Alle radici del Movimento 5 Stelle: tra Uomo Qualunque, sottoproletari e trasformismo italiano

Il Movimento 5 Stelle non è nato dal nulla. Ben prima della sua fondazione nel 2009 da parte di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, in Italia esisteva un humus favorevole alla nascita di un soggetto politico capace di parlare direttamente al “popolo” contro le élite, i partiti e le istituzioni. Ma quali sono le sue vere radici?


Populismo, antipolitica e memoria corta

Il M5S si è presentato come forza innovatrice, digitale, e post-ideologica. In realtà ha attinto – consapevolmente o meno – a una lunga tradizione populista italiana, che attraversa tutto il Novecento. Una genealogia che mescola antifascismo e post-fascismo, operaisti e impiegati incattiviti, rivoluzionari e conservatori, tecnofilia e sospetto per l’intellettuale.


Il fantasma dell’Uomo Qualunque

Uno dei precedenti più evidenti è il Movimento dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (1944-1949). Questo partito, nato nell’immediato dopoguerra, raccolse il malcontento di piccoli borghesi e cittadini comuni stanchi della guerra e della politica dei partiti. Prometteva di difendere l’uomo medio contro la burocrazia, le tasse e i professionisti della politica.

Anche il M5S ha fatto leva su parole d’ordine simili: onestà, cittadinanza attiva, nemici identificabili (casta, giornalisti, banche), e soprattutto una retorica diretta e semplificata, capace di bypassare media e corpi intermedi.


Il sottoproletariato come categoria mobile

Nell’Italia tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, il sottoproletariato urbano – manovali, disoccupati, popolazione delle periferie – fu spesso oggetto di contesa politica. A seconda delle fasi storiche, si schierò con il fascismo sociale, poi con il comunismo, infine con le forme più vischiose di clientelismo. Ma la costante non era l’ideologia: era l’opportunismo adattivo, il bisogno di protezione e rappresentanza.

In maniera analoga, il M5S ha raccolto consensi nelle fasce periferiche, precarie e sradicate, spesso più per sfiducia e rivalsa che per adesione a un progetto strutturato.


La destra badogliana e l’ambiguità strategica

C’è anche un filo che collega il M5S con la destra moderata post-fascista: quella che, dopo la caduta del regime, si presentava come “realista”, “nazionale”, ma ancora profondamente diffidente verso le élite, il parlamentarismo e la sinistra organizzata. Una destra spesso cerchiobottista, trasformista, priva di un impianto ideologico stabile, ma capace di adattarsi.

Il M5S, soprattutto nella sua fase governativa (2018-2022), ha mostrato tratti simili: prima alleato della Lega di Salvini, poi del PD e infine sostenitore tecnico del governo Draghi. Sempre mantenendo, almeno a parole, un’identità “altra”.


Un figlio di molti padri

L’infografica genealogica (vedi sotto) mostra bene come il Movimento 5 Stelle sia, in realtà, l’erede spurio e mutante di tante Italie diverse: quella ribelle del nord padano, quella clientelare del Sud, quella moralista dell’Italia dei Valori, quella post-fascista dell’antipolitica e quella utopica della rete.

Ma ciò che tiene insieme questi fili è un elemento comune: la sfiducia strutturale verso l’ordine costituito, e una narrazione salvifica del “popolo” come fonte pura di legittimità.



Conclusione

Il Movimento 5 Stelle non è stato solo un esperimento digitale o una fiammata di protesta. È stato – ed è – un condensatore storico: ha raccolto paure, rancori, illusioni e retaggi dimenticati della politica italiana, spesso travestendoli da futuro. Capirne le radici significa capire anche il terreno su cui potrebbe nascere il prossimo populismo.

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