Il mestiere immortale del ciarlatano: tra illusioni, scienza e psicologia delle bugie

In una piazza di paese, un tempo, bastava un piccolo palco di legno e una voce sicura per trasformare un uomo qualunque in un’autorità. Bottigliette di vetro riempite d’acqua colorata diventavano elisir miracolosi, promesse di guarigione e lunga vita. La gente si accalcava, rideva, mormorava, ma poi tirava fuori qualche moneta. Lo spettacolo aveva funzionato: il ciarlatano non vendeva liquidi, vendeva speranza.

Decenni dopo, con le luci dei primi studi televisivi a colori, lo schema non era cambiato. Sensitivi, maghi e guaritori affollavano programmi che ammiccavano al mistero, al soprannaturale e alla scienza di confine. Bastava il tono autorevole, qualche dato buttato lì e l’abilità di trasformare suggestioni in verità. Lo spettatore applaudiva e credeva, senza avere strumenti per distinguere l’illusione dalla dimostrazione.

La verità è che il confine tra scienza e ciarlataneria non è mai stato netto. Nei laboratori, certo, la scienza funziona: prova, errore, verifica. Ma fuori da quelle mura, quando un astrofisico parla alla radio o un virologo si affaccia in televisione, il pubblico non può replicare gli esperimenti. Deve fidarsi, così come deve fidarsi dell’avvocato che interpreta una legge o del commercialista che spiega una norma fiscale. La scienza, per chi sta fuori, si trasforma in un atto di fede. Ed è proprio in questa zona grigia che il ciarlatano prospera.

Non c’è magia nelle sue parole, ma psicologia applicata. Robert Cialdini lo ha dimostrato: la reciprocità, la scarsità, la simpatia, l’autorità sono le armi invisibili che rendono persuasivo un messaggio. Un guaritore improvvisato offre prima un piccolo consiglio gratuito, così si crea un legame di debito; un venditore di corsi millanta “posti limitati”, e il pubblico corre a iscriversi. Ogni promessa ha il sapore dell’urgenza, del dono, della vicinanza umana. È il medesimo arsenale retorico che usano pubblicitari, politici e influencer: la differenza è solo nel fine.

E poi c’è la forza delle parole. Come insegna Paolo Borzacchiello, il linguaggio non descrive la realtà: la costruisce. Un ciarlatano non dice mai “se guarirai”, ma “quando guarirai”. Non propone un’alternativa, ma un futuro già scritto. Basta una metafora, un presupposto infilato dentro una frase, ed ecco che la barriera razionale cade. Il discorso ambiguo, mai del tutto chiaro, lascia spazio all’ascoltatore di completarlo con la propria immaginazione, e l’illusione diventa persino più solida della realtà.

Non bisogna però credere che le vittime siano sprovvedute. Il ciarlatano ha successo perché trova terreno fertile nei bug della mente. Il bias di conferma ci porta a ricordare soltanto i suoi successi, l’effetto alone ci spinge a credergli perché indossa un camice bianco, la dissonanza cognitiva ci rende incapaci di ammettere l’errore dopo aver speso soldi e speranze. In fondo, la mente collabora con l’inganno, perché lo desidera.

Ed ecco la domanda più scomoda: se un’illusione consola, è sempre un male? Un falso guaritore che regala qualche mese di speranza a un malato terminale è più colpevole di uno scienziato che comunica male e lascia l’ammalato nel buio dell’angoscia? La linea etica si fa sottile, e forse per questo la società tollera tanti inganni.

Alla fine, l’arte del ciarlatano non appartiene solo a chi la esercita sul palco o sullo schermo. È un riflesso che ci riguarda tutti, ogni volta che vendiamo certezze che non abbiamo, che pronunciamo parole per convincere e non per chiarire. Il ciarlatano immortale, quello che da secoli attraversa piazze e televisioni, vive anche dentro di noi. Forse è per questo che la sua voce non smette mai di trovare ascolto.

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