possibili crimini di guerra e violazioni sistematiche dei diritti umani.
In Europa, la reazione politica è spesso di sostegno incondizionato a Israele, giustificato dalla memoria della Shoah e dal dovere morale di proteggere lo Stato ebraico. Tuttavia, questo sostegno viene sempre più contestato da una parte dell’opinione pubblica e di molti intellettuali, che denunciano una subordinazione acritica.
Esponenti politici e attivisti hanno usato espressioni come “servi sciocchi” o “lustrascarpe” per descrivere quei leader europei che sembrano incapaci di esercitare un giudizio autonomo, preferendo mantenere un’alleanza storica senza considerare i fatti attuali e i diritti umani violati.
La sfida è dunque complessa: è indispensabile continuare a ricordare e onorare la Shoah, la lezione morale che ci mette in guardia contro ogni forma di razzismo e genocidio. Allo stesso tempo, è necessario saper leggere con onestà la realtà presente, denunciando ogni ingiustizia, anche quando riguarda un alleato storico.
L’Europa ha la responsabilità di bilanciare memoria storica ed etica politica, evitando che il passato diventi un alibi per chiudere gli occhi sul presente. Solo così potrà svolgere un ruolo autentico di promotrice di pace e giustizia, contribuendo a costruire un futuro in cui verità, equità e rispetto reciproco non siano parole vuote, ma realtà concrete.

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