Il familismo amorale nel Mezzogiorno d’Italia: radici, studi e prospettive di superamento

Il termine familismo amorale fu introdotto dal politologo americano Edward C. Banfield nel 1958, nel celebre studio Le basi morali di una società arretrata, frutto di una lunga osservazione in un paese della Basilicata che l’autore chiamò con lo pseudonimo di “Montegrano”. Banfield descrisse un modello di comportamento diffuso nelle comunità del Mezzogiorno, fondato su un principio semplice e disarmante: agire nell’interesse esclusivo della propria famiglia, anche a costo di danneggiare gli altri o la collettività. Questo atteggiamento, apparentemente naturale e persino legittimo, si rivela però “amorale” perché ignora i valori di giustizia, equità e cooperazione sociale che consentono lo sviluppo di una comunità più ampia.

Secondo Banfield, il familismo amorale è una delle cause che spiegano il divario storico tra Nord e Sud. La logica del clan familiare porta infatti a diffidare delle istituzioni pubbliche, a preferire il favore personale alla regola universale, a coltivare reti di relazioni chiuse anziché capitali sociali aperti. Ne derivano fenomeni che ancora oggi si possono osservare: clientelismo, scarso senso civico, debolezza della fiducia reciproca, rassegnazione verso l’inefficienza amministrativa. Molti studiosi italiani ed europei hanno ripreso e discusso l’intuizione di Banfield. Alcuni l’hanno criticata per il suo carattere stereotipico e per l’impronta culturalista, altri ne hanno riconosciuto la capacità di cogliere un tratto reale, pur semplificato, delle dinamiche sociali meridionali.

Successivi contributi, come quelli di Robert Putnam con La tradizione civica nelle regioni italiane (1993), hanno confermato che le regioni del Nord e del Centro, più abituate a forme di associazionismo e cooperazione, mostrano livelli più alti di efficienza istituzionale, mentre il Sud appare intrappolato in un circolo vizioso in cui la mancanza di fiducia nelle istituzioni alimenta comportamenti familistici, e viceversa. Tuttavia, non mancano ricerche più recenti che hanno messo in evidenza le trasformazioni in atto: nuove reti di cittadinanza attiva, associazioni antimafia, cooperative sociali e movimenti civici stanno lentamente incrinando quella logica chiusa che per decenni ha dominato.

Comunità che rompono il ciclo
In Sicilia, ad esempio, numerose cooperative nate sui terreni confiscati alla mafia hanno trasformato beni che un tempo simboleggiavano potere criminale in risorse per la collettività. Libera Terra, la rete promossa dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti, ha creato opportunità di lavoro giovanile, rafforzato il tessuto sociale e mostrato che la collaborazione può sostituire il favore clientelare.

In Campania, le esperienze dei beni comuni urbani – come l’ex Asilo Filangieri a Napoli o il Giardino degli Scalzi – hanno dato vita a spazi gestiti collettivamente da cittadini e associazioni. Questi luoghi sperimentano un nuovo senso di appartenenza che non passa per legami di sangue, ma per la condivisione di un progetto comune.

In Calabria, iniziative come il “modello Riace” hanno dimostrato che l’accoglienza e l’integrazione possono generare capitale sociale in territori segnati da spopolamento e sfiducia. La rinascita di un paese abbandonato grazie a migranti e residenti che collaborano ha rappresentato, pur tra contraddizioni, un esempio di rottura con l’isolamento del familismo.

Anche in Puglia e Basilicata si moltiplicano esperienze di associazionismo giovanile, festival culturali e cooperative agricole che rifiutano la logica del “particulare” per costruire reti economiche e civiche inclusive.

Il confronto con il Nord: due Italie civiche
Il confronto con il Nord Italia, che Putnam mise in luce con la sua indagine, è illuminante. Le regioni settentrionali hanno conosciuto, fin dal Medioevo, una tradizione di comuni, corporazioni e autonomie locali che hanno insegnato ai cittadini a fidarsi delle istituzioni e a praticare la collaborazione oltre i confini della famiglia. Le cooperative emiliane, nate nell’Ottocento e sviluppatesi nel Novecento, sono un esempio lampante: reti economiche fondate sulla solidarietà, capaci di generare ricchezza e servizi senza ricorrere al clientelismo.

Nelle aree settentrionali, la forza delle istituzioni locali e l’attitudine a partecipare a organizzazioni collettive hanno creato un terreno fertile per lo sviluppo economico e sociale. Il capitale sociale accumulato nel tempo si è tradotto in fiducia reciproca, rispetto delle regole, senso civico diffuso. Questo non significa che il Nord sia immune da corruzione o particolarismi, ma la differenza sta nell’equilibrio: la norma è la collaborazione aperta, non la chiusura nel clan familiare.

Verso una nuova cultura civica
Il superamento del familismo amorale nel Mezzogiorno non può avvenire dall’oggi al domani, perché riguarda abitudini culturali profonde, trasmesse di generazione in generazione. Serve un lavoro paziente di educazione civica, di rafforzamento delle istituzioni e di promozione di spazi comunitari in cui le persone possano sperimentare fiducia reciproca. La scuola gioca un ruolo decisivo, così come l’associazionismo e il volontariato, che permettono di uscire dalla logica del favore privato per sperimentare la collaborazione su basi di uguaglianza. Anche lo sviluppo economico, se accompagnato da politiche inclusive e trasparenti, può incidere: dove ci sono opportunità per tutti, la tentazione di cercare scorciatoie clientelari si riduce.

Linee d’azione per il futuro
Per favorire un vero cambiamento, le politiche pubbliche dovrebbero puntare su alcuni assi strategici. Innanzitutto, investire in un’istruzione di qualità che non si limiti alla trasmissione di saperi, ma che formi cittadini consapevoli e attivi. In secondo luogo, rafforzare le autonomie locali e garantire trasparenza amministrativa, così da rendere più affidabili le istituzioni agli occhi dei cittadini. Fondamentale è anche sostenere le realtà associative e cooperative che già operano sul territorio, facilitando reti tra imprese sociali, comuni, scuole e cittadini. Infine, andrebbe promossa una nuova narrazione del Sud, che non si limiti alla retorica del vittimismo o dell’arretratezza, ma valorizzi le esperienze virtuose come modello da imitare.

In definitiva, il familismo amorale è una lente utile per comprendere alcune difficoltà strutturali del Mezzogiorno, ma non deve diventare una condanna. La storia recente dimostra che, laddove comunità, istituzioni e cittadini riescono a costruire fiducia reciproca, i vecchi schemi culturali si indeboliscono. Il futuro del Sud, dunque, dipende anche dalla capacità di trasformare la forza della famiglia – risorsa indiscutibile nella vita quotidiana – in un ponte verso la società, e non in un muro che la separa dal bene comune.

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