Quando il PCI guardava a Est: il silenzio complice sulle mire jugoslave

Il dittatore  jugoslavo Josef Broz detto "Tito"


Nel secondo dopoguerra, l’Italia usciva distrutta, mutilata, occupata e divisa. Era il 1945 e la Jugoslavia di Tito, forte della vittoria partigiana e del vuoto di potere lasciato dalla sconfitta fascista, iniziava ad avanzare pretese su interi territori italiani: l’Istria, Fiume, Zara, tutta la Venezia Giulia, e persino parte del Friuli. Trieste fu occupata militarmente dalle truppe jugoslave. Gorizia venne invasa. Il confine orientale sembrava dissolversi, sostituito da una nuova frontiera ideologica: quella tra socialismo reale e nazione.

Di fronte a tutto questo, ci si sarebbe aspettati che i partiti italiani difendessero la sovranità nazionale. Ma non fu così per tutti. Il Partito Comunista Italiano (PCI), guidato da Palmiro Togliatti, mostrò un comportamento che oggi appare agli occhi della storia non solo ambiguo, ma complice, esterofilo, e persino antipatriottico.


Le dichiarazioni che fanno riflettere

Togliatti dichiarava, nel 1946, con disarmante chiarezza:

“Trieste è una città slava, e tale deve restare.”

Non un lapsus. Non un equivoco. Ma una posizione politica ben precisa, fondata su un'idea internazionalista che anteponeva la fedeltà all’ideologia comunista internazionale alla difesa della nazione italiana. Il PCI, nei fatti, non si oppose all’occupazione jugoslava, né sollevò proteste per le foibe, né per l’esodo forzato di oltre 300.000 italiani dalle terre giuliano-dalmate.


Le ambizioni di Tito e il silenzio del PCI

Le truppe di Tito non si fermarono all’Istria: occuparono anche il Friuli orientale fino al Tagliamento. Vi sono testimonianze documentate di mappe distribuite da attivisti filo-jugoslavi (anche italiani), che includevano Udine, Pordenone, e persino parte del Veneto orientale all’interno di una futura "Repubblica Socialista Jugoslava".

E il PCI? Non solo non denunciò queste mire espansionistiche, ma tacque, o addirittura giustificò, parlando di “diritti delle minoranze slave”, di “lotta antifascista comune”, e di “internazionalismo proletario”.

Molti militanti comunisti italiani parteciparono a manifestazioni a favore della Jugoslavia, mentre gli esuli italiani venivano tacciati di essere fascisti, colonizzatori, o bugiardi. Il dramma delle foibe fu negato, insabbiato, deriso per decenni in nome della causa rossa.

Il progetto titino della Grande Jugoslavia

Spirito antinazionale e disprezzo dell’identità

La verità storica, spesso scomoda, è che una parte del PCI dell’epoca non credeva nello Stato italiano. Per quella sinistra, la nazione era un residuo borghese, da superare. Conta il “proletariato internazionale”, non l’italianità. In questa ottica, cedere Udine o Gorizia a Tito non era un tradimento, ma un gesto di solidarietà internazionalista.

Ma agli occhi dei cittadini italiani che abitavano quelle terre, non si trattava di ideologia: si trattava di casa loro, lingua loro, famiglia loro. E nessuno del PCI li difese. Anzi: furono trattati da “nemici di classe”.


Un dovere della memoria

Oggi, a distanza di 80 anni, è doveroso ricordare questa pagina nera con onestà. Il comportamento del PCI in quegli anni fu un misto di cecità ideologica, disprezzo nazionale e connivenza con un regime straniero. Mentre gli italiani morivano nelle foibe o fuggivano da Zara e Pola, una parte della sinistra italiana guardava a Belgrado con ammirazione.

La storia non si cancella. Ma si può — e si deve — ricordare. Perché chi non ha difeso Udine, Pordenone o Trieste ieri, potrebbe non difendere altro domani.

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