Il divorzio all’italiana secondo la Lega

C’erano tempi in cui il leghismo parlava senza veli di secessione. Gianfranco Miglio, ideologo della prima ora, teorizzava un “divorzio alla cecoslovacca”: due Stati, separati pacificamente, con un Nord pronto a portarsi via la cassa del Ministero del Tesoro lasciando il Sud gravato dal debito pubblico. Bossi scandiva “Roma ladrona” dalle piazze, e l’eco di quel grido era insieme rivolta e minaccia.


Quel divorzio, però, non è mai arrivato. La Lega, invece di spezzare la Repubblica, ha finito col penetrarla, condizionando dall’interno la sua architettura. È rimasta per anni stampella dei governi Berlusconi e, al contempo, ago della bilancia in ogni tornata politica. Non serve andare lontano per vedere l’eredità: l’autonomia scolastica, introdotta in anni in cui la Lega imponeva la sua agenda; la riforma del Titolo V della Costituzione, partorita dal centrosinistra nel 2001 più per inseguire i consensi padani che per convinzione autentica. Fu un tentativo maldestro di rincorrere un elettorato: il risultato è stata una competizione al ribasso tra Stato e Regioni, spesso a scapito dei cittadini.

Oggi il progetto ha cambiato pelle, ma non sostanza. Non più secessione, non più Cecoslovacchia, bensì autonomia differenziata. Un processo che si presenta come riforma ordinaria, quasi tecnica, ma che in realtà sancisce la logica della spesa storica: dove si è sempre investito, si continuerà a investire; dove si sono distribuite solo briciole, non arriverà che polvere. “È giusto che chi corre più veloce non debba aspettare chi resta indietro”, dicono i suoi sostenitori. Ma a quale prezzo?

Il divorzio all’italiana, dunque, non avviene per atti notarili o per trattati bilaterali, ma dentro le pieghe della stessa Costituzione. Nessuno spezza il Paese in due Stati sovrani perché sarebbe rischioso per il Nord chiudere il mercato con il Sud; molto meglio, per chi ha già vantaggio, mantenere l’unità formale e dividere i cittadini nei fatti. Due separati in casa, con gli stessi simboli, lo stesso inno, la stessa bandiera, ma diritti e servizi diseguali.

Roma, in questa parabola, non è più soltanto la “ladrona” dei primi slogan, ma il centro che redistribuisce al contrario: toglie ai poveri per dare ai ricchi, perpetuando diseguaglianze sotto il mantello della Repubblica. È il paradosso di un Paese che resta unito sulla carta, ma diviso nella vita quotidiana. Non un divorzio alla cecoslovacca, bensì una frattura silenziosa e permanente, in cui il matrimonio resta in piedi solo per convenienza, mentre le speranze di chi abita a Sud continuano a scivolare come sabbia tra le dita.

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