Il mercato non si governa da solo: serve uno Stato che faccia lo Stato

Il neoliberismo ci ha raccontato per decenni la favola del mercato che si autoregola. Una favola costata cara: disuguaglianze crescenti, precarietà cronica, ricchezze concentrate nelle mani di pochi e una classe media stritolata. Davvero qualcuno può ancora credere che la mano invisibile di Adam Smith possa bastare a rimettere insieme i cocci? Ormai solo la parapsicologia si ostina a credere nell’esistenza di quella mano invisibile: in economia, invece, non se n’è mai vista traccia.

Certo, non basta neppure evocare lo Stato imprenditore, quello che nazionalizza tutto e poi gestisce i settori strategici come se fossero feudi politici. Abbiamo già visto dove porta: inefficienze colossali, clientele, monopoli di Stato che non sono migliori dei monopoli privati. Il socialismo reale è crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni; ma anche in Occidente, le grandi partecipazioni statali hanno spesso prodotto sprechi e mediocrità, più che progresso.

La scelta non è tra il far west neoliberista e il grigiore statalista. La scelta è un’altra: serve uno Stato che torni a fare lo Stato. Non come imprenditore, ma come arbitro. Non come concorrente degli imprenditori, ma come garante delle regole del gioco. I manager devono fare i manager, gli imprenditori devono rischiare e innovare, e i politici devono avere il coraggio di fissare paletti chiari.

Basta favole sul mercato libero, basta nostalgie del carrozzone statale. Oggi serve un nuovo keynesismo, capace di impedire cartelli, concentrazioni di potere e rendite parassitarie. Lo Stato deve investire dove il mercato non arriva, proteggere i beni comuni, garantire diritti universali come sanità e istruzione, e al tempo stesso lasciare che la concorrenza vera — non quella truccata — faccia il suo corso.

Il resto è propaganda: chi invoca lo Stato minimo vuole mani libere per i monopoli privati; chi sogna il ritorno dello Stato padrone vuole solo clientele e posti da spartire. In mezzo a questi estremi, c’è la via più difficile ma anche l’unica sensata: uno Stato regolatore, forte e indipendente, che non si vergogni di dire al mercato dove finisce la libertà e dove comincia la giustizia sociale.

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