Dalla Venezia Giulia a Bruxelles: l’antipatriottismo italiano tra ieri e oggi

Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni, la storia italiana sembra attraversata da un lungo filo rosso di disinteresse per la patria, un atteggiamento che si manifesta sotto forme diverse ma conserva la stessa sostanza: la tendenza a subordinare l’interesse nazionale a ideologie, potenze straniere o organismi sovranazionali.

Il progetto titino  della Grande Jugoslavia

Subito dopo il conflitto, questo atteggiamento trovò la sua espressione più evidente nel comportamento del Partito Comunista Italiano nei confronti della Jugoslavia di Tito. Negli anni del dopoguerra, infatti, il PCI assunse una posizione ambigua — e spesso indulgente — verso le rivendicazioni territoriali jugoslave sulla Venezia Giulia, su Trieste e persino su parte del Friuli e del Veneto orientale. L’internazionalismo proletario e la fratellanza socialista venivano anteposti alla difesa dell’integrità nazionale, in nome di una solidarietà ideologica che trascendeva i confini dello Stato. Questa scelta alimentò diffidenza e sospetto: il partito di Togliatti appariva più fedele alle direttive dei regimi comunisti esteri che agli interessi del popolo italiano. Intanto, tragedie come le foibe e l’esodo giuliano-dalmata venivano taciute o minimizzate, nel timore che la loro denuncia potesse rafforzare le posizioni della destra o compromettere equilibri geopolitici delicati.

La Venezia-Giulia che si sarebbe voluto regalare alla Jugoslavia


Il disinteresse per quelle terre si manifestò in modo clamoroso anche nel 1975, quando con la firma del Trattato di Osimo l’Italia rinunciò ufficialmente alla Zona B del Territorio Libero di Trieste. L’accordo, siglato in un clima di silenzio e di segretezza, fu presentato come una necessità diplomatica, ma apparve a molti come un atto di sottomissione politica alla Jugoslavia. Le popolazioni italiane coinvolte, già provate dall’esodo, furono escluse da ogni forma di partecipazione o di ascolto. Fu un momento emblematico della scarsa considerazione riservata a quella parte del Paese e alla sua storia.

Con il passare dei decenni, l’atteggiamento di subordinazione ha cambiato volto, ma non sostanza. L’esterofilia ideologica della Prima Repubblica ha lasciato il posto a una nuova forma di antinazionalismo, più elegante ma altrettanto invasiva: la sottomissione tecnocratica. La sovranità, un tempo ceduta in nome del socialismo internazionale, è stata progressivamente consegnata a istituzioni come la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale o la NATO. L’identità italiana è stata smantellata passo dopo passo, spesso nel nome dell’integrazione europea o della globalizzazione, con effetti evidenti non solo sul piano economico, ma anche su quello linguistico, educativo e culturale.

In questo scenario, il termine “antinazionale” ha assunto nuovi volti. Oggi l’accusa di disinteresse per la patria viene rivolta a chi, nei partiti o nelle istituzioni, antepone l’agenda europea alle priorità italiane; a intellettuali e commentatori che ridicolizzano il concetto stesso di nazione; a scuole e mezzi di comunicazione che rimuovono simboli storici o religiosi in nome di una presunta neutralità culturale. In particolare, alcuni settori del progressismo sembrano considerare l’Italia come un’entità da decostruire, piuttosto che un patrimonio da preservare.

Tuttavia, proprio in reazione a questa deriva, negli ultimi anni è emersa una nuova consapevolezza identitaria. Il patriottismo, un tempo parola quasi sospetta, è tornato a essere motivo di orgoglio per molti. Si è riscoperto il valore della memoria storica, dalle tragedie delle foibe al Risorgimento; si è riaffermata l’importanza della sovranità economica e legislativa; e si è ribadito il ruolo centrale della cultura e della lingua italiana come pilastri di una comunità nazionale viva e consapevole.

Una cosa è essere di Sinistra, dunque, a favore dei più deboli, 
un'altra pugnalare alla schiena il proprio Paese.


Oggi più che mai, il confronto tra chi difende la nazione e chi la vorrebbe dissolta in una nebulosa internazionale resta aperto. Il filo che unisce il silenzio sul destino della Venezia Giulia nel 1947 con l’attuale delegittimazione dell’identità italiana è lungo e doloroso, una ferita che non si è mai del tutto rimarginata. Ricordare ciò che accadde nel dopoguerra e riconoscere le responsabilità politiche di allora non è un esercizio nostalgico, ma un atto di verità. Perché non si può davvero amare un Paese se non si ha il coraggio di conoscerne anche le ombre, e di difenderne la dignità ogni volta che viene messa in discussione.

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