Era una sera di dicembre, gelida e silenziosa, quando lo incontrai per la prima volta nei pressi di piazza Statuto. Le luci dei lampioni tremolavano tra la nebbia e i sampietrini bagnati riflettevano ombre lunghe e sottili. Non c’era anima in giro, eppure sentii un brivido quando lui comparve all’improvviso, come se fosse sempre stato lì, nascosto nell’aria stessa. «Non avere paura», disse, e la sua voce era calma, ferma, come se avesse sempre conosciuto il mio pensiero prima ancora che lo formulassi.
Mi parlò di altri scrittori che lo avevano seguito, di successi già scritti nel libro del destino, di recensioni e applausi che avrei avuto, e di un solo rischio: restare fumo nell’aria, schiuma nel mare. Non era un’offerta, era un comando velato di promessa: sarei diventato la sua penna, il suo strumento. Sentii un brivido di terrore e curiosità insieme.
E così accettai, sospinto da un’attrazione che non comprendevo. Non fu lunga l’attesa: la storia iniziò a riversarsi nella mia mente come acqua nera. Scene, parole, pensieri che non sentivo miei si formavano con una chiarezza spaventosa. Non era solo ispirazione, era come se lui, questa voce viva, si insinuasse nelle mie vene e nelle mie ossa, riscrivendo ciò che ero e ciò che credevo di sapere.
I protagonisti della storia erano due uomini adulti, sposati, con vite ordinarie. Li vidi ritrovarsi in un albergo ad ore, lontani da occhi indiscreti, e sentii le parole della voce dettarmi sospiri, carezze, corpi che si cercavano con urgenza e curiosità. Ogni gesto, ogni respiro, ogni parola carica di lussuria si insinuava nelle pagine che non avrei mai voluto scrivere. Annotavo quelle scene con mani tremanti, con il vomito della coscienza sul fondo della gola, combattuto tra fascino e disgusto.
Non era la nudità né il desiderio a turbare me, ma l’idea di trasformare quella notte in un romanzo che la normalizzasse, che la rendesse esempio per chiunque avrebbe letto. Rispetto profondamente la loro realtà e il loro sentimento, ma rifiutavo di esserne l’apostolo. Scrivere quelle parole con la voce del Custode dentro di me mi faceva sentire complice di qualcosa che non potevo accettare come mia responsabilità morale.
Alla fine, con il tremore nelle mani e il cuore in subbuglio, lo mandai via. Lo scacciai dalla mia testa, deciso a non diventare portavoce di ciò che non avrei mai voluto propagare. La voce rimase, paziente, sicura che qualcun altro avrebbe completato quella storia. Io rimasi solo, sconosciuto e povero, ma integro nella mia resistenza, consapevole di aver visto la lussuria e la tenerezza, e di aver rifiutato di trasformarle in predica.
Eppure, nella quiete della mia stanza, sapevo che non lo avrei mai davvero scacciato. Sentivo ancora il suo respiro nell’aria, la penna invisibile muoversi tra le mie mani, e un’ombra che sorrideva nell’angolo più oscuro della mente, custode eterno di tutto ciò che potevo essere e non osavo diventare. Il Custode della Penna era lì, paziente e immutabile, testimone del confine sottile tra talento e tentazione, tra scrittura e moralità, tra il desiderio e la resistenza.

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