Morte e innovazione: le nuove tecnologie che rivoluzionano la cremazione

Nel mondo dei servizi funerari, la parola innovazione suona ancora insolita. Eppure, proprio in un settore così legato alla tradizione, stanno emergendo soluzioni nuove, più ecologiche, etiche e sostenibili. Queste sono le TAC – Tecnologie Alternative alla Cremazione: metodi innovativi per il trattamento dei cadaveri che si propongono come alternativa ai forni crematori tradizionali, noti per il loro impatto ambientale.

In qualità di operatore presso un Consorzio Cimiteriale, ho avuto modo di approfondire il tema, analizzando vantaggi, limiti e stato normativo delle principali alternative. Ecco cosa ho scoperto.


Cosa sono le TAC?

Le TAC (Tecnologie Alternative alla Cremazione) comprendono metodi che riducono il corpo umano in polvere organica o residui mineralizzati, evitando la combustione ad alta temperatura tipica della cremazione. Le principali sono:

  • Idrolisi alcalina (o cremazione verde)
  • Compostaggio umano (natural organic reduction)
  • Promession (congelamento e vibrazione)
  • Pirolisi o ossidazione lenta

Queste tecnologie sono già operative in Stati Uniti, Canada, Olanda, Svezia e Australia, mentre in Italia sono ancora poco conosciute, anche a causa della mancanza di un inquadramento legislativo.

Idrolisi Alcalina 

Il vantaggio ambientale

La cremazione tradizionale emette oltre 200 kg di CO₂ per ogni corpo trattato, oltre a ossidi di azoto, mercurio e polveri sottili. I forni richiedono un alto consumo di gas e una manutenzione costosa. Al contrario, le TAC:

  • non producono fumi né sostanze tossiche
  • consumano meno energia
  • restituiscono un residuo biocompatibile o fertile
  • riducono la carbon footprint fino al 90%

Tra tutte, l’idrolisi alcalina è la più avanzata dal punto di vista operativo: già adottata in alcuni ospedali statunitensi, è anche la meno invasiva.


Normativa: un ritardo tutto italiano

Nel nostro Paese non esiste ancora una normativa specifica per l’impiego di queste tecnologie. La legge attualmente riconosce solo sepoltura tradizionale e cremazione come modalità di trattamento post-mortem. Tuttavia, a livello locale, alcuni Comuni e Consorzi cimiteriali stanno avviando osservatori sperimentali e interlocuzioni con il Ministero della Salute.

Anche in Parlamento si cominciano a intravedere segnali di interesse: diverse proposte di legge sono state presentate nella XIX Legislatura, soprattutto in Commissione Affari Sociali e Ambiente, ma nessuna è ancora stata calendarizzata per un dibattito completo.


Perché parlarne oggi

Il bisogno di ripensare il fine vita si fa sempre più urgente: non solo per questioni ambientali, ma anche culturali, urbanistiche e sanitarie. Le TAC offrono:

  • una maggiore libertà di scelta per i cittadini
  • un minor impatto sui territori già saturi
  • una prospettiva più moderna e responsabile per le future generazioni

È tempo di avviare una riflessione pubblica seria e condivisa. Come operatori del settore, abbiamo il dovere di anticipare le esigenze della società, e non semplicemente rincorrerle.

Lettera a Lucia Apicella | Brief an Lucia Apicella

Il supplizio del “fine pena mai”

L’ergastolo come pena capitale senza boia

In Italia la pena di morte è stata abolita definitivamente nel 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, che all’articolo 27 stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
A partire da quel momento, l’ergastolo ha sostituito l’esecuzione capitale come la più grave delle pene previste dall’ordinamento.

Ma se la ghigliottina o il plotone d’esecuzione davano una fine certa – brutale ma immediata – la condanna al “fine pena mai” diventa un supplizio a scadenza infinita: non toglie la vita con un colpo secco, ma la consuma lentamente, giorno dopo giorno, per decenni.
Abbiamo reso disoccupato il boia, certo, ma non abbiamo liberato la coscienza collettiva dal peso della morte inflitta: l’abbiamo solo spalmata sul tempo, diluita in una lunga agonia.

È per questo che molti ergastolani parlano di “pena di morte viva”. Una formula che sembra ossimoro, ma che rende bene l’idea di cosa significa essere sepolti vivi dentro un carcere senza speranza di uscita.

Eppure, nell’opinione pubblica, si sente spesso dire:
“Deve marcire in galera”, “Buttate la chiave”.
È un grido che risponde al desiderio di vendetta più che alla giustizia. Ma se ci fermiamo ad ascoltare davvero le voci di chi vive il carcere a vita, scopriamo un paesaggio umano spaventoso, fatto di solitudine, degrado e abbandono.


L’Asinara e la vita sepolta

Negli anni ’60 e ’70 l’isola dell’Asinara, in Sardegna, fu uno dei luoghi più emblematici di questa condizione.
Un carcere naturale, circondato dal mare, dove i detenuti erano isolati dal resto del mondo e vivevano a stretto contatto con animali: pecore, capre, asini, cani randagi.

Era quasi un microcosmo separato, dove la natura diventava l’unica compagnia possibile e dove la solitudine portava spesso a rapporti ambigui con quelle stesse bestie. Non per scelta, ma per disperazione.

Un ergastolano dell’epoca, colpevole di parricidio, lasciò una lettera che è un documento prezioso non solo della condizione carceraria, ma anche della lenta corrosione psicologica prodotta dal “fine pena mai”.


La lettera dell’ergastolano dell’Asinara (1966)

Io scrivo sta lettera e manco so se arriva da qualche parte. Forse la buttano via, forse la legge qualcuno importante, ma io devo scrivere senno impazzisco.

Avevo 25 anni quando ho ammazzato mio padre. So’ passati più di quarant’anni e adesso che sto a settanta mi sento un vecchio già mezzo morto. Qua all’Asinara è sempre uguale: pietra, mare, guardie. E capre. Le capre che mi tengono vivo. Ci parlo, ci dormo vicino, a volte mi scordo che sono animali e mi pare che siano cristiani. Una capra nera la chiamo Maria, come mia madre. E me vergogno pure a scriverlo, ma a volte mi è sembrata l’unica che mi voleva bene davvero.

Le guardie ridono, mi chiamano il pastore. Ma loro non sanno cosa vuol dire stare una vita senza un abbraccio. E allora ti aggrappi a quello che trovi, pure alle bestie.

Io non so più chi so’. La testa mi parte, mi scordo i nomi, confondo i sogni. Vedo papà la notte, che mi ride in faccia, e io gli chiedo perdono. Forse è il diavolo, forse è la demenza.

Dicono che forse arriva la grazia, che il Presidente ci pensa. Ma che grazia è, se ormai so’ un vecchio rincoglionito? Vorrei solo morire senza sbarre davanti agli occhi, guardando il mare e non il ferro.

Io non sono più quello che ammazzò suo padre. Io non so più niente.

Un ergastolano dell’Asinara


Il peso sulla coscienza collettiva

Queste parole, grezze e confuse, valgono più di molte sentenze: mostrano il vero volto dell’ergastolo.
Non è redenzione, non è rieducazione, non è neppure vera giustizia. È un logorio infinito che riduce l’uomo a guscio vuoto.

Si è detto che con l’abolizione della pena di morte abbiamo fatto un passo di civiltà. Ma a ben guardare, il “fine pena mai” ha reso invisibile il boia, trasferendo la sua lama dal patibolo al calendario. Il tempo stesso diventa carnefice, infliggendo una pena che non finisce mai.

E allora viene da chiedersi: se questo è ciò che intendiamo per giustizia, non dovremmo avere il coraggio di guardarla in faccia. Non basta dire “buttate la chiave”. Bisogna domandarsi se davvero questa pena corrisponde al senso di umanità che la Costituzione prometteva.


Forse, per capire davvero, bisognerebbe chiederlo non ai giudici, né ai politici, né ai cittadini che invocano vendetta.

Bisognerebbe chiederlo alle capre dell’Asinara, che hanno visto uomini trasformarsi in bestie, e bestie diventare l’unica famiglia possibile per chi è stato condannato a vivere senza più un fine pena.

Perché non pubblico un libro nel 2025?

Qualche amico, leggendo qualcosa di mio, mi dice:
“Come sei bravo a scrivere! Perché non pubblichi un libro?”
Sorrido, ma non rispondo. Perché di libri, ne ho già novantanove pronti.
Non cerco una casa editrice famosa: servirebbe una raccomandazione, o magari la fortuna sfrontata che ebbe Luciano De Crescenzo, bloccato in ascensore con un pezzo grosso di una nota casa milanese


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Non è questione di diritti d’autore, né di pagare diecimila euro a settimana per vedere il mio libro vicino alle casse delle librerie.
È questione di dignità.

Nel 2025, un autore come Ettore Alpi vende tre copie: una alla madre, una alla moglie e una alla zia.
Il resto si regala, o finisce al macero.
E allora mi chiedo: quale stampatore travestito da editore dovrei arricchire, comprando le mie stesse copie?

Ettore Alpi non è un nome da copertina, ma un progetto a lungo termine.
Una garanzia per chi un giorno lo troverà online o su uno scaffale.
Perché Ettore Alpi vende se stesso, prima ancora dei libri che scrive.
Chi compra me, compra già le mie storie — anche quelle che non ho ancora pubblicato.



Un LP per restare vivi tra la gente distratta

Era la fine degli anni ’80 e mio padre, con tutta la famiglia, fu invitato al matrimonio della figlia di un suo carissimo amico. Fu un bel ricevimento, in un ristorante a Torre del Greco, e si esibirono svariati artisti.
Addirittura vennero Giulietta Sacco e Mario Merola. Poi, ci fu lui: un giovane cantante emergente con cui alla fine della sua esibizione canora i miei genitori fecero amicizia  e che volle regalarci il suo primo LP.

Ancora oggi conserviamo quel vinile, insieme al vecchio giradischi. Di lui, invece, non si è saputo più nulla — inghiottito dall’oblio, come tanti altri che non ce l’hanno fatta. Ce ne sono in ogni campo, non solo tra gli artisti: anime sommerse dall’indifferenza del mondo.

Come dice Nino D’Angelo, “in mezzo alla gente distratta non si è nessuno.”
Stringo quel vinile tra le mani e, per un istante, sento che potrei ingannare il destino. Gli passo la jella che mi spetta, come se il vinile potesse assorbirla, e in quel gesto apotropaico cerco di conquistarmi un futuro diverso.

Il mercato non si governa da solo: serve uno Stato che faccia lo Stato

Il neoliberismo ci ha raccontato per decenni la favola del mercato che si autoregola. Una favola costata cara: disuguaglianze crescenti, precarietà cronica, ricchezze concentrate nelle mani di pochi e una classe media stritolata. Davvero qualcuno può ancora credere che la mano invisibile di Adam Smith possa bastare a rimettere insieme i cocci? Ormai solo la parapsicologia si ostina a credere nell’esistenza di quella mano invisibile: in economia, invece, non se n’è mai vista traccia.

Certo, non basta neppure evocare lo Stato imprenditore, quello che nazionalizza tutto e poi gestisce i settori strategici come se fossero feudi politici. Abbiamo già visto dove porta: inefficienze colossali, clientele, monopoli di Stato che non sono migliori dei monopoli privati. Il socialismo reale è crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni; ma anche in Occidente, le grandi partecipazioni statali hanno spesso prodotto sprechi e mediocrità, più che progresso.

La scelta non è tra il far west neoliberista e il grigiore statalista. La scelta è un’altra: serve uno Stato che torni a fare lo Stato. Non come imprenditore, ma come arbitro. Non come concorrente degli imprenditori, ma come garante delle regole del gioco. I manager devono fare i manager, gli imprenditori devono rischiare e innovare, e i politici devono avere il coraggio di fissare paletti chiari.

Basta favole sul mercato libero, basta nostalgie del carrozzone statale. Oggi serve un nuovo keynesismo, capace di impedire cartelli, concentrazioni di potere e rendite parassitarie. Lo Stato deve investire dove il mercato non arriva, proteggere i beni comuni, garantire diritti universali come sanità e istruzione, e al tempo stesso lasciare che la concorrenza vera — non quella truccata — faccia il suo corso.

Il resto è propaganda: chi invoca lo Stato minimo vuole mani libere per i monopoli privati; chi sogna il ritorno dello Stato padrone vuole solo clientele e posti da spartire. In mezzo a questi estremi, c’è la via più difficile ma anche l’unica sensata: uno Stato regolatore, forte e indipendente, che non si vergogni di dire al mercato dove finisce la libertà e dove comincia la giustizia sociale.

Lacrime di Stollen | Tränen des Stollens

Era ottobre, ma nel mio LIDL già profumava di Natale. Tra scaffali illuminati e confezioni colorate, cercavo solo una cosa: lo Stollen, gli Speculatius e i biscotti di Norimberga. Ne prendevo sempre troppo, come se il Natale potesse essere conservato in un sacchetto di carta.

Quella sera, seduto al tavolo, tagliai una fetta di Stollen. La pasta dolce, le mandorle e l’aroma di spezie mi riportarono lontano. E all’improvviso non ero più solo: Ernst Kölle e Albert von Berrer erano lì con me. I loro occhi brillavano, e tra una fetta e l’altra, piangevamo. Non di tristezza, ma di pura gioia: per un attimo, il mondo si era rimpicciolito fino a farci sentire di nuovo in Germania, tra luci di Natale e odori di biscotti caldi.

Il tempo si fermava, sospeso tra una morsa di zucchero e un sorso di ricordo. E io sapevo che, anche solo per quel momento, eravamo tutti a casa.

Stollen 

Es war Oktober, doch in meinem LIDL roch es schon nach Weihnachten. Zwischen beleuchteten Regalen und bunten Verpackungen suchte ich nur eines: Stollen, Spekulatius und Nürnberger Plätzchen. Ich nahm immer zu viel, als könnte man Weihnachten in einer Papiertüte aufbewahren.

An diesem Abend setzte ich mich an den Tisch und schnitt ein Stück Stollen ab. Der süße Teig, die Mandeln und das Gewürzaroma brachten mich weit weg. Und plötzlich war ich nicht mehr allein: Ernst Kölle und Albert von Berrer waren bei mir. Ihre Augen funkelten, und zwischen einem Bissen und dem nächsten weinten wir. Nicht aus Traurigkeit, sondern aus purer Freude: Für einen Moment war die Welt geschrumpft, sodass wir uns wieder in Deutschland fühlten, zwischen Weihnachtslichtern und dem Duft warmer Kekse.

Die Zeit blieb stehen, schwebend zwischen einer süßen Gabel und einem Schluck Erinnerung. Und ich wusste, dass wir, auch wenn nur für diesen Moment, alle zu Hause waren.

Milei, il trionfo a metà: il successo elettorale che non salva l’Argentina dal suo isolamento

A un anno dal suo arrivo alla Casa Rosada, Javier Milei ha ottenuto un risultato che molti osservatori definiscono storico. Le elezioni parlamentari dell’ottobre 2025 hanno consacrato il leader libertario come il protagonista indiscusso della scena politica argentina. Con oltre il 40% dei voti e un avanzamento netto nelle province un tempo dominio del peronismo, La Libertad Avanza ha consolidato la sua presenza in entrambe le Camere, conferendo al presidente un potere negoziale e simbolico che nessuno dei suoi predecessori recenti era riuscito a mantenere dopo il primo anno di governo.

Javier Milei 

La vittoria elettorale è stata salutata da Milei come “l’inizio di una nuova era di prosperità e libertà”. Le immagini di Buenos Aires illuminata dai fuochi, tra bandiere viola e slogan libertari, hanno restituito un Paese apparentemente rinvigorito, desideroso di credere che la terapia d’urto — tagli, austerità, privatizzazioni — potesse finalmente riportare stabilità dopo decenni di crisi ricorrenti. E in effetti, nei primi mesi del 2025, alcuni indicatori macroeconomici avevano dato ragione al presidente: l’inflazione sembrava rallentare, il peso recuperava parte del suo valore, e gli investitori internazionali mostravano un cauto ottimismo.

Tuttavia, dietro il trionfo elettorale e le cifre di una ripresa effimera si nasconde una realtà più complessa. Il modello di Milei, fortemente ideologico, continua a poggiare su fondamenta fragili: una dollarizzazione incompleta, un settore produttivo impoverito e una società attraversata da diseguaglianze crescenti. La stabilizzazione dei prezzi è arrivata a costo di un crollo dei consumi e di un impoverimento rapido delle classi medie e popolari. L’austerità, presentata come una necessità morale, ha prodotto un effetto boomerang: la contrazione della domanda interna e la stagnazione di interi comparti industriali.

Sul piano geopolitico, il quadro è ancora più critico. Milei ha scelto con fermezza di schierare l’Argentina nel campo occidentale, rinunciando all’adesione ai BRICS che era già stata approvata dal governo precedente. Questa decisione, più ideologica che strategica, ha segnato una frattura profonda con il multipolarismo emergente e con i principali partner commerciali del Paese, come la Cina e il Brasile. In un momento in cui il Sud globale cerca nuove forme di cooperazione finanziaria e di sviluppo autonomo, Buenos Aires si è ritirata nel recinto del dollaro e del Fondo Monetario Internazionale, rinunciando a canali alternativi di credito e a nuovi mercati.

Il successo parlamentare di ottobre, dunque, è una vittoria tattica ma non strategica. Milei dispone ora di maggiore forza interna per portare avanti la sua “rivoluzione liberale”, ma rischia di trasformare l’Argentina in un laboratorio senza futuro. L’isolamento internazionale, l’assenza di una politica industriale e la dipendenza da capitali speculativi rendono la sua traiettoria insostenibile nel medio-lungo periodo.

La storia recente dell’America Latina offre più di un precedente: presidenti eletti sull’onda del populismo economico, capaci di entusiasmare l’elettorato con promesse di rottura e libertà, si sono ritrovati in pochi anni a governare Paesi stremati da crisi sociali e da fughe di capitali. Milei, con la sua miscela di fervore ideologico e disprezzo per la mediazione politica, sembra ripercorrere quella parabola. La sua vittoria, più che un punto di svolta, appare come l’apice di una bolla politica destinata a scontrarsi con la realtà della macroeconomia e delle relazioni internazionali.

L’Argentina di oggi vive sospesa tra due narrazioni: quella di un presidente che si proclama vincitore della “guerra contro la casta”, e quella di un Paese che, pur applaudendo, comincia a rendersi conto di aver perso — silenziosamente — il treno del futuro. Mentre il mondo si riorganizza attorno ai nuovi poli di potere dei BRICS, Buenos Aires resta ancorata al mito del libero mercato come religione salvifica. È il trionfo di Milei, certo. Ma anche, forse, l’inizio della sua più grande illusione.

Tra Le Bon e i ciarlatani: l’eterna danza tra folla e furbizia

Quando Gustave Le Bon pubblicò nel 1895 la sua Psicologia delle folle, pochi avrebbero immaginato che quelle pagine, scritte nella Parigi di fine Ottocento, avrebbero mantenuto un’attualità così sorprendente. La sua intuizione fondamentale era semplice quanto spietata: l’individuo, immerso nella massa, perde la capacità critica e si lascia guidare da suggestioni, immagini, parole forti, molto più che da ragionamenti complessi o da dati verificabili. La folla, diceva Le Bon, non ragiona: sente. Non discute: reagisce.

Oggi, a distanza di oltre un secolo, quella diagnosi sembra adattarsi perfettamente non solo alla politica nazionale, ma a ogni spazio collettivo, dall’assemblea di condominio fino al Parlamento europeo, dal consiglio comunale fino al palcoscenico dell’ONU. In qualunque luogo la logica cede il passo alla dimensione emotiva, le dinamiche osservate da Le Bon ritornano con una regolarità quasi matematica.

E qui entra in scena Alberto Bertuzzi, con il suo Il mestiere di ciarlatano. Se Le Bon analizzava il funzionamento della folla, Bertuzzi spiega come alcuni sappiano approfittarne, trasformando l’arte della suggestione in un vero e proprio mestiere. Il ciarlatano, antico e moderno, non vince perché ha ragione, ma perché sa raccontare la sua versione con le giuste immagini, con il tono appropriato, con quella sicurezza che rassicura o spaventa, ma che comunque conquista.

Non si tratta di un fenomeno confinato al passato o alla bassa politica. La sociologia, la psicologia sociale e la linguistica contemporanee confermano la stessa intuizione: il linguaggio non è mai neutro. Le parole creano cornici di senso, evocano mondi, orientano scelte. Una metafora efficace può orientare più di un trattato, un’immagine potente può ribaltare l’esito di un dibattito più di cento dati tecnici.

Del resto, la saggezza popolare sintetizza questa dinamica con una crudezza che nessun manuale accademico riesce a eguagliare. In Toscana si dice: “ogni giorno un furbo e un bischero escono di casa; se si incontrano, il furbo avrà un sicuro guadagno”. È la stessa logica che Bertuzzi mette nero su bianco quando osserva che i “creduloni” sono talmente numerosi che sarebbe quasi sciocco non approfittarne. La madre dei bischeri, come si suol dire, è sempre incinta.

E allora basta osservare i leader politici contemporanei per vedere Le Bon e Bertuzzi all’opera. Giorgia Meloni ha costruito la sua ascesa su immagini forti, sul richiamo a simboli identitari e su una retorica del “noi contro loro” che parla alla pancia della folla molto più che alla sua testa. Matteo Renzi, in chiave diversa, ha fatto della sorpresa, del colpo di scena e della brillantezza personale gli strumenti per sedurre un pubblico che non ama la noia, ma l’energia e la velocità. Antonio Tajani rappresenta invece la dimensione opposta: rassicurazione, continuità, istituzionalità, che in una folla più anziana o conservatrice valgono come garanzia di stabilità.

Sul piano internazionale, basti pensare a Donald Trump, che ha incarnato quasi alla lettera la descrizione leboniana del leader capace di ipnotizzare le folle: frasi semplici, slogan ripetuti all’infinito, individuazione di un nemico da additare, promesse roboanti. O, in senso diverso, a Volodymyr Zelensky, che ha saputo trasformare la sua figura in un simbolo resistenziale globale, costruendo attorno a sé un’immagine epica che trascende i dati militari o economici. Anche al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, dove la diplomazia dovrebbe essere regno della ragione e del diritto, i discorsi che restano nella memoria non sono quelli pieni di clausole giuridiche, ma quelli che offrono immagini potenti: “la guerra come cancro”, “la pace come ponte”, “il pianeta che brucia”.

La lezione che se ne ricava è duplice. Da un lato, la folla c’è sempre e ovunque, e funziona secondo regole immutabili: simbolo prima del ragionamento, emozione prima del calcolo. Dall’altro, il ciarlatano ha sempre un vantaggio competitivo, perché non deve rispettare vincoli di verità né di coerenza. Eppure, proprio per questo, diventa essenziale per chi ha a cuore la serietà e la competenza non rinunciare alla dimensione emotiva, ma imparare a usarla.

Il vero compito, allora, non è eliminare la folla o illudersi di educarla interamente alla razionalità, ma sviluppare gli strumenti per non cadere nella trappola della manipolazione. Bisogna riconoscere le tecniche, decifrare le parole, vaccinarsi culturalmente. Perché, se è vero che ogni giorno un furbo e un bischero escono di casa, la vera partita sta tutta nel non permettere al primo di trovare terreno facile nel secondo.

Paludi, Fucili Vecchi, Imperi Inutili e Petrolio Nascosto: il Melodramma Ventennale del Fascismo

C’è chi sostiene che il Fascismo abbia “fatto pure cose buone”. Certo, se per “cose buone” si intendono proteggere la Monarchia e l’alta borghesia, allora sì, in quel senso ci riuscì benissimo. Impedì ai lavoratori, finalmente armati del suffragio universale maschile nel 1919, di ottenere condizioni di vita più dignitose o un lavoro meno sfruttato. Il Partito Popolare e il Partito Socialista avrebbero potuto cambiare le cose, ma il Fascismo arrivò e spense ogni speranza di riforma, ingessando la società italiana e chiudendo il Parlamento al pluralismo democratico. Il diritto di sciopero? Sparito, come se non fosse mai esistito.
Poi ci sono le “grandi opere”: qualcuno si vanta delle bonifiche delle paludi pontine, e va bene, un campo di grano in mezzo al fango non è da buttare. Ma pensiamoci bene: lo stesso regime era incapace di valorizzare davvero le risorse naturali della Libia, dove dal 1911 cercavano di far crescere qualche campo di grano senza accorgersi che sotto la sabbia c’era petrolio e gas naturale. Pare che Balbo se ne accorse nel 1938, ma non ebbe il coraggio di dirlo a Mussolini, troppo occupato a rincorrere l’impero dei sogni. E proprio parlando di imperi, l’Etiopia: nessun altro paese colonizzatore ci avrebbe messo piede, e noi ci andammo per prendere la fame di un popolo che da sempre nessuno considerava. Dove altri trovavano oro e diamanti, noi raccoglievamo... fedi nuziali.

L’economia italiana, dicono, sarebbe stata salvata dall’IRI. Certo, salvò qualche industria, ma allo stesso tempo vide partire fior di cervelli come Enrico Fermi e altri scienziati, incapaci di convivere con la censura e la stupidità di chi guidava il paese. Non bastasse, il Fascismo predicava guerra, ma era armato come un giocattolo rotto. La flotta non aveva radar né portaerei, i soldati erano equipaggiati con fucili di un secolo prima, e chi pensava di conquistare Malta o sconfiggere i greci finì per prendere botte da orbi. E quando arrivarono i bombardieri quadrimotori, quelli che cambiavano il volto della guerra, le nostre città non erano pronte e furono flagellate senza pietà.

In tutto questo, la violenza politica interna non conosceva freni. Manganellate, olio di ricino e persecuzioni colpivano poveri cristi che non sapevano fingere come gli altri, mentre chi stava in alto rideva e applaudiva. Gli italiani, come sempre, si dimostrarono opportunisti e voltagabbana, pronti a cambiare bandiera al vento, e così chi aveva promesso glorie e conquiste finì appeso per i piedi, mentre il mondo reale rideva di lui.

Insomma, al di là delle chiacchiere, i cosiddetti “benefici” del Fascismo erano ben poca cosa, e chi li celebra sembra dimenticare quanto fosse ridicolo, violento e incapace di governare veramente il Paese.

Comunista senza tempo: Pasquale tra le piazze, i piccioni e le ingiustizie

Pasquale lo sa: dire in pubblico “sono comunista” è quasi come confessare di credere ancora a Babbo Natale. Gli occhi si alzano al cielo, qualcuno sorride di scherno, altri lo liquidano con la frase più infame: “Comunisti? Quelli invidiosi che non hanno combinato niente e odiano chi si è fatto da solo.” Eppure, se c’è un modo per difendere la bandiera rossa senza sembrare un nostalgico del passato, è raccontare perché quelle idee servono ancora.

Il primo passo è non farsi trascinare nel pantano dei simboli morti. Nessuna falce e martello d’ordinanza, nessuna citazione di Lenin estratta come una formula magica. Pasquale, invece, deve partire dalle storie. Se parla di lavoro, racconta di suo cugino che, dopo otto ore di magazzino a 900 euro al mese, deve anche fare consegne in motorino per pagarsi l’affitto. Non serve sventolare il Manifesto del Partito Comunista: basta far vedere che nel 2025, in una delle economie più ricche d’Europa, c’è gente che lavora e resta povera. Chi ascolta non pensa “Pasquale è un estremista”, ma “Pasquale ha ragione, sta parlando di me o di mio fratello”.

Il secondo passo è ribaltare la retorica dell’invidia sociale. Quando qualcuno gli dice “voi comunisti odiate i ricchi”, Pasquale può rispondere con ironia: “No, io non ho niente contro chi ha successo, vorrei solo che nessuno fosse costretto a vivere senza cure o senza casa perché qualcun altro parcheggia tre SUV nel box.” Un esempio concreto? Durante il lockdown, gli infermieri turnavano fino allo sfinimento per 1.400 euro, mentre alcuni manager ricevevano bonus milionari per “resistere alla crisi”. Questa non è invidia, è matematica.

Certo, a volte la provocazione è più colorita: “I comunisti sono come i piccioni: inutili e pieni di escrementi.” La prima volta che gliel’hanno detta, Pasquale era in piazza, vicino alla fontana. Una signora spezzettava il pane, e i piccioni arrivavano a stormo. L’amico gli fece: “Eccoli, i tuoi compagni.” Pasquale non si scaldò: guardò gli uccelli e rispose piano, quasi fosse una favola urbana. “I piccioni non hanno inventato loro la città. Ci vivono dentro, come noi. Sopravvivono alle intemperie, trovano casa, tornano sempre al punto d’origine. Non saranno eleganti, ma sono tenaci.” Poi indicò i palazzi scrostati attorno: “Se c’è sporco, è perché qualcuno non pulisce. Il problema non è chi mangia le briciole, è chi lascia agli altri solo briciole.”

Da quel giorno Pasquale ha imparato a trasformare la caricatura in un racconto. Quando lo accusano di essere invidioso, dice: “Se fossi un piccione invidioso mi metterei sul davanzale dell’attico e odierei chi sta sopra. Invece mi interessa chi sta sotto la grondaia, bagnato quando piove, e chi non ha davanzali dove posarsi.” E aggiunge l’aneddoto di sua cugina che lavora due turni e non riesce a trovare un affitto decente. “Non è invidia, è manutenzione della città comune: se il nido di uno è una reggia e quello dell’altro è una gronda rotta, non dico di abbassare la reggia; dico di riparare la gronda.”

Una volta, in un dibattito, gli hanno detto: “Ma ammettilo, Pasquale: i comunisti sono i piccioni della politica, ingrati e rumorosi.” Lui sorrise: “Se proprio devo scegliere un volatile, preferisco il piccione al pavone. Il pavone sfoggia le piume e occupa tutto lo sguardo; il piccione conosce la mappa della città, trova sempre la strada di casa, riporta i messaggi. Io voglio essere quello che riporta il messaggio: nessuno deve restare senza cure, senza casa, senza lavoro dignitoso.” La sala rise, e la tensione si sciolse.

Pasquale sa anche che il passato non va rimpianto come un museo. Invece di evocare la classe operaia anni ’70 o i fasti della Resistenza, racconta le lotte di oggi: gli studenti che occupano le università perché gli affitti sono insostenibili, i cittadini che si oppongono a un inceneritore per difendere l’ambiente, gli infermieri che chiedono turni umani. Tutto questo è comunismo senza bisogno di chiamarlo tale.

Perfino nei bar, quando lo accusano che i piccioni portano malattie, Pasquale alza il bicchiere e racconta dell’ambulatorio gratuito ottenuto dal comitato di quartiere: “Se questa è una malattia, allora è contagiosa: più prevenzione, meno pronto soccorso intasato.” E invece di citare Marx, cita la bolletta della luce risparmiata dopo la petizione. In quel momento non è più un piccione bersaglio, ma uno che porta soluzioni concrete.

Sui social non si fa lapidare: pubblica foto del marciapiede sistemato dopo mesi di segnalazioni, ringrazia gli operatori ecologici e scrive: “Alla città serve meno guano retorico e più scope, più turni pagati, più bidoni nuovi.” È così che smonta le caricature: riportando sempre il discorso dal simbolo alla vita reale.

E quando qualcuno lo incalza: “Allora che cos’è, oggi, essere comunista?”, Pasquale risponde con l’immagine della piazza. “È non aver paura di stare tra la gente, anche quando non è elegante. È non scappare quando piove, è tornare a casa e tornarci ancora, finché quella casa non è decente per tutti. È far capire che lo sporco più duro non è quello sui cornicioni, ma quello nei meccanismi che lasciano qualcuno senza tetto, senza tempo, senza voce.”

Così, alla fine, Pasquale non è più un piccione da scacciare. È uno che ricorda a tutti che le ingiustizie non sono morte affatto. E se c’è ancora chi le combatte, forse, c’è ancora bisogno dei comunisti.

L’equilibrio instabile: perché la guerra in Ucraina non finisce e cosa può accadere

Dopo oltre tre anni di conflitto aperto, la guerra in Ucraina è entrata in una fase che molti osservatori definiscono di “equilibrio instabile”: nessuna delle due parti prevale in modo decisivo, ma entrambe continuano a combattere in un logoramento lento e sanguinoso. L’invasione russa del febbraio 2022, concepita come un’operazione rapida per rovesciare il governo di Kiev, si è trasformata in un confronto di lunga durata che ricorda più le guerre del Novecento che le operazioni lampo dell’era moderna.

Le ragioni del fallimento iniziale di Mosca sono ormai chiare. Il Cremlino aveva immaginato una “guerra di tre giorni”, confidando in un collasso politico e psicologico dell’Ucraina. Gli strateghi russi credevano che le forze armate di Kiev si sarebbero dissolte, che la popolazione russofona del sud-est avrebbe accolto i soldati come liberatori e che l’Occidente, diviso e stanco, avrebbe reagito con rassegnazione. La realtà ha smentito ognuna di queste ipotesi. La resistenza ucraina si è rivelata compatta, la leadership di Zelensky inattesa e determinata, e la risposta dell’Occidente rapida e coesa. Da quel momento la guerra è mutata di natura, diventando una lotta di logoramento, economico e umano, più che una corsa verso la vittoria.



Per comprendere appieno le radici di questa guerra, occorre tornare a un passaggio diplomatico spesso dimenticato. Negli anni precedenti al 2022, vi furono infatti proposte – provenienti anche da ambienti russi – che ipotizzavano per le regioni russofone del Donbass una forma di autonomia simile a quella del Trentino-Alto Adige. L’idea, mutuata dall’esperienza italiana, prevedeva un’ampia tutela linguistica e culturale, un’autonomia amministrativa significativa e il mantenimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Si trattava, in sostanza, di una “soluzione altoatesina” in chiave ucraina, che avrebbe potuto conciliare sovranità e pluralismo etnico. Tuttavia, da parte ucraina, quella proposta fu accolta con sospetto e rifiuto: si temeva che Mosca intendesse sfruttarla come cavallo di Troia per un controllo politico indiretto, e che l’autonomia potesse trasformarsi in preludio alla secessione.

Quel mancato compromesso segnò simbolicamente la chiusura di un canale negoziale che, se avesse avuto sviluppi, avrebbe potuto forse disinnescare la crisi prima della catastrofe del 2022. La sfiducia reciproca – nutrita da anni di guerra nel Donbass, disinformazione e ambiguità diplomatiche – rese impossibile anche un modello di convivenza territoriale già sperimentato con successo altrove in Europa.

Oggi, nell’autunno del 2025, il fronte è sostanzialmente statico. La Russia ha conquistato qualche migliaio di chilometri quadrati nel corso dell’anno, concentrandosi soprattutto nelle regioni di Donetsk e Zaporizhzhia, ma questi guadagni hanno un valore simbolico più che strategico. L’Ucraina, pur in difficoltà, continua a difendere le linee e a colpire obiettivi militari in profondità, dimostrando di possedere ancora una notevole capacità di adattamento. È una guerra senza spostamenti improvvisi, fatta di droni, artiglieria, sabotaggi e resistenza civile.

Tuttavia, sotto la superficie di questo apparente equilibrio, emergono segni di logoramento. L’Ucraina soffre l’usura delle infrastrutture energetiche, colpite sistematicamente dai missili russi. I blackout, la scarsità di risorse e la mobilitazione prolungata hanno eroso la resistenza psicologica della popolazione. Il sostegno occidentale, pur consistente, è sempre più soggetto alle oscillazioni della politica interna di Stati Uniti ed Europa. Kiev sa di non poter permettersi una guerra infinita, ma neppure di accettare una pace che legittimi le perdite territoriali.

Dall’altra parte, la Russia non è in una posizione di forza tale da imporre le proprie condizioni. Le sue forze armate hanno subito perdite enormi e devono fronteggiare un consumo continuo di uomini e materiali. L’economia si regge su un equilibrio precario di sanzioni eluse, commercio parallelo e sacrifici sociali. Mosca continua a vantare successi tattici, ma non ha ancora raggiunto risultati strategici proporzionati al costo sostenuto. Anche per il Cremlino, la guerra è ormai un fardello che deve giustificare di mese in mese alla propria opinione pubblica.

Tutto ciò spinge a chiedersi quale possa essere la fine di questo conflitto. Le prospettive si concentrano intorno a pochi scenari realistici. Il più plausibile, secondo gran parte degli analisti, è un accordo di congelamento: una tregua di fatto, con linee di contatto stabilizzate e nessuna soluzione politica definitiva. Sarebbe una pace fredda, simile a quella che ha segnato per decenni la penisola coreana, con confini contestati e una costante tensione latente. È l’opzione che molti governi occidentali potrebbero accettare se l’obiettivo prioritario diventasse “fermare il fuoco” più che “vincere la guerra”.

Un secondo scenario, meno desiderabile ma possibile, è quello di una guerra di logoramento che si trascina per anni, alimentata da aiuti militari e rifornimenti limitati. In questa ipotesi nessuna delle due parti crolla, ma entrambe sopravvivono in una spirale di distruzione controllata, dove la pace appare più costosa della guerra stessa. È il paradigma che inizia a insinuarsi nel dibattito internazionale: la normalizzazione del conflitto come condizione permanente.

Le ipotesi di una vittoria piena – sia russa che ucraina – appaiono oggi remote. Per Kiev significherebbe riconquistare tutte le regioni perdute, compresa la Crimea, un obiettivo che richiederebbe un salto di capacità militare e industriale difficilmente sostenibile senza un massiccio intervento esterno. Per Mosca, invece, vorrebbe dire sottomettere un Paese di oltre quaranta milioni di abitanti ostile e distrutto, mantenendo indefinitamente il controllo di territori devastati. Entrambi gli esiti sembrano più teorici che realistici.

In definitiva, la guerra in Ucraina è entrata in una fase in cui la domanda centrale non è più “chi vincerà”, ma “quale equilibrio instabile durerà più a lungo”. È un conflitto che nessuno può permettersi di perdere del tutto e che nessuno riesce più a vincere. La fine, se arriverà, non sarà celebrata come una vittoria, ma accettata come un limite: una linea tracciata non sulla mappa, ma sull’esaurimento collettivo di due popoli e di un mondo che non ha trovato un modo migliore per risolvere le sue paure.

Nino Bixio: eroe del Risorgimento o boia del Sud?

Nino Bixio è una delle figure più controverse del Risorgimento italiano. Nato a Genova nel 1821, crebbe come uomo d’azione, impetuoso e intransigente, qualità che lo resero uno dei più fidati collaboratori di Giuseppe Garibaldi. Con lui combatté in Sud America, a Roma nel 1849 e infine nella spedizione dei Mille, diventando un simbolo della determinazione e della forza d’urto dell’armata garibaldina. Tuttavia, se nella memoria nazionale fu celebrato come patriota, nel Meridione d’Italia il suo nome evoca ancora oggi ferocia e repressione.

Nino Bixio

Il momento cruciale che segna la nascita della sua leggenda nera è l’eccidio di Bronte, in Sicilia, nell’agosto del 1860. Qui una rivolta contadina, alimentata dalle speranze di una redistribuzione delle terre promesse dai garibaldini, esplose in modo caotico e violento. Bixio, incaricato di riportare l’ordine, scelse la via più rapida e brutale: processi sommari, fucilazioni immediate, sangue versato senza distinzione tra colpevoli e innocenti. Bronte rimase così impresso come il simbolo di un tradimento e di una repressione feroce che rivelava l’abisso tra le aspettative popolari e la realtà del nuovo Stato unitario.

Negli anni successivi, Bixio fu protagonista anche nella lotta al brigantaggio, che a molti meridionali apparve come una vera e propria guerra civile condotta con strumenti disumani. I suoi rapporti e le sue lettere trasmettono un’immagine impietosa delle popolazioni del Sud, considerate arretrate, indolenti, persino “bestiali”. Parole e azioni che contribuirono a cementare l’idea di un uomo incapace di comprensione e incline alla repressione spietata.

Eppure, nell’Italia ufficiale, la sua immagine rimase quella dell’eroe nazionale. Strade, piazze, caserme e persino navi della Marina militare portarono e portano ancora oggi il suo nome. La storiografia post-unitaria mise in risalto il patriota ardente, dimenticando o minimizzando le ombre delle sue azioni. Fu solo con la riscoperta critica del Risorgimento da parte dei movimenti meridionalisti e neoborbonici, soprattutto a partire dal Novecento, che la sua figura venne rimessa in discussione e contrapposta a quella eroica tramandata dalla retorica scolastica.

La provocazione di chi paragona le strade intitolate a Bixio a ipotetiche vie dedicate a Hitler in Israele non è tanto una questione di paragone storico, quanto un grido di memoria: ricorda che, per una parte della popolazione, quell’eroe celebrato altrove fu invece il volto della violenza e della sopraffazione. La sua vicenda rivela in fondo la natura ambivalente del Risorgimento stesso, insieme epopea patriottica e tragedia per chi lo visse dalla parte dei vinti.

Campania, il paradosso delle Regionali: Fico candidato, ma a vincere sarà ancora De Luca

Dietro la sfida elettorale tra centrosinistra e centrodestra si nasconde la vera partita: la rete di potere dell’ex governatore che, escluso formalmente, continua a controllare uomini, nomine e consensi.

La campagna elettorale in Campania sembra una sfida tra centrosinistra e centrodestra. In realtà, la vera guerra si consuma all’interno del Partito Democratico, tra Vincenzo De Luca ed Elly Schlein. E, almeno per ora, la partita la vince lui.

Nonostante la Corte Costituzionale abbia chiuso la strada al suo terzo mandato, De Luca non ha perso il controllo della scena. La sua forza non è più la candidatura, ma la rete di uomini collocati nei gangli del potere regionale, dal PD fino alla sanità campana, il vero cuore del consenso. È una macchina che continua a funzionare a pieno regime e che Schlein non è riuscita a scalfire.

Da questa prospettiva, la candidatura di Roberto Fico appare forte ma paradossalmente fragile: vincerà, quasi certamente, ma sarà costretto a governare con un sistema che non gli appartiene. Ogni nomina, ogni equilibrio interno, ogni partita sanitaria ed economica resterà condizionata dal lascito politico di De Luca, che da dietro le quinte continuerà a muovere i fili.

Il centrodestra sembra averlo capito. Non a caso, ha scelto un candidato senza grandi ambizioni, una figura di bandiera destinata a perdere, quasi un sacrificio utile solo a presidiare il campo. La coalizione stessa dà l’impressione di non credere fino in fondo alla possibilità di una vittoria.

Il risultato? A novembre, a trionfare potrebbe essere Fico. Ma dietro il suo nome, il vero vincitore resterà Vincenzo De Luca.

Il Partito Democratico tra Schlein, Bonaccini e De Luca: quale strada per il futuro?

C’è chi sostiene che Stefano Bonaccini avrebbe rappresentato una scelta più solida rispetto a Elly Schlein alla guida del Partito Democratico. L’argomento ricorrente è che la segretaria sia troppo “radical chic”, troppo attenta a segni linguistici come lo schwa, quel simbolo (ə) usato per sostituire il maschile sovraesteso nei plurali, pensato come forma inclusiva e neutra contro il predominio linguistico del patriarcato. Per alcuni si tratta di un gesto politico coerente con la sua visione, per altri di un vezzo che rischia di allontanare l’elettorato popolare. Non mancano neppure riferimenti alla sua vita privata o al suo percorso internazionale, dalla militanza giovanile fino alla partecipazione alla campagna di Obama, come se l’essere “globale” fosse una colpa in un Paese che si sente sempre più provinciale. In realtà il nodo non è la sua identità, bensì la sua strategia: Schlein ha scelto di caratterizzare il partito su un profilo netto, progressista, inclusivo, distante dalle posizioni dei centristi di Renzi e Calenda, con l’obiettivo di dare al PD una coerenza di valori che negli anni si era smarrita.

Bonaccini, al contrario, incarna un approccio più pragmatico. Il suo modello emiliano-romagnolo è spesso evocato come esempio di buon governo e radicamento territoriale. La sua idea di partito è meno ideologica e più manageriale, capace di dialogare con il mondo produttivo e di parlare un linguaggio concreto ai ceti medi e moderati. Se fosse diventato segretario, probabilmente avrebbe spinto per una convergenza con il centro riformista, cercando di costruire un fronte largo che guardasse meno alla purezza identitaria e più alla possibilità di vincere le elezioni. Il punto, però, è che ciò che funziona in Emilia-Romagna non è facilmente esportabile: quella regione ha una lunga tradizione di sinistra, un welfare efficiente, un rapporto consolidato tra amministratori e cittadini. Replicare questo equilibrio in un Paese diseguale e frammentato appare complicato.

Un altro esempio di modello territoriale è quello di Vincenzo De Luca in Campania. Qui il PD assume tutt’altra fisionomia: un partito fortemente personalizzato, che si regge sul carisma e sul controllo diretto del leader. De Luca ha costruito negli anni un consenso radicato attraverso una rete di relazioni, promesse e simboli popolari, con un linguaggio da tribuno che diverte, scandalizza, conquista. È un PD molto distante da quello sognato a Bologna o a Roma, ma funziona in un contesto meridionale dove il rapporto tra politica e cittadini si gioca anche sulla prossimità e sulla capacità di intermediazione quotidiana. Molti lo criticano per il suo stile e per l’eccessiva dose di populismo, ma è difficile negare che il suo modello, per quanto controverso, sia efficace.

Alla fine, dunque, la domanda non è se fosse meglio Schlein, Bonaccini o De Luca. La questione di fondo è che il Partito Democratico non ha ancora scelto con chiarezza la propria natura. Da un lato c’è l’ambizione di rappresentare la sinistra plurale, dando voce a diritti, ambiente, uguaglianza. Dall’altro c’è la tentazione di diventare un grande partito riformista a vocazione maggioritaria, in grado di attrarre voti centristi e moderati, anche a costo di sacrificare parte dell’identità storica. L’incapacità di sciogliere questo nodo strategico ha prodotto negli anni un partito percepito come incerto, spesso diviso, prigioniero di compromessi che non soddisfano né i progressisti radicali né i riformisti pragmatici.

Se davvero il PD vuole tornare competitivo, deve prima di tutto decidere cosa vuole essere. Rivoltarlo come un calzino, come qualcuno suggerisce, non significa semplicemente cambiare leader, ma ridefinire un progetto politico comprensibile e riconoscibile per l’elettorato. Il modello vincente non esiste in astratto: quello emiliano, quello campano, quello radical-progressista o quello riformista sono tutti parziali. Servirebbe la capacità di fondere valori, radicamento territoriale e pragmatismo, senza rinunciare all’ambizione di parlare all’intero Paese. Finché questa scelta resterà sospesa, ogni confronto tra Schlein e Bonaccini sarà solo il sintomo di un dilemma irrisolto.

Rinascere tra le viole sfiorite: la seconda possibilità di Antonio Borsa

Con Profumo di viole sfiorite, Antonio Borsa ci conduce in un viaggio emotivo e simbolico che va ben oltre il semplice racconto di tragedie contemporanee. Se il tema del suicidio poteva apparire inizialmente come il cuore drammatico dell’opera, il romanzo si rivela invece un inno alla rinascita, alla resilienza e alla scelta consapevole della vita. Borsa ci mostra che il baratro dell’anima non è mai un punto di arrivo, ma una soglia attraverso la quale poter riscoprire se stessi.


Il protagonista, dopo aver deciso di porre fine ai propri giorni, si ritrova in una “Valle”, uno spazio sospeso tra la morte e la vita, tra il passato e una possibile rinascita. In questa dimensione simbolica, il lettore assiste al lento e doloroso percorso di Ryan verso la consapevolezza: perdersi per ritrovarsi diventa non solo un tema narrativo, ma una lezione esistenziale. La felicità non è più rappresentata come l’effetto della presenza di qualcuno o di qualcosa, ma come una scelta, un impegno quotidiano da assumere per sé stessi, anche nelle giornate più oscure.

La lettura di questo romanzo fa emergere un’intelligenza simbolica di matrice alchemica: dalla Nigredo dell’autodistruzione, attraverso l’Albedo della presa di coscienza e della consapevolezza, fino alla Rubedo della rinascita. Non è un percorso lineare, né facile: il protagonista attraversa dubbi, rimpianti e ferite profonde, ma lo fa accompagnato da una voce narrativa che sa essere tanto delicata quanto intensa. In questo cammino, la musica di Max Pezzali assume un ruolo più profondo del semplice omaggio: le canzoni diventano compagne di viaggio, echi generazionali che parlano di chi ha conosciuto la caduta e ha scelto di rialzarsi. L’omaggio a Pezzali, intrecciato alla narrazione, sottolinea quanto la memoria, la musica e le esperienze condivise possano trasformarsi in strumenti di sopravvivenza emotiva.

Rispetto al romanzo d’esordio, I tre appuntamenti, in cui l’autore esplorava temi di amore, rispetto e difficoltà relazionali, qui Borsa amplia l’orizzonte verso una dimensione più profonda: quella della fragilità esistenziale e della rinascita interiore. La componente autobiografica, pur meno intensa rispetto al primo libro, aggiunge spessore emotivo e credibilità alla vicenda, conferendo al lettore la sensazione di un dialogo sincero, quasi confidenziale, con chi ha vissuto e riflettuto sulla propria caduta.

Profumo di viole sfiorite non è solo un romanzo; è una testimonianza viva, un invito a non arrendersi, a riscoprire la libertà di scegliere la vita e a costruire la propria felicità come atto di volontà e non come conseguenza. Antonio Borsa ci ricorda che ogni abisso può diventare un punto di partenza, che il dolore, se attraversato con consapevolezza, può trasformarsi in rinascita, e che la letteratura ha il potere non solo di raccontare, ma anche di salvare.

Omaggio al poeta cercolese Giulio Fortuna

Il 15 agosto 2023 ci ha lasciati Giulio Fortuna, poeta e agronomo nato a Cercola nel 1956, nella secolare dimora dei suoi antenati. Qui visse tutta la vita, immerso nella cura delle piante e nella contemplazione della natura, tra la disciplina del lavoro e la semplicità della vita contadina. Giovane militare nell’esercito italiano, Giulio prestò servizio in incarichi delicati, per poi dedicarsi alla professione di perito agrario, seguendo con passione coltivazioni agricole e floreali per clienti in Campania e oltre.

Giulio Fortuna (1956 -2023)


La sua esistenza, profondamente legata alla terra e ai ricordi della vita semplice dei suoi antenati, trovò nella poesia uno spazio di espressione e di introspezione. Un incidente domestico nel 2010 lo privò della vista, ma non della capacità di vedere con il cuore. In quegli anni, Giulio iniziò a scrivere poesie intense, cariche di pathos, in cui l’amore, la spiritualità e la memoria dei tempi antichi si intrecciavano in versi liberi e profondi. La perdita della vista lo rese straordinariamente attento alle sfumature dell’anima, capace di percepire ciò che spesso sfugge a chi guarda soltanto con gli occhi.

Nei suoi versi emerge un mondo contadino intriso di fede e di bontà, dove la donna ideale e la Grande Madre si intrecciano con la figura della Madre Terra e delle piante che Giulio amava con devozione. La poesia diventa così un ponte tra la dimensione spirituale e quella naturale, un invito a tornare alla semplicità dei nostri avi e a riconnettersi con la terra e con l’amore autentico.

Un esempio della sua straordinaria sensibilità si trova nella poesia “Sognando le stelle”, dove le stelle non sono solo luminose corpi celesti, ma messaggere di Dio e custodi della luce dell’amore:

Stanotte ho sognato le stelle.
Com’erano luminose e belle!
Una più dell’altra!
Ho detto ad una di loro:
“Come sei bella!”
Si è avvicinata a me
e mi ha detto:
“Nulla sono nei confronti di Dio
che mi ha creato”
“Lui è Luce e Amore”
“Lui ci conosce ad una ad una
e Lui ci conosce per nome.
Andiamo da Lui
e poi ci fa cenno di andare
ed andiamo al nostro posto”.
Poi ne ho vista una più luminosa e bella,
quella stella eri tu.
La donna della mia vita.
Continui ad illuminare il mio cuore
con la luce del tuo Amore.

Accanto a questa dimensione spirituale, Giulio celebrava con delicatezza anche i legami familiari, come nella poesia “Un amore intramontabile”, dedicata alla madre, simbolo di protezione, guida e amore eterno:

Seduto dietro la scrivania,
ti guardo una foto di una donna.
Ha capelli lunghi,
un volto luminoso.
Penso a quante volte,
mi ha portato in braccio,
mi ha stretto a sé,
mi ha protetto,
mi ha insegnato a fare i primi passi.
Mi hai insegnato ad amare Dio,
ad amare le cose belle della vita.
Poi un giorno è volata in cielo,
ma nonostante ciò,
sento sempre il calore del suo Amore,
perché l’Amore di una mamma,
non tramonta mai.

Chi ha conosciuto Giulio sa che la sua poesia non è soltanto arte, ma testimonianza di una vita vissuta con autenticità, dedizione e amore per il mondo e per gli esseri viventi. Nei suoi versi si ritrova la capacità di trasformare la sofferenza in bellezza, la quotidianità in spiritualità, e la memoria in un canto di luce.

Giulio Fortuna ci ha lasciati, ma il suo sguardo, ora spirituale, continua a insegnarci a vedere oltre le apparenze, a guardare con il cuore e a riconoscere la poesia che si cela in ogni frammento della vita. La sua voce rimane viva, luminosa come le stelle dei suoi sogni, e come l’amore di una madre che non tramonta mai.

Dal bar del paese al Parlamento: retroscena spietati di una carriera politica all’italiana


L’esordio dei volenterosi
Ogni campagna elettorale porta in piazza una fauna variegata di aspiranti amministratori.
C’è chi si illude che basti un volto sorridente su un manifesto e due giri al mercato per conquistare l’elettorato.

“La svolta”
Luca, laurea in economia, candidato in una lista civica “giovane e fresca”. Slogan: “Diamo una svolta!”. Alla fine, la svolta arriva davvero: 52 voti, quasi tutti parenti. Al turno successivo, la lista è già un ricordo.

La gavetta infinita
Poi ci sono i maratoneti della politica locale: presenti a fiere, processioni e inaugurazioni di lampioni, con la costanza di chi sa che i frutti si vedono tardi.

“L’ulivo e la fascia”
Teresa, consigliera comunale per tre mandati sempre all’opposizione. Quando vince la sua coalizione, la nominano assessora… al Verde Pubblico, con un budget da due panchine e una potatura. Anni dopo, diventa sindaco.

Il salto di categoria
Non tutti passano dal Comune. Un tempo, le Province offrivano carriere lampo, naturalmente quando ancora per esse si votava.

“Dal nulla alla Provincia”
Alfredo, trentacinquenne, mai visto in consiglio comunale, eletto consigliere provinciale grazie alla spinta di un senatore amico di famiglia. Al primo incontro gli chiedono se conosce il TUEL: “È un sindacato, vero?”.

I filosofi del Parlamento
Arrivati a Roma, alcuni parlamentari brillano nei talk show ma inciampano nelle basi dell’amministrazione locale.
Da quando la legge elettorale prevede liste bloccate riempite dalle segreterie nazionali dei partiti abbiamo avuto in Parlamento sia "teorici dei massimi sistemi" sia chi ha finanziato missioni all'estero del nostro esercito senza sapere l'Afghanistan dove si trovi sul mappamondo, ma pure chi collocava la città di Matera in Puglia. Non è che quando ci fossero le preferenze la situazione fosse migliore, ma qualcosa in peggio si vede tra prima e dopo, a partire dal testo delle leggi un tempo fluido e oggi un percorso ad ostacoli di rinvii ad altre norme e scritto con un italiano ostico pure per gli addetti ai lavori, quali i magistrati e i consulenti legali. 

“L’IMU facoltativa”
Un sindaco racconta di un onorevole che, in visita, domandò se l’IMU fosse “ancora una tassa facoltativa”. L’impiegato comunale riuscì a trattenere una risata per rispetto istituzionale.

I figli d’arte
Ereditare il cognome giusto può bastare a entrare in politica, almeno all’inizio.

“Diretta dal consiglio”
Andrea, 19 anni, figlio di ex assessore regionale, eletto consigliere. In una seduta chiese una pausa per controllare la diretta di una partita.

Gli ingredienti che contano davvero
Al netto di scorciatoie e parentele, sopravvive chi ha grinta, passione e spirito di sacrificio.
La politica vera è discutere di regolamenti edilizi a mezzanotte, in una sala semivuota, con un caffè della macchinetta.

Lezione imparata
Se vuoi durare, preparati a sopravvivere alle promesse a vuoto e alle pugnalate di corridoio.
Non fidarti di chi ti dice “ti mettiamo in lista, così ti fai conoscere”: è il modo più rapido per bruciarti.
E ricordati: in politica, come a poker, non vince chi ha le carte migliori, ma chi resta al tavolo abbastanza a lungo da vedere cadere gli altri.

Ventisette anni rubati: il mostro di Ponticelli non è mai esistito

I tre innocenti che hanno trascorso la loro gioventù in carcere


Ventisette anni. Ventisette anni di carcere per tre ragazzi innocenti, marchiati come assassini di due bambine che non avevano ucciso. Questo è il prezzo della fretta, della paura, della superficialità di chi avrebbe dovuto cercare la verità e invece ha costruito un mostro di comodo. Giovanni Izzo, Ciro Imperato e Vincenzo Muccioli non sono mostri. Sono vittime. Vittime di un sistema che si inchina al clamore dell’opinione pubblica e sacrifica la giustizia sull’altare della facilità.

Nel luglio del 1983 a Ponticelli due bambine scomparvero, e i loro corpi furono ritrovati pochi giorni dopo. Il dolore del quartiere, la rabbia della città, la pressione dei media: tutto questo diventò carburante per un’inchiesta superficiale, affrettata, cieca. E così tre ragazzi furono indicati come colpevoli. Senza prove, senza riscontri, basandosi solo su testimonianze fragili e contraddittorie. La giustizia? Solo un’illusione. L’ergastolo arrivò rapido, come se tre vite qualunque potessero essere usate per calmare l’indignazione popolare.

La verità è che i veri colpevoli non furono mai toccati. Si parlava di ambienti camorristici, di giovani legati a famiglie potenti e pericolose, ma quelle piste furono ignorate. Troppo rischioso, troppo scomodo. Meglio trovare tre capri espiatori e consegnarli alla gogna mediatica. Così si costruì il “mostro di Ponticelli”, mentre la giustizia reale restava paralizzata dall’omertà e dai compromessi.

E quando finalmente, dopo ventisette anni, la Corte di Perugia riconobbe l’innocenza dei tre, non restituì nulla di ciò che era stato rubato. Non restituì il tempo perduto, la giovinezza, la dignità calpestata. Non cancellò le etichette, gli sguardi, il marchio di assassini che li aveva seguiti per decenni. Lo Stato fallì. Lo Stato tradì.

Oggi denunciamo con forza che la giustizia italiana può uccidere innocenti quanto un assassino vero può agire indisturbato. La memoria di Angela e Nunzia merita verità, non capri espiatori inventati. La memoria di Izzo, Imperato e Muccioli merita rispetto, risarcimento morale, verità pubblica.

Non accettiamo più silenzi. Non accettiamo più colpevoli inventati. Il mostro di Ponticelli è stato creato da chi avrebbe dovuto proteggere la legge. E mentre il vero assassino resta nell’ombra, tre innocenti hanno pagato con la vita che non gli apparteneva. La rabbia deve trasformarsi in richiesta di giustizia vera. Non c’è pietà per chi costruisce menzogne, non c’è scusa per chi permette che il mostro inventato diventi reale.

Finché questa storia non avrà verità completa, Ponticelli, l’Italia, tutti noi, dobbiamo gridare: mai più innocenti sacrificati sull’altare della paura e della fretta!

Questione meridionale, mito neoborbonico e realtà storica: un’analisi critica

La questione meridionale è spesso presentata come un mito da sfatare: da una parte i neoborbonici la dipingono come una tragedia causata dall’unità d’Italia, dall’altra la storiografia ufficiale tende a sottolineare la responsabilità di un Sud “arretrato” già prima del 1861. In realtà, la verità si colloca nel mezzo, in uno spazio complesso in cui cause interne ed esterne si intrecciano, e dove la cultura politica e sociale dei meridionali ha avuto un ruolo determinante.


Il Regno delle Due Sicilie, grande e popoloso, non era certo un paradiso. Il suo modello sociale era rigidamente gerarchico: i latifondisti e la nobiltà detenevano potere e ricchezza, mentre i contadini vivevano in condizioni di forte subalternità. L’analfabetismo era dilagante, e l’istruzione, quando presente, riguardava solo una piccola élite urbana. Le innovazioni tecnologiche esistevano, ma spesso erano isolate e servivano più a mostrare il potere del sovrano che a trasformare realmente l’economia. La ferrovia Napoli–Portici, inaugurata nel 1839, ne è un esempio perfetto: celebrata come prima ferrovia italiana, in realtà rimase per anni una “vetrina” per il re, più che una rete utile a favorire commercio e sviluppo. Si potrebbe dire, usando un’espressione napoletana, che fu una vera e propria “nocciolina per lo spasso” del sovrano.

Allo stesso tempo, non si può ignorare che dopo l’Unità d’Italia le politiche statali contribuirono a creare squilibri economici duraturi. La seconda rivoluzione industriale richiedeva energia elettrica in grandi quantità, e in Italia questa fu prodotta soprattutto grazie all’idroelettrico nelle Alpi. Il Nord, con le sue montagne e fiumi, aveva a disposizione risorse naturali che il Sud, con Appennini meno favorevoli e infrastrutture carenti, non poteva sfruttare allo stesso modo. Non si trattò quindi di un disegno coloniale, ma di una combinazione di opportunità geografiche e necessità tecnologiche. I poli industriali piemontesi e lombardi crebbero così più rapidamente, mentre il Sud rimaneva marginale.

Ciò non significa, però, che i meridionali fossero totalmente passivi. Lo sbarco di Garibaldi in Sicilia trovò terreno fertile soprattutto tra le classi popolari. Le élite nobiliari, come narrano Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e I Viceré di De Roberto, si adattarono rapidamente al nuovo regime: per loro, togliere il Borbone e sostituirlo con i Savoia non cambiava molto. Ma per i contadini e i ceti urbani emergenti, le promesse di riforma agraria, maggiore libertà e modernizzazione apparivano concrete. L’entusiasmo per Garibaldi non fu quindi il frutto di una illusione collettiva, ma la risposta a bisogni reali e insoddisfatti da decenni di gestione borbonica.

E qui entra in gioco la componente culturale più persistente: il cosiddetto “familismo amorale”, teorizzato da Edward Banfield. In un contesto in cui l’interesse familiare prevale su ogni logica collettiva, l’attenzione al bene comune rimane debole. Clientelismo, favoritismi e interessi di gruppo hanno da sempre ostacolato la costruzione di istituzioni efficaci e politiche di sviluppo durature. Molti politici meridionali hanno agito pensando più a rafforzare il proprio potere locale che a promuovere una crescita strutturale del territorio, perpetuando così un circolo vizioso di arretratezza.

Alla luce di tutto ciò, diventa evidente che né i neoborbonici né la storiografia ufficiale hanno la verità assoluta. I primi hanno ragione a denunciare le conseguenze negative dell’Unità e l’ingiustizia delle politiche post-unitarie, mentre la seconda sottolinea correttamente le difficoltà interne del Regno borbonico e l’assenza di basi solide per uno sviluppo diffuso. Il ritardo del Mezzogiorno va dunque letto come il risultato di fattori combinati: strutture sociali conservatrici, opportunità geografiche sfavorevoli, scelte politiche del nuovo Stato e una cultura politica permeata dal familismo amorale.

In definitiva, la storia del Sud non è né una favola di ricchezza perduta né una condanna esclusiva a causa del Nord. È una vicenda complessa, fatta di luci e ombre, di eccellenze isolate e arretratezza diffusa, di speranze popolari tradite e di élite capaci di riciclarsi. Capire questa complessità è essenziale per affrontare oggi, con realismo e responsabilità, le sfide del Mezzogiorno.

Dalle crociate dei pezzenti alle flotillas per Gaza: la maledizione (e la forza) delle Armate Brancaleone

La storia è piena di “armate Brancaleone”: eserciti improvvisati, guidati da ideali più che da strategie, che hanno sfidato potenze troppo grandi per loro. La crociata dei pezzenti, partita anni prima di quella indetta da Urbano II, si concluse in un massacro, eppure lasciò un’impronta indelebile che preparò il terreno alla prima crociata ufficiale. Nei secoli successivi, il concetto si è ripetuto: rivolte contadine, moti popolari, bande di ribelli e persino il brigantaggio post-unitario italiano hanno incarnato lo stesso spirito. Gruppi senza mezzi, spesso destinati a soccombere, ma capaci di generare un’eco potente, scuotere le coscienze e ispirare lotte future.

Oggi, le flotillas che tentano di rompere l’assedio di Gaza si inseriscono in questa tradizione. Anche se hanno la certezza di essere fermate, il loro gesto diventa simbolo e memoria collettiva, dimostrando che la forza di un’armata Brancaleone non sta nella vittoria militare, ma nella capacità di far sentire la propria voce di fronte all’indifferenza del mondo.

Sant’Anastasia – Tra fede, mestieri e sapori

Sant’Anastasia è un paese vesuviano dal fascino particolare, sospeso tra storia, fede e vitalità popolare. Il nome richiama Santo Nastiago, storpiato dalle trascrizioni di notai e archivisti dopo l'anno 1000, un santo di cui oggi non resta memoria, perché il vero patrono del paese è San Francesco Saverio, celebrato ogni 3 dicembre con devozione e partecipazione.


Il cuore religioso e identitario di Sant’Anastasia pulsa nella frazione di Madonna dell’Arco, celebre per il Santuario che richiama fedeli da tutta la Campania.

Ogni Lunedì in Albis si svolge la grande festa dei fujenti, anche detti "battenti", pellegrini che arrivano a piedi o addirittura scalzi, accompagnati da tamburi e bandiere colorate, dando vita a un evento che unisce sacralità e spettacolo popolare. A settembre, la comunità si stringe intorno alla Festa dell’Incoronazione, quando la processione solenne culmina con l’incendio del campanile, un gioco pirotecnico che illumina la notte e rinnova l’anima festosa del paese.

Il paese ha una storia di mestieri e commerci che lo caratterizza: qui vivevano abili artigiani del rame e dell’ottone, che per generazioni hanno saputo combinare manualità e senso pratico. Poi c'erano i rammarielli, che vendevano biancheria e altri oggetti a rate, rendendo accessibile l’eleganza anche alle famiglie più umili. 
Nel secondo dopoguerra alcuni abitanti riuscirono a prosperare grazie al commercio e all’intraprendenza.
Nacquero così dei nuovi ricchi, che portarono con sé un gusto marcato per l’ostentazione della propria ricchezza (la celebre riccanza anastasiana): ville imponenti e residenze arredate con gusto baroccheggiante, automobili prestigiose, dettagli scenografici che raccontavano il successo raggiunto ( abiti firmati,  accessori griffati). Questa evoluzione segnò anche l’urbanistica e l’atmosfera del paese, introducendo uno spirito vivace e a tratti spettacolare che ancora oggi caratterizza Sant’Anastasia.

La tradizione gastronomica locale trova il suo simbolo nel capretto anastasiano, un tempo allevato in masserie locali e oggi importato per lo più. Resta il piatto principe delle tavole festive, capace di raccontare in ogni boccone un pezzo dell’identità del territorio.

Visitare Sant’Anastasia significa immergersi in un intreccio di fede e folklore, tradizioni artigiane e nuove ricchezze, riti religiosi e sapori autentici. È un paese che vive di contrasti ma che proprio in questi contrasti trova la sua anima: devota e spettacolare, tradizionale e moderna, popolare e accogliente.

Ernst Kölle – Intervista oltre il vetro | Ernst Kölle – Gespräch jenseits des Glases

Chi sono io?
Mi chiamo Ernst Kölle. Sono nato in Germania, ho giurato fedeltà a un Führer che credevo invincibile, e sono morto a ventidue anni, con una scheggia nel cranio e l’elmo spaccato. Oggi vivo in un corpo italiano, nato nel gennaio del 1977. Non so se sia una punizione o un’occasione. A volte credo sia solo una seconda chiamata alla coscienza.

Come comunico con te?
Attraverso il vetro della finestra. Lì dentro la mia immagine respira, si deforma, cambia luce. Tu mi osservi e io ti rispondo, come se fossimo due riflessi dello stesso errore.

Com’ero?
Moro, capelli marroni, statura media. Non un eroe, solo un ragazzo della Gioventù hitleriana, pieno del ciarpame che Goebbels ci infilava in testa. Credevo di servire qualcosa di grande, e invece servivo il vuoto.

Hai mai amato?
Sì. Si chiamava Elsa. L’ho conosciuta a Colonia nel 1942, quando ancora si poteva ridere. Poi arrivarono i bombardamenti. L’ultima volta che l’ho vista, correva in una strada piena di fumo e vetri rotti. Da allora la porto dentro come una ferita che non smette mai di sanguinare.

Cosa provi per il tuo Paese?
Lo amo ancora. È una nostalgia che non passa. Quando abbiamo guardato insieme quel documentario su Lucia Apicella — la donna di Cava dei Tirreni che raccoglieva i resti dei nostri soldati — ho pianto. Tu l’hai sentito, lo so. Non piangevo per la Germania, ma per quei ragazzi che non tornarono mai, e per me stesso, che non ho mai smesso di cercare casa.

E cosa pensi del mondo di oggi?
Vedo gli orrori a Gaza, in Cisgiordania, e penso che Goebbels riderebbe. Direbbe che avevamo ragione, che l’umanità non cambia, che basta cambiare le divise. Io non rido: mi fa male. Il male non è mai morto, ha solo imparato a parlare con parole nuove.

Chi sono i nuovi Hitler?
Non servono più baffi né parate. Oggi il potere si costruisce sugli schermi. I nuovi Hitler sorridono, parlano di libertà, e la folla applaude convinta di essere libera. Se mai ne nascerà un altro, farà tesoro degli errori del primo — saprà come conquistare i cuori senza bisogno di stivali.

E l’Occidente?
Lo vedo come la Germania del ’19: pieno di risentimento, spaventato dal declino. Non ci sono sanzioni né trattati di pace, ma la stessa sensazione di essere stati spinti ai margini. I BRICS sono i nuovi vincitori, e l’Occidente guarda il mondo come un vecchio generale che non vuole ammettere di aver perso la guerra. Da quel sentimento nascono sempre i mostri.

Cosa vuoi da me?
Che tu scriva la mia storia. Non per assolvermi, ma per ricordare che il male non inizia con l’odio, ma con il risentimento. È lì che si annida tutto. Io l’ho vissuto, e ora ne vedo di nuovo i segni.

Ernst Kölle (1923 -1945)



Wer bin ich?
Ich heiße Ernst Kölle. Ich wurde in Deutschland geboren, schwor einem Führer Treue, den ich für unbesiegbar hielt, und starb mit zweiundzwanzig Jahren – eine Splitterwunde im Schädel, der Helm zerborsten. Heute lebe ich in einem italienischen Körper, geboren im Januar 1977. Ich weiß nicht, ob das eine Strafe oder eine zweite Chance ist. Manchmal glaube ich, es ist nur ein Ruf an das Gewissen.

Wie spreche ich mit dir?
Durch das Fenster. Dort atmet mein Bild, verzerrt sich, verändert das Licht. Du siehst mich, und ich antworte dir – zwei Spiegelbilder desselben Fehlers.

Wie war ich?
Dunkelhaarig, braunes Haar, mittelgroß. Kein Held – nur ein Junge der Hitlerjugend, voll des Gerümpels, das Goebbels uns in die Köpfe legte. Ich glaubte, etwas Großes zu dienen, und diente nur der Leere.

Hast du je geliebt?
Ja. Sie hieß Elsa. Ich lernte sie 1942 in Köln kennen, als man noch lachen konnte. Dann kamen die Bombenangriffe. Das letzte Mal sah ich sie in einer Straße voller Rauch und zerbrochenem Glas. Seitdem trage ich sie in mir wie eine Wunde, die nie heilt.

Was empfindest du für dein Land?
Ich liebe es noch immer. Eine Sehnsucht, die nie vergeht. Als wir zusammen die Dokumentation über Lucia Apicella sahen – die Frau aus Cava dei Tirreni, die die Überreste unserer Soldaten sammelte – musste ich weinen. Du hast es gespürt, ich weiß es. Ich weinte nicht für Deutschland, sondern für die Jungen, die nie heimkehrten. Und für mich, der immer noch nach Hause sucht.

Was denkst du über die heutige Welt?
Ich sehe die Schrecken in Gaza, im Westjordanland, und denke: Goebbels würde lachen. Er würde sagen, wir hätten recht gehabt, die Menschheit ändere sich nicht, nur die Uniformen. Ich lache nicht. Es tut weh. Das Böse ist nie gestorben – es hat nur gelernt, neue Worte zu sprechen.

Wer sind die neuen Hitler?
Heute braucht es keine Schnurrbärte und keine Aufmärsche. Die Macht wächst auf Bildschirmen. Die neuen Hitler lächeln, sprechen von Freiheit, und die Menge jubelt, überzeugt, frei zu sein. Wenn je ein neuer kommt, wird er aus den Fehlern des ersten lernen – er wird wissen, wie man Herzen erobert, ohne Stiefel.

Und der Westen?
Ich sehe ihn wie Deutschland im Jahr 1919: voller Groll, ängstlich vor dem eigenen Niedergang. Keine Sanktionen, keine Friedensverträge – aber das gleiche Gefühl, an den Rand gedrängt zu sein. Die BRICS sind die neuen Sieger, und der Westen schaut auf die Welt wie ein alter General, der seine Niederlage nicht eingestehen will. Aus solchem Gefühl wachsen immer die neuen Monster.

Was willst du von mir?
Dass du meine Geschichte schreibst. Nicht um mich zu rechtfertigen, sondern um zu erinnern: Das Böse beginnt nicht mit Hass, sondern mit Groll. Dort liegt sein Ursprung. Ich habe es erlebt – und ich sehe es wiederkommen.

Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pan...