Il Regno di De Luca in Campania: dagli albori al crepuscolo ( senza un Delfino)


La parabola politica di Vincenzo De Luca inizia nei ranghi del Partito Comunista Italiano, dove si forma nella cultura dell’organizzazione e del centralismo democratico. Uomo di partito, funzionario di provincia, incarna quel profilo di dirigente locale che, con la fine della Prima Repubblica e lo sfaldamento dei partiti storici, trova spazio e margine di ascesa.

La svolta arriva nei primi anni Novanta, quando De Luca conquista per la prima volta la poltrona di sindaco di Salerno. È il tempo della crisi dei partiti, di Tangentopoli, del crollo della Democrazia Cristiana e del PSI. In quel vuoto di potere, De Luca si presenta come figura nuova e al tempo stesso solida, capace di incarnare un “decisionismo popolare” che piace a una città in cerca di identità.


Il modello Salerno

Il “modello Salerno” diventa presto il marchio della sua leadership. De Luca si muove con piglio autoritario, accentrando nelle proprie mani ogni decisione strategica. Da sindaco, si costruisce un’immagine di amministratore inflessibile, spesso pronto a usare un linguaggio diretto, colorito, che diventerà il suo marchio di fabbrica.
Le opere pubbliche, la cura dell’estetica urbana, la retorica della legalità e dell’ordine si intrecciano a una gestione che molti definiscono clientelare. Attorno a lui cresce una rete di fedeltà, un sistema fatto di “ras” locali e “cacicchi”, uomini e donne che gli devono carriere, incarichi, posizioni.

Salerno diventa il laboratorio del “monarchismo amministrativo”: una città governata come un feudo personale, dove i meriti e le fedeltà si confondono. Il risultato è che De Luca riesce a farsi percepire come l’uomo del fare, l’unico capace di dare risposte concrete in un contesto meridionale spesso abbandonato all’immobilismo.


La scalata alla Regione

Dopo aver blindato il proprio potere cittadino, De Luca punta alla Regione Campania. La sua figura cresce oltre Salerno e diventa l’alternativa forte a un centrodestra campano dominato, per anni, da clientelismi e inefficienze.
Eletto Presidente nel 2015, confermato nel 2020 con uno scarto imponente, De Luca si trasforma nel signore indiscusso della politica campana. La sua comunicazione diretta e teatrale trova amplificazione mediatica durante la pandemia, quando i suoi video – tra minacce di “lanciafiamme” e ordinanze draconiane – diventano virali, alimentando la sua immagine di uomo forte.


Il Monarca e i suoi limiti

Non a caso, un libro-inchiesta lo definisce “Il Monarca”, raccontando i meccanismi del suo sistema di potere: un intreccio di fedeltà personali, promozioni, nomine, appalti e consenso. Un potere piramidale, che poggia più sul controllo capillare delle leve amministrative che su un reale progetto politico innovativo.

Fuori dalla Campania, però, De Luca non sfonda. La sua breve esperienza da sottosegretario e poi da ministro in un governo nazionale non lascia tracce significative: troppo radicato nel proprio territorio, troppo legato al linguaggio popolare e alla logica del comando diretto per adattarsi ai meccanismi più complessi e diluiti della politica romana.

Il contrasto è evidente: dominatore in Campania, comprimario a Roma. Se a livello locale è un Monarca, a livello nazionale resta un “barone regionale”, incapace di costruire una vera leadership oltre i confini della propria terra.



Un potere senza eredi?

Il futuro del sistema De Luca si lega a un interrogativo: cosa resterà dopo di lui? Un apparato consolidato di fedeltà personali può garantire continuità, ma rischia di non sopravvivere senza la figura carismatica e accentratore del leader. In questo senso, il “regno” di De Luca somiglia a quello di tanti signori della politica meridionale: potente, duraturo, ma inevitabilmente chiuso in sé stesso.

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