L’equilibrio instabile: perché la guerra in Ucraina non finisce e cosa può accadere

Dopo oltre tre anni di conflitto aperto, la guerra in Ucraina è entrata in una fase che molti osservatori definiscono di “equilibrio instabile”: nessuna delle due parti prevale in modo decisivo, ma entrambe continuano a combattere in un logoramento lento e sanguinoso. L’invasione russa del febbraio 2022, concepita come un’operazione rapida per rovesciare il governo di Kiev, si è trasformata in un confronto di lunga durata che ricorda più le guerre del Novecento che le operazioni lampo dell’era moderna.

Le ragioni del fallimento iniziale di Mosca sono ormai chiare. Il Cremlino aveva immaginato una “guerra di tre giorni”, confidando in un collasso politico e psicologico dell’Ucraina. Gli strateghi russi credevano che le forze armate di Kiev si sarebbero dissolte, che la popolazione russofona del sud-est avrebbe accolto i soldati come liberatori e che l’Occidente, diviso e stanco, avrebbe reagito con rassegnazione. La realtà ha smentito ognuna di queste ipotesi. La resistenza ucraina si è rivelata compatta, la leadership di Zelensky inattesa e determinata, e la risposta dell’Occidente rapida e coesa. Da quel momento la guerra è mutata di natura, diventando una lotta di logoramento, economico e umano, più che una corsa verso la vittoria.



Per comprendere appieno le radici di questa guerra, occorre tornare a un passaggio diplomatico spesso dimenticato. Negli anni precedenti al 2022, vi furono infatti proposte – provenienti anche da ambienti russi – che ipotizzavano per le regioni russofone del Donbass una forma di autonomia simile a quella del Trentino-Alto Adige. L’idea, mutuata dall’esperienza italiana, prevedeva un’ampia tutela linguistica e culturale, un’autonomia amministrativa significativa e il mantenimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Si trattava, in sostanza, di una “soluzione altoatesina” in chiave ucraina, che avrebbe potuto conciliare sovranità e pluralismo etnico. Tuttavia, da parte ucraina, quella proposta fu accolta con sospetto e rifiuto: si temeva che Mosca intendesse sfruttarla come cavallo di Troia per un controllo politico indiretto, e che l’autonomia potesse trasformarsi in preludio alla secessione.

Quel mancato compromesso segnò simbolicamente la chiusura di un canale negoziale che, se avesse avuto sviluppi, avrebbe potuto forse disinnescare la crisi prima della catastrofe del 2022. La sfiducia reciproca – nutrita da anni di guerra nel Donbass, disinformazione e ambiguità diplomatiche – rese impossibile anche un modello di convivenza territoriale già sperimentato con successo altrove in Europa.

Oggi, nell’autunno del 2025, il fronte è sostanzialmente statico. La Russia ha conquistato qualche migliaio di chilometri quadrati nel corso dell’anno, concentrandosi soprattutto nelle regioni di Donetsk e Zaporizhzhia, ma questi guadagni hanno un valore simbolico più che strategico. L’Ucraina, pur in difficoltà, continua a difendere le linee e a colpire obiettivi militari in profondità, dimostrando di possedere ancora una notevole capacità di adattamento. È una guerra senza spostamenti improvvisi, fatta di droni, artiglieria, sabotaggi e resistenza civile.

Tuttavia, sotto la superficie di questo apparente equilibrio, emergono segni di logoramento. L’Ucraina soffre l’usura delle infrastrutture energetiche, colpite sistematicamente dai missili russi. I blackout, la scarsità di risorse e la mobilitazione prolungata hanno eroso la resistenza psicologica della popolazione. Il sostegno occidentale, pur consistente, è sempre più soggetto alle oscillazioni della politica interna di Stati Uniti ed Europa. Kiev sa di non poter permettersi una guerra infinita, ma neppure di accettare una pace che legittimi le perdite territoriali.

Dall’altra parte, la Russia non è in una posizione di forza tale da imporre le proprie condizioni. Le sue forze armate hanno subito perdite enormi e devono fronteggiare un consumo continuo di uomini e materiali. L’economia si regge su un equilibrio precario di sanzioni eluse, commercio parallelo e sacrifici sociali. Mosca continua a vantare successi tattici, ma non ha ancora raggiunto risultati strategici proporzionati al costo sostenuto. Anche per il Cremlino, la guerra è ormai un fardello che deve giustificare di mese in mese alla propria opinione pubblica.

Tutto ciò spinge a chiedersi quale possa essere la fine di questo conflitto. Le prospettive si concentrano intorno a pochi scenari realistici. Il più plausibile, secondo gran parte degli analisti, è un accordo di congelamento: una tregua di fatto, con linee di contatto stabilizzate e nessuna soluzione politica definitiva. Sarebbe una pace fredda, simile a quella che ha segnato per decenni la penisola coreana, con confini contestati e una costante tensione latente. È l’opzione che molti governi occidentali potrebbero accettare se l’obiettivo prioritario diventasse “fermare il fuoco” più che “vincere la guerra”.

Un secondo scenario, meno desiderabile ma possibile, è quello di una guerra di logoramento che si trascina per anni, alimentata da aiuti militari e rifornimenti limitati. In questa ipotesi nessuna delle due parti crolla, ma entrambe sopravvivono in una spirale di distruzione controllata, dove la pace appare più costosa della guerra stessa. È il paradigma che inizia a insinuarsi nel dibattito internazionale: la normalizzazione del conflitto come condizione permanente.

Le ipotesi di una vittoria piena – sia russa che ucraina – appaiono oggi remote. Per Kiev significherebbe riconquistare tutte le regioni perdute, compresa la Crimea, un obiettivo che richiederebbe un salto di capacità militare e industriale difficilmente sostenibile senza un massiccio intervento esterno. Per Mosca, invece, vorrebbe dire sottomettere un Paese di oltre quaranta milioni di abitanti ostile e distrutto, mantenendo indefinitamente il controllo di territori devastati. Entrambi gli esiti sembrano più teorici che realistici.

In definitiva, la guerra in Ucraina è entrata in una fase in cui la domanda centrale non è più “chi vincerà”, ma “quale equilibrio instabile durerà più a lungo”. È un conflitto che nessuno può permettersi di perdere del tutto e che nessuno riesce più a vincere. La fine, se arriverà, non sarà celebrata come una vittoria, ma accettata come un limite: una linea tracciata non sulla mappa, ma sull’esaurimento collettivo di due popoli e di un mondo che non ha trovato un modo migliore per risolvere le sue paure.

Nessun commento:

Posta un commento

Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pan...