Rivoluzione a Napoli: il mito che non esplode

La Rivolta di Masaniello 

Camminare per Napoli significa muoversi tra memoria e leggenda, tra vicoli stretti dove l’odore del ragù si mescola a quello del mare, e piazze che respirano storia ad ogni passo. La città ha sempre avuto la fama di essere pronta a ribellarsi, di covare sotto la pelle del popolo un fuoco che può divampare in qualsiasi momento. Si parla spesso delle Quattro Giornate del 1943 come di un esempio di eroismo collettivo, eppure la realtà era più complessa. Molti scapparono, si nascosero, si rifugiarono nelle cantine per paura delle bombe e delle rappresaglie. Solo pochi, come raccontano le cronache, affrontarono il rischio con coraggio: uomini e donne che salirono sui tetti, presero le armi improvvisate e affrontarono soldati tedeschi con un coraggio quasi disperato.

Salvatore Quasimodo, nei suoi versi, ricorda come all’indomani della Liberazione molti si presentarono nelle piazze come partigiani, anche coloro che avevano passato la guerra nascosti o che avevano abbandonato la camicia nera per mescolarsi tra la folla. La Resistenza italiana, nel suo complesso, vide una minoranza attiva; la maggioranza osservava, attendeva, sopravviveva. Napoli non faceva eccezione, e il mito della città ribelle si costruì più sui gesti simbolici e sugli episodi eclatanti che su un impegno costante e organizzato.

Eppure, Napoli continua a incarnare il sogno di rivoluzione. È una città densamente popolata, dove ogni tensione sociale diventa visibile, dove l’energia del popolo si manifesta con passionalità e teatralità. È la città dei “cofano sale e cofano scende”, dove ieri si poteva essere fascisti, oggi democristiani, domani comunisti, e in mezzo si cercava solo di mangiare e sopravvivere, secondo il famoso detto popolare: “O con la Francia o con la Spagna, basta che si magna.” Napoli è il fulmine che tutti intravedono, ma raramente il tuono che scuote davvero la società italiana.

La città è piena di aneddoti che raccontano questa contraddizione. Si dice che durante la Repubblica Partenopea del 1799, molti nobili e cittadini abbiano salutato con entusiasmo la rivoluzione solo quando le truppe francesi entrarono in città, per poi ritirarsi nei quartieri più sicuri quando la repressione borbonica si fece sentire. Le strade, ancora oggi, raccontano storie di coraggio improvviso e di prudenza radicata, di gesti di eroismo e di sotterfugi per sopravvivere. Persone come Luisa Sanfelice, che persero la vita per la Repubblica Partenopea, rimangono figure eccezionali, mentre la massa dei cittadini preferiva proteggere sé stessa, oscillando tra paura e opportunismo.

Letterati e cronisti hanno sempre colto questa duplicità. Benedetto Croce parlava del popolo napoletano come di un insieme di passioni e contraddizioni, capace di grandi gesti e al contempo di una saggezza pratica che lo induce a non esporsi inutilmente. Eduardo De Filippo, nei suoi drammi, mostrava un popolo che ride e piange nello stesso respiro, pronto a partecipare a grandi eventi collettivi ma altrettanto abile a ritirarsi quando serve. Napoli, insomma, non è un popolo di rivoluzionari per vocazione, ma un popolo che rende ogni ribellione spettacolare, anche quando resta breve e sporadica.

E allora perché Napoli viene evocata come epicentro di rivoluzioni? Forse perché la città, con il suo calore, la densità dei vicoli, la mescolanza di poveri e ricchi, di arte e degrado, crea un terreno visibile, simbolico, dove anche un piccolo gesto può apparire gigantesco. Napoli è il mito della rivoluzione italiana: appariscente, passionale, rumorosa, ma raramente sistematica. È il fulmine che tutti intravedono, ma che difficilmente diventa il tuono in grado di scuotere l’intero Paese.

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