Il Partito Democratico tra Schlein, Bonaccini e De Luca: quale strada per il futuro?

C’è chi sostiene che Stefano Bonaccini avrebbe rappresentato una scelta più solida rispetto a Elly Schlein alla guida del Partito Democratico. L’argomento ricorrente è che la segretaria sia troppo “radical chic”, troppo attenta a segni linguistici come lo schwa, quel simbolo (ə) usato per sostituire il maschile sovraesteso nei plurali, pensato come forma inclusiva e neutra contro il predominio linguistico del patriarcato. Per alcuni si tratta di un gesto politico coerente con la sua visione, per altri di un vezzo che rischia di allontanare l’elettorato popolare. Non mancano neppure riferimenti alla sua vita privata o al suo percorso internazionale, dalla militanza giovanile fino alla partecipazione alla campagna di Obama, come se l’essere “globale” fosse una colpa in un Paese che si sente sempre più provinciale. In realtà il nodo non è la sua identità, bensì la sua strategia: Schlein ha scelto di caratterizzare il partito su un profilo netto, progressista, inclusivo, distante dalle posizioni dei centristi di Renzi e Calenda, con l’obiettivo di dare al PD una coerenza di valori che negli anni si era smarrita.

Bonaccini, al contrario, incarna un approccio più pragmatico. Il suo modello emiliano-romagnolo è spesso evocato come esempio di buon governo e radicamento territoriale. La sua idea di partito è meno ideologica e più manageriale, capace di dialogare con il mondo produttivo e di parlare un linguaggio concreto ai ceti medi e moderati. Se fosse diventato segretario, probabilmente avrebbe spinto per una convergenza con il centro riformista, cercando di costruire un fronte largo che guardasse meno alla purezza identitaria e più alla possibilità di vincere le elezioni. Il punto, però, è che ciò che funziona in Emilia-Romagna non è facilmente esportabile: quella regione ha una lunga tradizione di sinistra, un welfare efficiente, un rapporto consolidato tra amministratori e cittadini. Replicare questo equilibrio in un Paese diseguale e frammentato appare complicato.

Un altro esempio di modello territoriale è quello di Vincenzo De Luca in Campania. Qui il PD assume tutt’altra fisionomia: un partito fortemente personalizzato, che si regge sul carisma e sul controllo diretto del leader. De Luca ha costruito negli anni un consenso radicato attraverso una rete di relazioni, promesse e simboli popolari, con un linguaggio da tribuno che diverte, scandalizza, conquista. È un PD molto distante da quello sognato a Bologna o a Roma, ma funziona in un contesto meridionale dove il rapporto tra politica e cittadini si gioca anche sulla prossimità e sulla capacità di intermediazione quotidiana. Molti lo criticano per il suo stile e per l’eccessiva dose di populismo, ma è difficile negare che il suo modello, per quanto controverso, sia efficace.

Alla fine, dunque, la domanda non è se fosse meglio Schlein, Bonaccini o De Luca. La questione di fondo è che il Partito Democratico non ha ancora scelto con chiarezza la propria natura. Da un lato c’è l’ambizione di rappresentare la sinistra plurale, dando voce a diritti, ambiente, uguaglianza. Dall’altro c’è la tentazione di diventare un grande partito riformista a vocazione maggioritaria, in grado di attrarre voti centristi e moderati, anche a costo di sacrificare parte dell’identità storica. L’incapacità di sciogliere questo nodo strategico ha prodotto negli anni un partito percepito come incerto, spesso diviso, prigioniero di compromessi che non soddisfano né i progressisti radicali né i riformisti pragmatici.

Se davvero il PD vuole tornare competitivo, deve prima di tutto decidere cosa vuole essere. Rivoltarlo come un calzino, come qualcuno suggerisce, non significa semplicemente cambiare leader, ma ridefinire un progetto politico comprensibile e riconoscibile per l’elettorato. Il modello vincente non esiste in astratto: quello emiliano, quello campano, quello radical-progressista o quello riformista sono tutti parziali. Servirebbe la capacità di fondere valori, radicamento territoriale e pragmatismo, senza rinunciare all’ambizione di parlare all’intero Paese. Finché questa scelta resterà sospesa, ogni confronto tra Schlein e Bonaccini sarà solo il sintomo di un dilemma irrisolto.

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