Pasquale lo sa: dire in pubblico “sono comunista” è quasi come confessare di credere ancora a Babbo Natale. Gli occhi si alzano al cielo, qualcuno sorride di scherno, altri lo liquidano con la frase più infame: “Comunisti? Quelli invidiosi che non hanno combinato niente e odiano chi si è fatto da solo.” Eppure, se c’è un modo per difendere la bandiera rossa senza sembrare un nostalgico del passato, è raccontare perché quelle idee servono ancora.
Il primo passo è non farsi trascinare nel pantano dei simboli morti. Nessuna falce e martello d’ordinanza, nessuna citazione di Lenin estratta come una formula magica. Pasquale, invece, deve partire dalle storie. Se parla di lavoro, racconta di suo cugino che, dopo otto ore di magazzino a 900 euro al mese, deve anche fare consegne in motorino per pagarsi l’affitto. Non serve sventolare il Manifesto del Partito Comunista: basta far vedere che nel 2025, in una delle economie più ricche d’Europa, c’è gente che lavora e resta povera. Chi ascolta non pensa “Pasquale è un estremista”, ma “Pasquale ha ragione, sta parlando di me o di mio fratello”.
Il secondo passo è ribaltare la retorica dell’invidia sociale. Quando qualcuno gli dice “voi comunisti odiate i ricchi”, Pasquale può rispondere con ironia: “No, io non ho niente contro chi ha successo, vorrei solo che nessuno fosse costretto a vivere senza cure o senza casa perché qualcun altro parcheggia tre SUV nel box.” Un esempio concreto? Durante il lockdown, gli infermieri turnavano fino allo sfinimento per 1.400 euro, mentre alcuni manager ricevevano bonus milionari per “resistere alla crisi”. Questa non è invidia, è matematica.
Certo, a volte la provocazione è più colorita: “I comunisti sono come i piccioni: inutili e pieni di escrementi.” La prima volta che gliel’hanno detta, Pasquale era in piazza, vicino alla fontana. Una signora spezzettava il pane, e i piccioni arrivavano a stormo. L’amico gli fece: “Eccoli, i tuoi compagni.” Pasquale non si scaldò: guardò gli uccelli e rispose piano, quasi fosse una favola urbana. “I piccioni non hanno inventato loro la città. Ci vivono dentro, come noi. Sopravvivono alle intemperie, trovano casa, tornano sempre al punto d’origine. Non saranno eleganti, ma sono tenaci.” Poi indicò i palazzi scrostati attorno: “Se c’è sporco, è perché qualcuno non pulisce. Il problema non è chi mangia le briciole, è chi lascia agli altri solo briciole.”
Da quel giorno Pasquale ha imparato a trasformare la caricatura in un racconto. Quando lo accusano di essere invidioso, dice: “Se fossi un piccione invidioso mi metterei sul davanzale dell’attico e odierei chi sta sopra. Invece mi interessa chi sta sotto la grondaia, bagnato quando piove, e chi non ha davanzali dove posarsi.” E aggiunge l’aneddoto di sua cugina che lavora due turni e non riesce a trovare un affitto decente. “Non è invidia, è manutenzione della città comune: se il nido di uno è una reggia e quello dell’altro è una gronda rotta, non dico di abbassare la reggia; dico di riparare la gronda.”
Una volta, in un dibattito, gli hanno detto: “Ma ammettilo, Pasquale: i comunisti sono i piccioni della politica, ingrati e rumorosi.” Lui sorrise: “Se proprio devo scegliere un volatile, preferisco il piccione al pavone. Il pavone sfoggia le piume e occupa tutto lo sguardo; il piccione conosce la mappa della città, trova sempre la strada di casa, riporta i messaggi. Io voglio essere quello che riporta il messaggio: nessuno deve restare senza cure, senza casa, senza lavoro dignitoso.” La sala rise, e la tensione si sciolse.
Pasquale sa anche che il passato non va rimpianto come un museo. Invece di evocare la classe operaia anni ’70 o i fasti della Resistenza, racconta le lotte di oggi: gli studenti che occupano le università perché gli affitti sono insostenibili, i cittadini che si oppongono a un inceneritore per difendere l’ambiente, gli infermieri che chiedono turni umani. Tutto questo è comunismo senza bisogno di chiamarlo tale.
Perfino nei bar, quando lo accusano che i piccioni portano malattie, Pasquale alza il bicchiere e racconta dell’ambulatorio gratuito ottenuto dal comitato di quartiere: “Se questa è una malattia, allora è contagiosa: più prevenzione, meno pronto soccorso intasato.” E invece di citare Marx, cita la bolletta della luce risparmiata dopo la petizione. In quel momento non è più un piccione bersaglio, ma uno che porta soluzioni concrete.
Sui social non si fa lapidare: pubblica foto del marciapiede sistemato dopo mesi di segnalazioni, ringrazia gli operatori ecologici e scrive: “Alla città serve meno guano retorico e più scope, più turni pagati, più bidoni nuovi.” È così che smonta le caricature: riportando sempre il discorso dal simbolo alla vita reale.
E quando qualcuno lo incalza: “Allora che cos’è, oggi, essere comunista?”, Pasquale risponde con l’immagine della piazza. “È non aver paura di stare tra la gente, anche quando non è elegante. È non scappare quando piove, è tornare a casa e tornarci ancora, finché quella casa non è decente per tutti. È far capire che lo sporco più duro non è quello sui cornicioni, ma quello nei meccanismi che lasciano qualcuno senza tetto, senza tempo, senza voce.”
Così, alla fine, Pasquale non è più un piccione da scacciare. È uno che ricorda a tutti che le ingiustizie non sono morte affatto. E se c’è ancora chi le combatte, forse, c’è ancora bisogno dei comunisti.
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