La questione meridionale è spesso presentata come un mito da sfatare: da una parte i neoborbonici la dipingono come una tragedia causata dall’unità d’Italia, dall’altra la storiografia ufficiale tende a sottolineare la responsabilità di un Sud “arretrato” già prima del 1861. In realtà, la verità si colloca nel mezzo, in uno spazio complesso in cui cause interne ed esterne si intrecciano, e dove la cultura politica e sociale dei meridionali ha avuto un ruolo determinante.
Il Regno delle Due Sicilie, grande e popoloso, non era certo un paradiso. Il suo modello sociale era rigidamente gerarchico: i latifondisti e la nobiltà detenevano potere e ricchezza, mentre i contadini vivevano in condizioni di forte subalternità. L’analfabetismo era dilagante, e l’istruzione, quando presente, riguardava solo una piccola élite urbana. Le innovazioni tecnologiche esistevano, ma spesso erano isolate e servivano più a mostrare il potere del sovrano che a trasformare realmente l’economia. La ferrovia Napoli–Portici, inaugurata nel 1839, ne è un esempio perfetto: celebrata come prima ferrovia italiana, in realtà rimase per anni una “vetrina” per il re, più che una rete utile a favorire commercio e sviluppo. Si potrebbe dire, usando un’espressione napoletana, che fu una vera e propria “nocciolina per lo spasso” del sovrano.
Allo stesso tempo, non si può ignorare che dopo l’Unità d’Italia le politiche statali contribuirono a creare squilibri economici duraturi. La seconda rivoluzione industriale richiedeva energia elettrica in grandi quantità, e in Italia questa fu prodotta soprattutto grazie all’idroelettrico nelle Alpi. Il Nord, con le sue montagne e fiumi, aveva a disposizione risorse naturali che il Sud, con Appennini meno favorevoli e infrastrutture carenti, non poteva sfruttare allo stesso modo. Non si trattò quindi di un disegno coloniale, ma di una combinazione di opportunità geografiche e necessità tecnologiche. I poli industriali piemontesi e lombardi crebbero così più rapidamente, mentre il Sud rimaneva marginale.
Ciò non significa, però, che i meridionali fossero totalmente passivi. Lo sbarco di Garibaldi in Sicilia trovò terreno fertile soprattutto tra le classi popolari. Le élite nobiliari, come narrano Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e I Viceré di De Roberto, si adattarono rapidamente al nuovo regime: per loro, togliere il Borbone e sostituirlo con i Savoia non cambiava molto. Ma per i contadini e i ceti urbani emergenti, le promesse di riforma agraria, maggiore libertà e modernizzazione apparivano concrete. L’entusiasmo per Garibaldi non fu quindi il frutto di una illusione collettiva, ma la risposta a bisogni reali e insoddisfatti da decenni di gestione borbonica.
E qui entra in gioco la componente culturale più persistente: il cosiddetto “familismo amorale”, teorizzato da Edward Banfield. In un contesto in cui l’interesse familiare prevale su ogni logica collettiva, l’attenzione al bene comune rimane debole. Clientelismo, favoritismi e interessi di gruppo hanno da sempre ostacolato la costruzione di istituzioni efficaci e politiche di sviluppo durature. Molti politici meridionali hanno agito pensando più a rafforzare il proprio potere locale che a promuovere una crescita strutturale del territorio, perpetuando così un circolo vizioso di arretratezza.
Alla luce di tutto ciò, diventa evidente che né i neoborbonici né la storiografia ufficiale hanno la verità assoluta. I primi hanno ragione a denunciare le conseguenze negative dell’Unità e l’ingiustizia delle politiche post-unitarie, mentre la seconda sottolinea correttamente le difficoltà interne del Regno borbonico e l’assenza di basi solide per uno sviluppo diffuso. Il ritardo del Mezzogiorno va dunque letto come il risultato di fattori combinati: strutture sociali conservatrici, opportunità geografiche sfavorevoli, scelte politiche del nuovo Stato e una cultura politica permeata dal familismo amorale.
In definitiva, la storia del Sud non è né una favola di ricchezza perduta né una condanna esclusiva a causa del Nord. È una vicenda complessa, fatta di luci e ombre, di eccellenze isolate e arretratezza diffusa, di speranze popolari tradite e di élite capaci di riciclarsi. Capire questa complessità è essenziale per affrontare oggi, con realismo e responsabilità, le sfide del Mezzogiorno.
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