Antipolitica: il cavallo di Troia dell’autoritarismo

Dietro la retorica della moralizzazione si nasconde un processo che indebolisce i partiti, consegna la politica alle lobby e prepara il terreno a nuove forme di potere forte.


L’antipolitica, più che una reazione spontanea alla corruzione e agli abusi del potere, sembra spesso avere un obiettivo preciso: svuotare la democrazia dall’interno, ridurre i suoi strumenti di rappresentanza, fino ad aprire la strada a governi accentrati, tecnocrazie o persino nostalgiche restaurazioni di tipo monarchico.


Uno degli esempi più chiari di questa dinamica in Italia è stata l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. All’epoca, dopo Tangentopoli, sembrava una scelta inevitabile: come si poteva giustificare che i cittadini continuassero a pagare con le proprie tasse apparati che avevano abusato di quelle stesse risorse? La parola d’ordine era semplice: basta privilegi, basta ruberie. Chi vuole fare politica lo faccia sostenuto dagli elettori, non dallo Stato.

Eppure, dietro quella che sembrava una riforma moralizzatrice, si è aperto un paradosso. Senza un sostegno pubblico stabile, i partiti si sono ritrovati più fragili, più esposti e soprattutto più dipendenti da donazioni private e sponsorizzazioni occulte. Il risultato è stato quello di consegnare la politica non tanto al popolo, come ci si illudeva, ma a chi ha la forza economica per sostenerla. Negli Stati Uniti, dove questo meccanismo è la regola, da decenni le campagne elettorali sono dominate dalle grandi lobby delle armi, delle banche o delle multinazionali farmaceutiche. In Italia, pur con dimensioni minori, la traiettoria è simile: un piccolo partito radicato socialmente fatica a sopravvivere, mentre chi può contare su reti economiche forti trova terreno fertile.

Così, l’antipolitica non costruisce alternative, ma erode e delegittima. Alimenta la rabbia del “tutti ladri”, ma non restituisce ai cittadini la capacità di contare. Anzi, li abitua all’idea che i partiti siano sempre e comunque un problema, fino a renderli pronti ad accogliere soluzioni apparentemente salvifiche: un capo carismatico, un leader forte che prometta di bypassare i corpi intermedi per parlare direttamente al popolo. È lo schema che in Italia abbiamo già visto negli anni Venti con Mussolini, ma anche in anni più recenti con la parabola di Berlusconi, nato proprio dal vuoto di rappresentanza degli anni ’90.

Non è un destino solo italiano. In Ungheria, Viktor Orbán ha sfruttato la sfiducia nella politica tradizionale per instaurare un sistema semi-autoritaro che limita libertà e pluralismo. In Polonia, i populisti del PiS hanno cavalcato per anni la narrativa antipolitica, trasformandola in strumento di consolidamento del potere. In Francia, Marine Le Pen ha costruito la sua forza sulla promessa di spazzare via i “partiti tradizionali”, mentre in Spagna il fenomeno di Podemos, nato da un sentimento simile, si è poi scontrato con la difficoltà di trasformare l’antipolitica in vera alternativa.

Il rischio, oggi, è che l’antipolitica venga percepita come una naturale evoluzione della democrazia. Ma una democrazia che smette di finanziare i suoi partiti, che considera la mediazione politica un vizio e che riduce gli spazi di partecipazione popolare rischia di diventare una democrazia di facciata. Le decisioni reali, in questo scenario, non si prendono più nelle assemblee elettive, ma nei consigli di amministrazione, nei centri finanziari, nelle stanze dei grandi donatori.

Quella che sembrava una vittoria del cittadino contro i privilegi si trasforma così in una resa del cittadino davanti alle lobby. L’antipolitica non ha salvato la democrazia: l’ha resa più debole, più esposta e più vicina a cedere a quelle soluzioni autoritarie che un tempo pensavamo di aver archiviato per sempre.

Nessun commento:

Posta un commento

Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pan...