A un anno dal suo arrivo alla Casa Rosada, Javier Milei ha ottenuto un risultato che molti osservatori definiscono storico. Le elezioni parlamentari dell’ottobre 2025 hanno consacrato il leader libertario come il protagonista indiscusso della scena politica argentina. Con oltre il 40% dei voti e un avanzamento netto nelle province un tempo dominio del peronismo, La Libertad Avanza ha consolidato la sua presenza in entrambe le Camere, conferendo al presidente un potere negoziale e simbolico che nessuno dei suoi predecessori recenti era riuscito a mantenere dopo il primo anno di governo.
| Javier Milei |
La vittoria elettorale è stata salutata da Milei come “l’inizio di una nuova era di prosperità e libertà”. Le immagini di Buenos Aires illuminata dai fuochi, tra bandiere viola e slogan libertari, hanno restituito un Paese apparentemente rinvigorito, desideroso di credere che la terapia d’urto — tagli, austerità, privatizzazioni — potesse finalmente riportare stabilità dopo decenni di crisi ricorrenti. E in effetti, nei primi mesi del 2025, alcuni indicatori macroeconomici avevano dato ragione al presidente: l’inflazione sembrava rallentare, il peso recuperava parte del suo valore, e gli investitori internazionali mostravano un cauto ottimismo.
Tuttavia, dietro il trionfo elettorale e le cifre di una ripresa effimera si nasconde una realtà più complessa. Il modello di Milei, fortemente ideologico, continua a poggiare su fondamenta fragili: una dollarizzazione incompleta, un settore produttivo impoverito e una società attraversata da diseguaglianze crescenti. La stabilizzazione dei prezzi è arrivata a costo di un crollo dei consumi e di un impoverimento rapido delle classi medie e popolari. L’austerità, presentata come una necessità morale, ha prodotto un effetto boomerang: la contrazione della domanda interna e la stagnazione di interi comparti industriali.
Sul piano geopolitico, il quadro è ancora più critico. Milei ha scelto con fermezza di schierare l’Argentina nel campo occidentale, rinunciando all’adesione ai BRICS che era già stata approvata dal governo precedente. Questa decisione, più ideologica che strategica, ha segnato una frattura profonda con il multipolarismo emergente e con i principali partner commerciali del Paese, come la Cina e il Brasile. In un momento in cui il Sud globale cerca nuove forme di cooperazione finanziaria e di sviluppo autonomo, Buenos Aires si è ritirata nel recinto del dollaro e del Fondo Monetario Internazionale, rinunciando a canali alternativi di credito e a nuovi mercati.
Il successo parlamentare di ottobre, dunque, è una vittoria tattica ma non strategica. Milei dispone ora di maggiore forza interna per portare avanti la sua “rivoluzione liberale”, ma rischia di trasformare l’Argentina in un laboratorio senza futuro. L’isolamento internazionale, l’assenza di una politica industriale e la dipendenza da capitali speculativi rendono la sua traiettoria insostenibile nel medio-lungo periodo.
La storia recente dell’America Latina offre più di un precedente: presidenti eletti sull’onda del populismo economico, capaci di entusiasmare l’elettorato con promesse di rottura e libertà, si sono ritrovati in pochi anni a governare Paesi stremati da crisi sociali e da fughe di capitali. Milei, con la sua miscela di fervore ideologico e disprezzo per la mediazione politica, sembra ripercorrere quella parabola. La sua vittoria, più che un punto di svolta, appare come l’apice di una bolla politica destinata a scontrarsi con la realtà della macroeconomia e delle relazioni internazionali.
L’Argentina di oggi vive sospesa tra due narrazioni: quella di un presidente che si proclama vincitore della “guerra contro la casta”, e quella di un Paese che, pur applaudendo, comincia a rendersi conto di aver perso — silenziosamente — il treno del futuro. Mentre il mondo si riorganizza attorno ai nuovi poli di potere dei BRICS, Buenos Aires resta ancorata al mito del libero mercato come religione salvifica. È il trionfo di Milei, certo. Ma anche, forse, l’inizio della sua più grande illusione.
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