Quando anche i più forti vacillano: Gaza e il rischio di tracollo

Dopo oltre due anni di tensione crescente, Gaza si trova al centro di una crisi senza precedenti. La distruzione dei tunnel che collegavano il territorio all’Egitto ha cambiato radicalmente il panorama militare e logistico della Striscia. Prima del 7 ottobre, Hamas poteva contare su questi passaggi sotterranei non solo per muoversi in sicurezza, ma anche per far entrare munizioni, armi ed esplosivi. Ora che gran parte di questa rete è stata distrutta, appare evidente che i rifornimenti esterni sono ridotti al minimo, se non azzerati.

Eppure, sorprendentemente, la resistenza di Hamas non sembra essersi dissolta. Le scorte interne accumulate negli anni continuano a fornire una capacità di azione minima ma significativa. A queste si aggiunge la produzione locale di esplosivi e razzi artigianali, strumenti rudimentali ma efficaci in un contesto urbano densamente popolato. Qui, tra vicoli stretti e palazzi alti, la guerra assume la forma di un labirinto: ogni angolo può nascondere una trappola, ogni edificio diventare un osservatorio o un rifugio strategico. In questa guerra asimmetrica, non è soltanto la quantità di munizioni a determinare la capacità di resistere, ma la creatività tattica, la conoscenza del territorio e la capacità di adattamento.


Gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas aggiungono un ulteriore livello di complessità. La loro presenza non è solo un mezzo di pressione o propaganda, ma una leva politica che complica qualsiasi azione militare diretta. Sono strumenti di negoziazione invisibili, la cui sorte pesa sulla strategia di entrambi i contendenti e sulla percezione internazionale del conflitto.

Distruzione di Gaza

Il prezzo più alto, però, lo pagano i civili di Gaza. La distruzione delle infrastrutture, la carenza di cibo, acqua e medicine, e il collasso dei servizi essenziali trasformano il conflitto in una catastrofe umanitaria. Le strade, un tempo trafficate e vivaci, oggi appaiono come scenari surreali: macerie, silenzi forzati, file davanti a pozzi d’acqua e ospedali che non riescono a contenere l’emergenza.

Il parallelo con Mogadiscio nel 1993 è inquietante. L’intervento americano in Somalia, concepito come operazione limitata per stabilizzare la città, si trasformò in un disastro militare e politico, con pesanti perdite e un tracollo dell’immagine internazionale. Anche eserciti tecnologicamente superiori possono trovare insormontabili ostacoli nelle città densamente popolate, dove la resistenza locale sfrutta ogni vantaggio territoriale e psicologico.

Quanto può durare un conflitto simile prima che uno dei due contendenti ceda? La risposta non è semplice. Israele possiede superiorità tecnologica e militare, ma la guerra urbana, le pressioni politiche interne e le condanne internazionali possono logorare anche la macchina più potente. Hamas, pur limitata nella capacità offensiva, può continuare a resistere grazie a tattiche di guerriglia, gestione strategica delle scorte e uso intelligente del territorio. Il rischio di stallo prolungato è reale, con conseguenze devastanti per i civili, mentre la possibilità di un’escalation regionale non può essere esclusa.

Gaza è un laboratorio di guerra urbana asimmetrica, dove la resistenza non si misura solo in potenza militare, ma in resilienza, astuzia e capacità di adattamento. La domanda inquietante rimane: chi cederà per primo, e a quale prezzo? Come insegna la storia, anche i più forti possono vacillare, e il teatro del conflitto potrebbe trasformarsi in un lungo e sanguinoso logoramento, con la popolazione civile intrappolata al centro di un dramma senza fine.

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