Dal culto della memoria alla convenienza: perché i post-fascisti sostengono Israele

Il sostegno a Israele, nell’immediato dopoguerra, era vissuto come un imperativo morale. Dopo l’orrore della Shoah, le cancellerie occidentali si sentirono investite di un dovere storico: garantire che gli ebrei avessero finalmente una patria sicura. Per decenni, la ragione profonda di quell’appoggio non fu tanto strategica, quanto etica, un atto di riparazione per una tragedia che aveva marchiato l’Europa.

Col passare del tempo, però, quel debito morale si è lentamente dissolto, sostituito da un calcolo politico molto più freddo. Israele è diventato un alleato cruciale in Medio Oriente, un avamposto stabile in una regione segnata da conflitti e instabilità. Per l’Occidente, non era più la memoria dell’Olocausto a contare, ma la funzione geopolitica di Tel Aviv: un partner militare, tecnologico e di intelligence, con cui era conveniente schierarsi.

Parallelamente, Israele stesso ha conosciuto una trasformazione profonda. Dalla stagione dei kibbutz e del sionismo socialista, che sembrava incarnare l’utopia progressista di un popolo che rinasceva dopo la persecuzione, si è passati a un sionismo di destra, intriso di messianismo e di rivendicazioni territoriali senza compromessi. Il sogno della “Grande Israele” ha sostituito la prudenza del socialismo laburista, e la società israeliana si è radicalizzata attorno a un’idea etnico-religiosa dello Stato.

È proprio in questo scenario che avviene un paradosso storico: i partiti di matrice post-fascista e neofascista, un tempo intrisi di antisemitismo, oggi si dichiarano paladini di Israele. Come può un movimento politico che a porte chiuse inneggia ancora a Mussolini e Hitler sostenere apertamente il governo di Netanyahu? La risposta non sta in una riconciliazione con l’ebraismo, ma in una mutazione dei nemici. L’ebreo, simbolo dell’alterità per il fascismo novecentesco, è stato sostituito dal migrante e dal musulmano, nuovo “altro” su cui scaricare paure e ostilità.


Israele diventa così un modello da esaltare: lo Stato che resiste all’invasione, che difende i confini con le armi, che rivendica la supremazia identitaria di un popolo su un territorio. Per i post-fascisti europei, questo è l’ultimo baluardo del nazionalismo novecentesco, l’ultima incarnazione di un’ideologia che altrove è stata rigettata dopo la fine dell’apartheid sudafricano e la crisi degli imperi coloniali. Il sionismo radicale diventa l’ultima Thule, un simbolo globale della lotta contro il multiculturalismo e l’universalismo dei diritti.

Il cortocircuito è evidente: da un lato la retorica democratica necessaria per stare al governo, dall’altro la fascinazione per i modelli autoritari del passato. Israele, con la sua radicalizzazione, offre a queste forze politiche un comodo punto di appoggio. Non è più questione di memoria, ma di pura convenienza: difendere Israele significa difendere, per interposta persona, un’idea di nazione forte, esclusiva e armata. Ed è in questo scambio, tanto cinico quanto rivelatore, che si nasconde la ragione della convergenza tra Tel Aviv e i post-fascisti europei.

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