Alle elementari, mentre gli altri scrivevano poesie d’amore acerbo o di fiori primaverili, io scrissi di un asino. Non un asino qualunque, ma uno che saliva le scale. Lo faceva con aria tronfia, passo dopo passo, sicuro che qualcuno avrebbe sempre spazzato via polvere e ostacoli davanti a lui. Un gradino dopo l’altro, senza mai sudare, senza mai rischiare di scivolare.
Accanto a lui c’era un alpinista. Quello arrancava, stringendo i denti, piantando i chiodi nella roccia, graffiandosi le mani. La sua era una salita vera, fatta di fatica e dignità. Ma nessuno lo guardava: gli occhi erano tutti per l’asino, che saliva le scale come un piccolo sovrano in parata.
L’ispirazione mi venne da un ragazzo del quartiere che, all’improvviso, era diventato leggenda: prima la Nunziatella, poi l’Accademia di Modena. Noi, che non capivamo nulla di graduatorie e concorsi, già sospettavamo che la fortuna non fosse solo questione di talento. Sotto voce ci si chiedeva: “Chissà a chi tiene?” C’era chi diceva a un monsignore, chi a un politico, chi a un generale dal sorriso untuoso. Nessuno parlava di merito, perché il merito non lo credeva nessuno.
Così, senza saperlo, la mia poesia di bambino era diventata una favola crudele. L’asino non era più un animale ingenuo, ma il ritratto di una fauna umana che ancora oggi popola uffici, caserme, aziende e concorsi pubblici. Sono quelli che salgono scale lisce come marmo lucidato, spinti da sponsor invisibili e potenti, mentre l’alpinista resta a metà montagna, stremato, a domandarsi se valga ancora la pena continuare a salire.
Perché in fondo, in Italia, la domanda resta sempre la stessa, dal cortile di scuola fino alle aule dei palazzi: “Chissà a chi tiene?”
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