Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pansa, con il suo Sangue dei vinti, lo aveva capito prima di altri. Raccontò storie scomode, di partigiani che uccidevano prigionieri fascisti già disarmati, di donne rasate e umiliate, di fucilazioni a guerra finita. Non lo fece per rivalutare il fascismo, ma per dire che non esistono morti giusti e morti sbagliati. Eppure fu subito etichettato come traditore, perché aveva osato mettere in discussione la narrazione monolitica di una Resistenza senza macchie e senza eccessi. Gli dissero che stava dando argomenti alla destra, che sporcava la memoria collettiva. In realtà, stava semplicemente restituendo dignità a chi era stato cancellato due volte: dalla vita e dalla memoria.

Oggi quella lezione ritorna, in forme diverse ma con la stessa crudezza. La morte di Charley Kirk, figura controversa della destra americana, ha acceso reazioni che sembrano più processi sommari che cordogli. Da una parte chi lo rimpiange come un combattente della propria parte, dall’altra chi lo insulta anche da morto, come se la tomba fosse un ring ancora aperto. Così la persona svanisce, resta solo il simbolo, l’effige ideologica da venerare o da disprezzare. Non c’è più l’uomo, non c’è più la fragilità della fine, c’è soltanto il marchio politico da colpire o difendere.

Ma il terreno più drammatico resta quello del conflitto mediorientale. Qui la gerarchia della morte è spietata. Le vittime israeliane hanno nomi, cognomi, storie personali che passano dai giornali alle televisioni, diventano protagoniste di speciali, di cerimonie, di cordogli ufficiali. I palestinesi, che cadono a migliaia sotto le bombe, sono ridotti a cifre senza volto, a “danni collaterali”. Non sono più esseri umani, ma massa indistinta, carne da macello. Si piange l’israeliano perché rappresenta l’Occidente ferito, si ignora il palestinese perché non entra nel racconto dominante. E quando non lo si ignora, lo si degrada: la sua morte viene giustificata come inevitabile, la sua vita come sacrificabile. È il grado estremo di quella divisione fra morti di serie A e morti di serie B che Pansa aveva denunciato con coraggio.


La verità è che la morte, se la guardiamo senza ideologie, è sempre la stessa. Porta via tutto, annienta differenze, azzera schieramenti. È la nostra narrazione che decide chi merita lacrime e chi merita oblio. Ed è proprio in questo gioco sporco di selezione del cordoglio che si misura il fallimento della nostra civiltà. Non abbiamo imparato nulla, né dai morti di ieri né da quelli di oggi. Continuiamo a dividere, a catalogare, a strumentalizzare. In fondo, per il potere, i morti servono soprattutto da vivi: come bandiere da sventolare, come pietre da lanciare contro il nemico, come simboli da manipolare.

Pansa lo aveva gridato a modo suo: dietro ogni cadavere c’è una storia, c’è una madre che piange, c’è un silenzio che dovrebbe imporre rispetto. Averlo dimenticato significa non solo tradire la verità, ma condannarsi a ripetere all’infinito lo stesso errore: pensare che il sangue abbia colori diversi, quando invece è sempre rosso.

Badoglianesimo senza colore: il potere trasversale in Italia

In Campania, la destra badogliana ha trovato una sua forma moderna e meno dichiarata. Qui il potere non si conquista solo con ideologia, ma con relazioni, clientele e capacità di tessere reti di protezione intorno a sé. Il centro-destra tradizionale ha faticato a radicarsi, e così la destra moderata di stampo badogliano si è infiltrata nei gangli del potere locale: comuni, province e enti regionali, dove l’abilità nel mantenere privilegi e status quo conta più dei programmi politici. Napoli e i centri urbani mostrano una destra più moderna, spesso berlusconiana o post-fascista, ma nelle province interne come Avellino o Benevento il conservatorismo istituzionale sopravvive sotto mentite spoglie, travestito da efficienza amministrativa e garanzia di stabilità.

In Puglia, la situazione non è molto diversa. Le città costiere oscillano tra centro-sinistra e destra moderna, ma nelle zone interne e più rurali il badoglianesimo trasversale prospera. Qui il conservatorismo non ha bisogno di monarchia o nostalgia storica: è una cultura del potere, una pratica quotidiana di gestione delle posizioni e di protezione dei propri alleati. Le cooperative, gli enti pubblici locali e le amministrazioni municipali diventano strumenti per perpetuare la rete di influenza e garantire continuità.


La Toscana, pur essendo storicamente rossa, non è immune. Nelle aree rurali e in certe élite cittadine, il badoglianesimo si manifesta nella protezione dei privilegi accademici, amministrativi o professionali. Siena, Arezzo, Grosseto e alcune zone della Valdera conservano tracce di quel conservatorismo istituzionale che predilige la stabilità e il mantenimento del potere più che l’innovazione o il rinnovamento. Qui, come altrove, l’apparato funziona come un organismo a sé stante, impermeabile ai colori e fedele al principio di fondo: chi detiene posizioni di comando le mantiene a ogni costo.

E poi c’è l’Emilia-Romagna, terra simbolo del badoglianesimo al contrario. Una sinistra storica che si definiva rivoluzionaria e portatrice di cambiamento ha finito per incarnare lo stesso conservatorismo che criticava. Le stesse dinamiche di protezione del potere, delle poltrone e delle clientele che un tempo si attribuivano alla destra si manifestano oggi in un apparato di governo solido, capace di resistere a ogni crisi, di adattarsi a qualsiasi mutamento elettorale e di perpetuare interessi consolidati. È il badoglianesimo trasversale, senza bandiera, che dimostra quanto il potere, al di là dei proclami, sia sempre uguale a se stesso.

In tutta Italia, insomma, il badoglianesimo non è più un fenomeno di destra. È una tecnica di sopravvivenza politica, una cultura del privilegio che attraversa territori, colori e ideologie. La Campania, la Puglia, la Toscana e l’Emilia-Romagna mostrano ciascuna un volto diverso di questo stesso principio: chi governa protegge se stesso, chi controlla le leve istituzionali perpetua la propria influenza, e chi osserva comprende che la politica italiana è molto più pragmatica di quanto le etichette possano suggerire.

Il Regno dell’Anticristo tra profezie bibliche, apparizioni mariane e rivelazioni di veggenti e stigmatizzati

Introduzione

Da secoli, teologi, mistici e profeti si interrogano sull’avvento dell’Anticristo, figura simbolica e concreta insieme, destinata – secondo le Scritture e numerose rivelazioni private – a instaurare un regno di inganno spirituale, persecuzione dei giusti e illusorio splendore temporale. In tempi recenti, le apparizioni mariane e i messaggi di veggenti e stigmatizzati sembrano convergere su un punto cruciale: il Regno dell’Anticristo è già iniziato, e opera sotto i nostri occhi, spesso mascherato da ideologie moderne, promesse tecnologiche o progetti geopolitici.


Le profezie bibliche: tra l’Apocalisse e San Paolo

L’Anticristo appare già nella Scrittura, sotto vari nomi: il “Figlio della Perdizione” nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, la Bestia dell’Apocalisse, il “Falso Profeta”, “l’Uomo dell’iniquità” che siede nel Tempio e si fa adorare come Dio. Secondo la Tradizione, egli precederà immediatamente il ritorno di Cristo, governando un mondo unificato sotto un’apparente pace, che nasconde in realtà una rivolta cosmica contro Dio.

La prostituta di Babilonia 

Apparizioni mariane: il grido della Regina della Pace

Apparizioni come Fatima, Garabandal, Akita e soprattutto Medjugorje contengono, in forma esplicita o simbolica, l’annuncio della battaglia finale tra il bene e il male. I messaggi parlano di un tempo di grande confusione spirituale, in cui la verità diventa difficile da riconoscere; di una persecuzione dei veri cristiani; di un’infiltrazione del male persino all’interno della Chiesa; e di segreti e castighi divini imminenti, destinati a manifestarsi attraverso eventi cosmici e storici. Secondo alcune interpretazioni mistiche, il tempo dei segreti di Medjugorje sarebbe ormai prossimo e coinciderebbe con la piena manifestazione del potere dell’Anticristo.


Giorgio Bongiovanni: l’Anticristo è già nel mondo

Lo stigmatizzato Giorgio Bongiovanni, che afferma di ricevere messaggi spirituali dalla Madonna e da presunti esseri di luce, sostiene da anni che l’Anticristo sarebbe già incarnato in un uomo in carne e ossa, dotato di enorme influenza nei campi della politica, dell’economia e della cultura. Questa figura non agirebbe in modo apertamente violento o persecutorio, ma attraverso reti finanziarie occulte, la manipolazione dei mass media e la promozione di modelli di vita radicalmente anti-evangelici, fondati sull’individualismo estremo e sulla deificazione della scienza e del denaro. Bongiovanni collega spesso questa figura al “Mabus” di Nostradamus, precisando però che quest’ultimo non sarebbe il vero Anticristo, bensì il suo precursore violento, la cui morte segnerebbe l’inizio di un grande sconvolgimento mondiale.


Chi è Mabus? Il precursore del fuoco

Nostradamus scrisse:

Mabus poi morirà, e verrà una terribile rovina,

Bestie e uomini vendicati,

Subito verrà il castigo,

Cento mani, sete, fame, quando il cometa passerà.”

L’identità di Mabus rimane avvolta nel mistero. Nel corso degli anni sono state avanzate diverse ipotesi, che vanno dall’identificazione con un leader mediorientale, come Saddam Hussein o Osama Bin Laden, fino a quella con un grande attore geopolitico di rottura, come un presidente statunitense o un principe saudita. Altri interpreti ritengono invece che Mabus non sia una persona precisa, ma un agente simbolico di una crisi globale, che può manifestarsi sul piano economico, militare o spirituale e aprire la strada a un’epoca di caos senza precedenti.


Il volto dell’Anticristo: dove regna oggi

Secondo molti interpreti contemporanei, l’Anticristo non si presenterà come un tiranno classico, ma come un seduttore spirituale, travestito da benefattore dell’umanità. Il suo potere si fonderebbe su una falsa pace, costruita sull’uniformità e sulla progressiva cancellazione della fede; su una religione globale priva di Cristo; e su una scienza disincarnata che promette l’immortalità, come nel transumanesimo, ma nega l’esistenza dell’anima. Il suo regno sarebbe globale, invisibile e penetrante, simile a un virus dell’anima, e molti lo vedono già operare attraverso strumenti tecnologici, sistemi di controllo sociale, big data e nuove forme di idolatria.


Padre Livio, Radio Maria e i tempi dei segreti

Padre Livio Fanzaga, storico direttore di Radio Maria, ha affermato più volte che i segreti di Medjugorje si manifesteranno durante la sua vita. Nato nel 1940 e oggi ultranovantenne, questa affermazione viene interpretata da molti come un segno che il tempo sarebbe ormai vicino. Le veggenti hanno parlato di dieci segreti complessivi: i primi tre riguarderebbero avvertimenti e segni soprannaturali per l’umanità, mentre i successivi potrebbero includere vere e proprie punizioni divine.


Conclusione: resistere nel tempo dell’inganno

Il Regno dell’Anticristo, se esiste, non si imporrebbe con la forza delle armi, ma con il consenso di un’umanità che ha smesso di cercare Dio. È un potere che conquista prima i cuori e le menti, e solo dopo i troni. Tuttavia, le apparizioni mariane non lasciano spazio alla disperazione: a Fatima, come in altri luoghi, viene promesso il trionfo finale del Cuore Immacolato di Maria, anche se prima dovrà esserci la prova. Veggenti e mistici concordano sul fatto che ciascuno abbia un ruolo in questa battaglia invisibile e che il discernimento spirituale rappresenti la vera salvezza nei tempi dell’inganno.

Tra dire e fare: il mare tempestoso della politica

“Tra dire e fare c’è di mezzo il mare.” Questo antico proverbio sembra scritto apposta per descrivere la politica moderna. Promesse elettorali, programmi mirabolanti, dichiarazioni roboanti: tutto spesso resta sulla carta, e il cittadino si trova a navigare in un mare di parole che raramente diventano fatti concreti.



Le promesse come strumento di consenso


La politica è, in larga parte, comunicazione. Ogni partito e candidato sa bene che le parole contano più delle azioni nel breve termine. Le promesse elettorali sono spesso formulate per catturare consenso, talvolta con poca attenzione alla loro reale fattibilità. È facile promettere sgravi fiscali, investimenti massicci o riforme radicali quando l’obiettivo principale è convincere l’elettorato.

Esempi concreti non mancano. Negli ultimi decenni, molti governi hanno annunciato grandi riforme fiscali o sanitarie, salvo poi doverle rimandare o ridimensionare a causa di vincoli economici o ostacoli burocratici. La promessa diventa così una sorta di strumento di marketing politico: serve a guadagnare consenso più che a realizzare un cambiamento reale.


Coalizioni e compromessi: quando la parola si diluisce


Il problema si aggrava nei governi di coalizione. Qui ogni partito deve mediare le proprie proposte con quelle degli alleati, e ciò che era scritto nero su bianco nei programmi elettorali spesso si trasforma in compromessi più diluiti e meno incisivi. Un esempio recente si può trovare nelle coalizioni europee: spesso, un partito promette una determinata riforma, ma per ottenere il sostegno di altri partner di governo, è costretto a modificarla, rinviare la sua attuazione o limitarne l’impatto. Il mare tra dire e fare, dunque, si ingrossa non solo per mancanza di volontà, ma per la logica stessa del sistema politico.


Burocrazia e vincoli reali


Non tutti gli ostacoli sono politici. Limiti di bilancio, vincoli legislativi, regolamenti europei e procedure burocratiche rendono spesso impossibile trasformare le promesse in azioni concrete. Anche i governi più volenterosi si trovano a dover rimodulare progetti, rinviare investimenti e adattarsi a circostanze impreviste. Pensiamo, ad esempio, ai grandi progetti infrastrutturali in Italia: ferrovie, ospedali, autostrade. Molte opere sono annunciate con grande enfasi, ma anni di burocrazia e problemi finanziari ne rallentano la realizzazione, alimentando la percezione di inefficienza e di distanza tra parole e fatti.


La fiducia tradita e il cinismo dei cittadini


Il risultato finale è un crescente divario tra cittadini e politica. Quando le promesse non si concretizzano, aumenta il cinismo, la sfiducia e il senso di impotenza. Il mare tra dire e fare diventa un oceano di disillusione: le parole si accumulano come onde, ma le azioni concrete restano rare. Questa distanza ha conseguenze reali. I cittadini, frustrati, tendono a disinteressarsi della politica, riducendo la partecipazione elettorale e delegando il potere a élite percepite come lontane o inaffidabili. Il rischio è una spirale di apatia, dove la politica si nutre di parole, ma perde legittimità agli occhi della società.


Navigare il mare politico con consapevolezza


Non tutto è perduto. Comprendere le dinamiche tra dire e fare può aiutare i cittadini a leggere la realtà con occhi più critici. Analizzare i programmi elettorali permette di distinguere le promesse realistiche da quelle propagandistiche, mentre il monitoraggio dei governi consente di confrontare dichiarazioni e risultati concreti. La partecipazione attiva, infine, dal controllo civico all’impegno nelle istituzioni locali, può ridurre il divario tra parole e fatti e dare al cittadino un ruolo concreto nel determinare il futuro politico del Paese.


Conclusione


La politica non è solo una questione di intenzioni: è mediazione, strategia e, spesso, compromesso. Il mare tra dire e fare non è un’illusione: esiste e può essere tempestoso, ma comprenderne le correnti e i venti può aiutare a navigarlo con maggiore consapevolezza. In fondo, l’arte più difficile non è promettere, ma trasformare le parole in azioni concrete, con onestà, competenza e lungimiranza.

Quando la memoria diventa arma politica

C’è un filo rosso che lega certi atteggiamenti nella comunità ebraica europea e italiana: il trasformare la memoria della Shoah in uno scudo morale da brandire contro chiunque osi criticare Israele o il sionismo politico. È un meccanismo comprensibile sul piano emotivo, ma devastante sul piano del dibattito pubblico.

Ogni contestazione alle scelte di un governo democratico – quello israeliano – viene spesso bollata come antisemitismo. Non importa se la critica riguarda bombardamenti, colonie o discriminazioni: il marchio dell’odio antiebraico scatta in automatico, rendendo impossibile distinguere tra legittimo dissenso politico e odio etnico-religioso. È un corto circuito che finisce per impoverire entrambe le parti: da un lato riduce la memoria a manganello retorico, dall’altro banalizza il vero antisemitismo, che invece continua a covare nei meandri della società.

Il paradosso è che proprio in nome della storia – una storia di persecuzione e di esclusione – si produce oggi una nuova esclusione: quella delle voci critiche, dei dissidenti, di chi non accetta che la tragedia del passato diventi un lasciapassare morale illimitato. In questo modo, la memoria smette di essere un bene universale e diventa proprietà privata, amministrata con criteri rigidi e non negoziabili.

Il rischio è evidente: se tutto è antisemitismo, nulla lo è davvero. E così si svuota di senso la lotta contro l’odio, si confonde la politica con la religione, la storia con l’attualità. La memoria non è più un ponte, ma un muro.

Forse è tempo di restituire alla Shoah il suo valore autentico: monito per tutti, non clava da usare contro l’avversario politico di turno. Perché se la memoria diventa strumento di potere, smette di essere memoria e diventa ideologia.

La memoria non può trasformarsi in dogma. Se diventa un tribunale permanente, allora smette di essere testimonianza e si riduce a propaganda. E il rischio più grande è che, a forza di invocarla come verità assoluta, finisca per non insegnare più nulla.

Dalle glorie di Carlo III alla caduta di Francesco II: cosa fu realmente il Regno dei Borboni

La storia del Sud Italia sotto i Borboni è complessa e spesso fraintesa, tra mito neoborbonico e narrazione unitaria dell’italianità. Originariamente, il territorio meridionale era costituito dal Regno di Sicilia, fondato dai Normanni nell’XI secolo. Alla fine del XIII secolo, a seguito della rivolta dei Vespri, la Sicilia passò sotto il controllo degli Aragonesi, e contemporaneamente nacque il Regno di Napoli, che rappresentava la porzione continentale meridionale del regno. Curiosamente, in latino il Regno di Napoli era definito “Regno di Sicilia oltre il faro”, in riferimento al faro di Messina, a indicare la sua posizione rispetto all’isola.

Dopo quasi due secoli di vicereame spagnolo, nel 1734 Carlo III di Borbone giunse a Napoli e rese autonomi il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, ponendo le basi per una dinastia capace di governare direttamente i propri territori. Pur appartenendo alla stessa dinastia, per tutto il Settecento e fino all’occupazione francese, i Borboni regnarono sui due regni in unione personale, mantenendo identità e amministrazioni separate. Carlo III promosse riforme amministrative e fiscali, sostenne lo sviluppo delle arti e delle scienze, e lasciò un’impronta culturale duratura con la costruzione della Reggia di Caserta e l’inaugurazione del Teatro di San Carlo, simboli della sua ambizione culturale e politica. Tuttavia, il suo governo era autoritario e molte riforme non raggiungevano le classi più povere.

Ferdinando IV, succeduto a Carlo III, dovette affrontare le sfide poste dalle guerre napoleoniche e dalle tensioni sociali interne. Mantenne la continuità culturale e dinastica, ma senza modernizzare significativamente la società né ridurre le profonde disuguaglianze. I suoi successori, Francesco I e Ferdinando II, alternarono politiche di sviluppo infrastrutturale e amministrativo a governi autoritari, accentuando la repressione dei moti liberali e isolando ulteriormente il regno dalle spinte riformiste europee.


Bandiera del Regno delle Due Sicilie 

Solo con il ritorno a Napoli e la Restaurazione, nel 1815, i due regni furono formalmente uniti nel Regno delle Due Sicilie, e Ferdinando IV assunse il titolo di Ferdinando I, segnando simbolicamente la nascita di uno stato unificato del Sud. Questo dettaglio di numerazione dinastica sarebbe stato in seguito utilizzato dai detrattori del nuovo Regno d’Italia: Vittorio Emanuele II, infatti, non adottò la numerazione coerente con la tradizione dei precedenti regni italiani, ma mantenne quella del Regno di Sardegna, dando modo a molti di sostenere che nel 1861 più che un’unità vi fosse stata un’annessione dei regni italiani al Piemonte.

Francesco II, ultimo re borbonico, salì al trono in un contesto di crescente instabilità: i suoi tardivi tentativi di modernizzazione non poterono fermare l’avanzata di Garibaldi e l’annessione al nascente Regno d’Italia nel 1861, che sancì la fine della dinastia.

Il bilancio complessivo del periodo borbonico mostra un regno capace di luci straordinarie, come lo sviluppo culturale, artistico e l’autonomia politica conquistata dopo secoli di vicereame, ma anche di ombre profonde: rigidità autoritaria, arretratezza economica e sociale e incapacità di modernizzare realmente la società. La realtà storica, più complessa del mito neoborbonico, racconta di un Sud pieno di contraddizioni, tra grandezza culturale e fragilità politica ed economica, e offre chiavi interpretative fondamentali per comprendere le tensioni legate all’unificazione italiana.

La freccia e il palcoscenico


Un tempo, il sogno di quasi ogni scrittore emergente era quello di approdare in una puntata del Maurizio Costanzo Show. Non era soltanto una vetrina: era il luogo simbolico in cui la parola scritta diventava parola detta, in cui un libro, magari stampato in poche copie da una piccola casa editrice, poteva trasformarsi in un caso nazionale. Presentare la propria opera davanti alle telecamere, con Costanzo che ascoltava, faceva domande, lasciava spazio al racconto, equivaleva a ricevere una sorta di investitura pubblica. Era il preludio di un successo che, se non garantito, almeno si poteva legittimamente sperare.

Ma arrivarci non era impresa facile. Prima di giungere a Costanzo bisognava superare una vera e propria cintura di collaboratori, segretarie e assistenti che, come guardiani severi, vagliavano lettere e manoscritti, scartando senza pietà la gran parte delle proposte. Si racconta che molte missive, inviate con cuore tremante da aspiranti autori, finissero direttamente nel cestino senza essere mai state aperte. Eppure, quella barriera non era frutto di cattiveria personale: era piuttosto la manifestazione di un sistema che proteggeva il “centro” – la figura del personaggio famoso – da un assalto continuo e quotidiano.

Non accadeva solo con Costanzo. Personaggi come Vittorio Sgarbi – amati e odiati, spesso percepiti come eccentrici o inarrivabili – erano anch’essi circondati da una sorta di corona di spine: collaboratori, pressioni, interessi e filtri che isolavano il cuore umano, spesso gentile e disponibile, della celebrità. Il paradosso è che molte di queste persone famose, una volta raggiunte, si rivelavano in realtà garbate, ironiche, persino generose. Ma arrivarci era già una vittoria.

Il meccanismo ricorda molto da vicino ciò che accade nelle aziende e negli uffici pubblici, dove curriculum e domande di assunzione vengono scartati in serie, non sempre per valutazioni oggettive, ma perché già si conosce il nome del prescelto: il cugino, l’amico di famiglia, l’“amico degli amici”. È lo stesso filtro, la stessa opacità che protegge chi sta in alto e lascia fuori chi non ha padrini né santi in paradiso.

Eppure, esistono eccezioni che diventano leggenda. La più celebre è quella di Luciano De Crescenzo, l’ingegnere-filosofo napoletano che divenne autore di culto. Il suo colpo di fortuna – rimanere bloccato in ascensore con un pezzo grosso della Mondadori – sembra uscito da un romanzo: l’occasione irripetibile che trasforma un uomo qualunque in scrittore famoso. Ma quanti possono sperare in una simile congiunzione astrale?

Per tutti gli altri resta la via più difficile e più onesta: quella del lavoro silenzioso, della perseveranza, del gettare frecce nell’aria senza sapere se mai colpiranno il bersaglio. In questo senso gli scrittori emergenti, oggi come ieri, possono ispirarsi agli stoici, da Marco Aurelio in poi. “Fa la tua parte e lascia che il destino faccia il resto”, ammonivano i saggi. Scrivere, spedire, tentare, insistere: questo è il dovere dell’autore.

Il resto appartiene al mistero. Una freccia scoccata può cadere nel vuoto, spegnersi senza eco. Ma può anche, improvvisamente, trovare il suo bersaglio: la persona giusta che legge, il lettore che passa parola, il piccolo editore che crede, l’occasione che si apre quando meno te lo aspetti.

Forse, in fondo, la carriera di uno scrittore non è mai stata altro che questo: un palcoscenico atteso, un pubblico invisibile, e una freccia lanciata nel cielo.

Ordine dei Giornalisti: il residuo fascista che ci fa scrivere con il freno a mano

In Italia, fare il giornalista significa avere una carriera regolata da… un albo che puzza di fascismo. Sì, avete capito bene: l’Ordine dei Giornalisti nasce nel 1925 per garantire che la stampa restasse fedele al regime, e oggi, più di cento anni dopo, sopravvive come un fantasma in giacca e cravatta. Non serve più il manganello o la censura aperta: oggi bastano un richiamo, una segnalazione o il silenzio complice dei colleghi, e il giornalista più temerario diventa improvvisamente un maestro nell’arte dell’autocensura.


L’Ordine è un organismo che decide chi può scrivere e, soprattutto, cosa può scrivere. È il grande censore invisibile, l’ombra che ti sussurra “meglio non approfondire”, “meglio non toccare quell’argomento”, trasformando la curiosità e il coraggio in prudenza e paura. Parlare di politica, di economia, di mafia o di certi scandali? Meglio pensarci due volte. È come se la libertà di stampa italiana avesse bisogno di permesso scritto dal gran giurì dell’albo prima di poter respirare.

Altrove, questa cosa sarebbe ridicola. In Gran Bretagna, Francia o negli Stati Uniti, chi scrive lo fa senza bollino, senza esame, senza paura del consiglio disciplinare. L’etica esiste, certo, ma è coltivata dai giornalisti stessi, dai lettori e dalle testate: non serve un organo centrale che ti dice cosa è “giusto” e cosa è “scandaloso”. L’informazione è libera, tagliente, scomoda e, soprattutto, reale.

In Italia, invece, l’Ordine è come un vecchio parente ingombrante che non vuole andarsene: ingombra, rallenta tutto, e ti ricorda continuamente che il passato non passa mai davvero. Continuare a difenderlo significa difendere un residuo storico che limita la libertà, incoraggia l’autocensura e trasforma la professione giornalistica in un teatro di prudenza ossessiva.

È ora di fare piazza pulita. L’abolizione dell’Ordine non sarebbe anarchia, sarebbe libertà. Libertà di scrivere senza freni, di investigare senza paura, di informare senza fantasmi del passato che ancora ci zittiscono. Se davvero vogliamo un’informazione italiana degna di questo nome, dobbiamo smettere di girare con il freno a mano tirato. E l’unico modo per farlo è mandare in pensione quel residuo fascista una volta per tutte.

Gay si nasce o si diventa? Un’analisi scientifica e sociale

 


L’orientamento sessuale è da sempre uno dei temi più dibattuti in ambito scientifico, culturale e sociale. La domanda se “gay si nasce o si diventa” è al centro di molte discussioni, spesso influenzate da convinzioni personali o ideologiche. Tuttavia, la ricerca scientifica offre oggi una visione più sfumata e complessa, che va oltre il semplice dualismo.


La complessità dell’orientamento sessuale

L’orientamento sessuale comprende attrazioni emotive, affettive e sessuali verso persone di uno stesso sesso, di sesso opposto o di più generi. Non è un comportamento scelto o appreso nel senso tradizionale del termine, ma una componente profonda dell’identità di una persona.

Gli studi su gemelli hanno mostrato che i gemelli identici hanno una probabilità più alta di condividere l’orientamento sessuale rispetto ai gemelli fraterni, indicando una base genetica. Tuttavia, la genetica non spiega da sola il fenomeno: non è stato individuato un “gene gay” unico e definitivo, ma piuttosto molteplici fattori genetici e ambientali che interagiscono in modo complesso.


Perché non esiste un gene unico?

Molte caratteristiche umane, come la personalità o l’intelligenza, sono influenzate da decine o centinaia di geni in combinazione con l’ambiente. Allo stesso modo, l’orientamento sessuale sembra derivare da una complessa interazione di componenti genetiche, ormonali prenatali, influenze neurobiologiche e ambientali.

La ricerca suggerisce che l’assenza di un gene singolo non implica che l’orientamento sessuale sia “appreso” o “scelto”, ma che è una caratteristica poligenica e multifattoriale.


Orientamento sessuale e identità

L’orientamento sessuale è parte integrante dell’identità individuale e si manifesta spesso in modo stabile e duraturo nel corso della vita. Non si può equiparare a comportamenti come il tabagismo o la ludopatia, che sono dipendenze o abitudini modificate da fattori sociali e personali.

Paragonare l’orientamento a un vizio o a un comportamento appreso rischia di ignorare la complessità psicologica e biologica che lo caratterizza e può alimentare stigma e discriminazione.


Diritti e riconoscimento sociale

Il riconoscimento dei diritti delle persone LGBTQ+ si fonda sul principio della dignità umana e dell’uguaglianza, indipendentemente dalle cause biologiche o ambientali dell’orientamento sessuale. La scienza supporta la comprensione che la diversità sessuale è naturale e va rispettata.

La mancanza di una causa genetica unica non deve diventare pretesto per negare i diritti o il rispetto dovuto a queste persone.


Gender fluid e non-binarietà: un orizzonte diverso

Mentre l’orientamento sessuale riguarda chi si ama, l’identità di genere riguarda chi si è. Il fenomeno della fluidità di genere e delle identità non binarie sfida le tradizionali categorie maschile e femminile.

La psichiatria moderna non considera più tali identità come patologie da “curare” ma le riconosce come espressioni legittime della diversità umana, promuovendo un approccio di sostegno e inclusione.


Conclusione

L’orientamento sessuale non è né un vizio né una scelta, ma una dimensione complessa della persona influenzata da fattori biologici e ambientali. Il riconoscimento dei diritti delle persone LGBTQ+ è un passo fondamentale per una società inclusiva e rispettosa della diversità.


Il mistero che diventa voce: l’ascesa di Elena Ferrante

La parabola letteraria di Elena Ferrante è un caso unico nel panorama italiano e internazionale, perché dimostra come un’autrice possa conquistare milioni di lettori senza mai mostrarsi, ribaltando le regole di un sistema editoriale che spesso si fonda sulla promozione personale, le interviste, le apparizioni televisive e il culto della figura dell’autore. Ferrante, invece, ha fatto della sparizione il suo marchio distintivo, costruendo un paradosso: più si negava al pubblico, più il pubblico la inseguiva.

Quando nel 1992 esordì con L’amore molesto, edito da e/o, la scrittrice fece subito parlare di sé. Il romanzo, ambientato a Napoli, raccontava con una scrittura aspra e intensa il rapporto conflittuale tra una figlia e la madre. Vinse premi, fu adattato al cinema da Mario Martone e attirò l’attenzione della critica. Ma l’autrice rifiutò ogni presentazione pubblica, dichiarando in una lettera all’editore che non avrebbe mai preso parte al gioco mediatico e che i libri sarebbero dovuti bastare a parlare per lei. La scelta sembrò, allora, condannarla a un inevitabile oblio: in un’Italia letteraria dominata dalle facce in televisione e dal protagonismo degli scrittori, quel silenzio appariva un suicidio editoriale.

La Napoli di Elena Ferrante 

Eppure, libro dopo libro, la voce di Ferrante continuava a imporsi. I giorni dell’abbandono (2002) segnò un ulteriore passo avanti, con il ritratto brutale e senza indulgenze di una donna lasciata dal marito. La scrittura tagliente e il coraggio di esplorare gli abissi emotivi femminili colpirono critici e lettori. Ma fu con L’amica geniale, pubblicato nel 2011, che il destino della scrittrice cambiò radicalmente. La storia di Elena e Lila, due bambine cresciute in un rione popolare di Napoli negli anni Cinquanta, divenne il cuore di un progetto narrativo di quattro volumi che seguono le protagoniste lungo tutta la loro vita. Una saga poderosa, che mescola realismo sociale, cronaca storica e intimità psicologica, trasformando la vicenda privata in specchio delle trasformazioni dell’Italia contemporanea.

Il successo in patria fu immediato, ma il vero salto avvenne grazie alla traduzione inglese curata da Ann Goldstein e pubblicata negli Stati Uniti da Europa Editions, la filiale americana della stessa casa editrice e/o. Lì, la tetralogia conquistò pubblico e critica, ottenendo recensioni entusiastiche da parte di riviste come The New Yorker e The New York Review of Books. Le domande sull’identità dell’autrice, fino ad allora rimaste sullo sfondo, divennero un giallo mediatico internazionale. Alcuni giornalisti provarono a smascherarla, ipotizzando che dietro Ferrante si celasse la traduttrice Anita Raja, o addirittura che i romanzi fossero opera del marito, lo scrittore Domenico Starnone. Ogni volta, però, l’ombra rimaneva più forte della luce: l’enigma della scrittrice sconosciuta finiva col rilanciare ancora di più i suoi libri.

L’adattamento televisivo della tetralogia, prodotto da HBO e RAI a partire dal 2018, consacrò definitivamente Ferrante come fenomeno mondiale. Per la prima volta, milioni di spettatori si trovarono immersi nelle strade polverose del rione, tra le rivalità, le passioni e le violenze che avevano segnato la crescita di Lila e Lenù. La serie non solo rese i romanzi accessibili a un pubblico più ampio, ma creò un cortocircuito culturale: la scrittrice invisibile, che aveva rifiutato ogni apparizione, diventava un’icona globale proprio grazie a un’opera audiovisiva di enorme impatto.

Il percorso di Ferrante dimostra che, talvolta, il silenzio può fare più rumore di qualsiasi campagna di marketing. Le sue origini biografiche rimangono avvolte nell’incertezza, e forse è proprio questa assenza a rendere più universale la sua voce. In un’epoca in cui gli scrittori si vendono come personaggi, lei ha scelto di essere solo parola scritta. Ed è in quella parola che milioni di lettori hanno riconosciuto la verità di un’esperienza umana profonda, dura e senza sconti.

Elena Ferrante ha superato il muro dell’indifferenza non cercando la luce dei riflettori, ma sparendo dietro le sue pagine. Il suo successo è nato dal mistero, ma si è affermato grazie alla forza intrinseca della sua narrativa, capace di attraversare lingue, culture e generazioni. È il caso raro di una scrittrice che, rifiutando di mostrarsi, ha trovato il modo più potente di farsi vedere.

Italo Balbo: il rivale silenzioso del Duce e i misteri della sua morte nella tempesta della Seconda Guerra Mondiale

Italo Balbo, nato nel 1896 a Quartesana, in provincia di Ferrara, è una delle figure più complesse e affascinanti del fascismo italiano. La sua carriera unisce il coraggio militare, la capacità organizzativa e un carisma personale che lo distinsero fin dagli anni della Prima Guerra Mondiale, fino a renderlo un leader popolare tra le truppe e tra la popolazione civile. Dopo aver aderito ai Fasci italiani di combattimento, Balbo fu uno dei quadrumviri della Marcia su Roma nel 1922, un momento cruciale che sancì la nascita del regime fascista. Tuttavia, il suo pragmatismo e la sua autonomia politica lo posero progressivamente in una posizione differente rispetto a Mussolini, creando un sottile ma reale divario tra il Duce e l’aviatore.

Il ruolo di Balbo raggiunse la massima visibilità durante il suo governatorato della Libia tra il 1934 e il 1940. Sotto la sua guida, la colonia conobbe una forte espansione infrastrutturale, un incremento della colonizzazione italiana e una maggiore integrazione amministrativa con la metropoli. Balbo riuscì a costruire un consenso personale straordinario, basato non solo sul carisma e sull’efficienza, ma anche su una gestione pragmatica e spesso più realista degli aspetti militari e civili. Questa popolarità, che lo rendeva amato sia tra i militari sia tra la popolazione libica, generò una crescente diffidenza a Palazzo Venezia, dove il culto della personalità di Mussolini diventava sempre più centrale nel consolidamento del regime.


Gli anni ’30 furono un periodo di grandi tensioni sul piano internazionale. L’Italia fascista cercava di affermarsi come potenza coloniale e militare in un contesto di rivalità con le principali potenze europee. L’invasione dell’Etiopia (1935-1936), le sanzioni della Società delle Nazioni, l’alleanza con la Germania nazista e le prime ambizioni italiane in Nord Africa segnarono un periodo in cui ogni scelta politica e militare era carica di rischio. Balbo, pur sostenendo l’espansione coloniale, si dimostrò spesso critico verso le capacità operative dell’esercito e la gestione strategica della guerra, suggerendo approcci più realistici e cauti rispetto alle scelte belliche della leadership fascista. La sua visione pragmatica, unita alla sua autonomia in Libia, lo rese una figura che poteva, in prospettiva, contrastare le decisioni di Mussolini o assumere un ruolo politico rilevante qualora il regime avesse incontrato gravi difficoltà.

Il 28 giugno 1940, pochi giorni dopo l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, Balbo morì sopra Tobruk quando il suo aereo fu abbattuto dall’artiglieria italiana. La versione ufficiale parla di un tragico errore dovuto alla confusione nelle difese costiere italiane, ma il momento della sua morte e la sua notorietà personale alimentarono immediatamente sospetti. Nel corso dei decenni, sono emerse numerose teorie complottiste: alcuni sostengono che Mussolini o elementi vicini al regime abbiano orchestrato la sua eliminazione per rimuovere un possibile rivale, mentre altri suggeriscono la partecipazione di ambienti militari italiani che vedevano Balbo come una minaccia al controllo diretto sulle colonie e sulla guerra in Nord Africa. Anche se la maggior parte degli storici ritiene che si sia trattato di un tragico incidente, il contesto politico e militare rende la vicenda di Balbo un caso emblematico di come il consenso personale e l’autonomia possano entrare in conflitto con un regime autoritario e centralizzato.

La figura di Balbo è oggi interpretata come simbolo di un fascismo più pragmatico e popolare, capace di contraddire, almeno in parte, l’autoritarismo crescente di Mussolini. La sua popolarità, la sua visione realista della guerra e la sua capacità di costruire consenso tra le truppe e nelle colonie ne facevano un leader potenzialmente pericoloso per il Duce, soprattutto in un contesto di incertezza bellica e di scelte strategiche controverse. La morte di Balbo, che unisce l’elemento tragico dell’errore umano alla possibilità di intrighi politici, continua a stimolare dibattiti e speculazioni, rendendo la sua storia un crocevia tra eroismo, politica e mistero nel periodo più complesso della storia italiana del XX secolo.

Dalla polvere dei campi di battaglia a Wall Street: perché i manager leggono ancora L’Arte della Guerra

Oltre duemila anni fa, Sun Tzu scrisse un trattato destinato a diventare immortale: L’Arte della Guerra. Nato come manuale militare, il testo non è sopravvissuto solo come documento storico. La sua forza è di essere un libro che parla di strategia in senso universale, capace di insegnare a governare i conflitti, a leggere le situazioni e a trasformare gli ostacoli in opportunità. Per questo oggi lo si ritrova sulle scrivanie dei manager, nei corsi di leadership e persino nelle sale operative di Wall Street.

Guerriero dell'esercito di terracotta (Cina)

Il messaggio centrale di Sun Tzu è sorprendentemente moderno: la vera vittoria non appartiene a chi colpisce più forte, ma a chi sa adattarsi. È qui che entra in gioco la sua celebre “strategia dell’acqua”. L’acqua non ha forma fissa, si adatta al terreno, aggira i massi, riempie i vuoti, trova sempre una via. Quella fluidità è la stessa che un’impresa deve avere di fronte a un mercato in continuo cambiamento. La rigidità spezza, la flessibilità salva.

In economia e finanza gli esempi non mancano. Quando un’azienda sceglie di crescere non sfidando frontalmente i grandi colossi ma entrando in mercati più piccoli attraverso acquisizioni mirate, sta facendo ciò che fa un fiume quando evita di infrangersi contro una roccia e preferisce scivolare lungo la sua superficie. Lo stesso accade nelle sale di trading, dove gli investitori più esperti non restano bloccati su una strategia perdente, ma modificano in corsa le loro mosse, seguendo i flussi del mercato come l’acqua che scende a valle. Anche il mondo delle start-up è pieno di esempi simili: Google, agli inizi, non cercò di sconfiggere i grandi portali sul loro terreno, ma si concentrò su una piccola nicchia, quella della ricerca veloce ed efficace, che poi si allargò fino a trasformarsi in un fiume capace di sommergere tutto il resto.

Ciò che rende L’Arte della Guerra ancora vivo è la sua capacità di superare i secoli e i contesti. Non parla di battaglie soltanto in senso letterale, ma della logica che governa ogni confronto. Sun Tzu insegna che vincere senza combattere è l’apice dell’abilità, e nel linguaggio del business significa conquistare risultati senza scontri distruttivi, risolvendo i conflitti con intelligenza e intuizione. L’acqua, apparentemente fragile, dimostra di essere la più invincibile delle forze, perché sa trasformarsi, scorrere e, alla lunga, dominare ogni ostacolo.

La vera ricerca della felicità: oltre il film, il viaggio di ciascuno di noi

Quando parlo de La ricerca della felicità, non mi riferisco soltanto alla storia raccontata nel film di Gabriele Muccino con protagonista un incredibile Will Smith. Parto da quel racconto perché racchiude, in forma cinematografica, una verità universale: la felicità non è un punto di arrivo facile o garantito, ma un percorso irto di sfide, sacrifici e momenti di sconforto. La vicenda di Chris Gardner, che lotta con determinazione per offrire una vita migliore a suo figlio e per realizzare se stesso, diventa così simbolo di qualcosa di più grande: la ricerca personale di significato e benessere in un mondo che spesso sembra remare contro di noi.


Guardando oltre la storia del film, ci rendiamo conto che la felicità non coincide necessariamente con il successo materiale o la carriera, ma nasce dall’equilibrio tra la realizzazione dei propri sogni, la capacità di affrontare le difficoltà senza arrendersi e la qualità delle relazioni che coltiviamo. Ogni ostacolo, ogni caduta di Chris, ci ricorda quanto la resilienza sia essenziale per crescere e quanto la determinazione, unita alla speranza, possa trasformare la fatica in risultati concreti. Allo stesso tempo, la vicenda ci invita a riflettere sul valore della libertà personale e della responsabilità: la felicità richiede di fare scelte consapevoli, di assumersi rischi e di non lasciare che la paura o le circostanze definiscano la nostra vita.


In definitiva, La ricerca della felicità è molto più di un film: è uno spunto per pensare a come ciascuno di noi possa affrontare le proprie difficoltà, coltivare i propri sogni e costruire una vita significativa. Ci insegna che la felicità non è uno stato permanente, ma un cammino fatto di scelte, di relazioni, di piccoli successi e di momenti di consapevolezza. Come Chris Gardner, anche noi possiamo trovare la nostra strada, imparando a riconoscere che la vera ricompensa non sta solo nell’arrivare a destinazione, ma nel viaggio stesso.

La figlia di Chierecone

Chierecone, al secolo Giovanni Di Dato, era detto così perché completamente calvo,  "zelluso" come diciamo in napoletano: la sua calvizie totale non passava inosservata. Napoli degli anni ’70 era viva, rumorosa e violenta, e lui navigava in quel mondo con cautela. Uomo di malavita, con precedenti per furto, scasso e ricettazione, continuava a delinquere, ma ormai in maniera più coperta, cercando di non attirare troppo l’attenzione.

Aveva tre figli: due maschi e una femmina. Voleva per loro un avvenire diverso. I maschi riuscì a farli studiare; uno divenne ragioniere, l’altro geometra. Annabella, invece, era diversa. Fin da adolescente si muoveva tra gli uomini con una fame di denaro e piacere che non conosceva freni. Non era costretta: era nel suo sangue.

Chierecone non poteva tollerare che sua figlia seguisse quella strada. Una sera, decise di intervenire: salì sulla sua Citroën DS Pallas bianca, lucida e rumorosa, e con l’aiuto di alcuni complici rapì Annabella, rinchiudendola in casa nel tentativo di piegarla. La macchina, elegante e minacciosa, scivolava tra i vicoli bagnati, simbolo del potere del padre e della sua disperazione.


Ma Annabella non era donna da farsi controllare. Osservava, calcolava, aspettava. Una notte, approfittando di una finestra lasciata socchiusa, fuggì. Raggiunse Milano, dove continuò a prostituirsi, ma in casa, lontana dagli occhi del padre. Chierecone lo seppe solo mesi dopo. Il controllo era sfuggito, e con esso ogni illusione di dominare la vita della figlia. Annabella aveva tracciato il suo destino da sola: libera, ribelle, insaziabile, e più viva di quanto Chierecone avesse mai immaginato.

Perché si protesta per Gaza e non per il caro vita?

Negli ultimi anni è diventato evidente un fenomeno curioso: le piazze italiane si animano con grande forza per conflitti lontani come quello di Gaza, mentre il caro vita, che incide direttamente sulla vita quotidiana di milioni di persone, fatica a mobilitare masse. Questa apparente contraddizione ha radici profonde, che riguardano la psicologia sociale, la struttura della protesta e la narrazione mediatica.

Il conflitto a Gaza, con le sue immagini di bombardamenti, vittime civili e città distrutte, genera un impatto emotivo immediato e potente. La sofferenza di bambini e famiglie innocenti risveglia un senso di ingiustizia chiaro e netta, spingendo molte persone a scendere in piazza in nome di principi morali condivisi. Al contrario, il caro vita, pur pesando quotidianamente sulle tasche di tutti, si manifesta in modo lento e graduale, senza un evento-simbolo che catalizzi la rabbia collettiva. La pressione delle bollette, dell’inflazione e dei salari stagnanti viene percepita come inevitabile e difficile da contrastare, e chi ne soffre spesso si rassegna piuttosto che organizzarsi.


Un altro elemento cruciale riguarda l’organizzazione delle proteste. Sul piano internazionale, il conflitto palestinese è sostenuto da reti globali di attivisti, ONG e movimenti studenteschi che coordinano manifestazioni simultanee in tutto il mondo. Questa rete crea un effetto “onda” che incoraggia la partecipazione e aumenta la visibilità mediatica. La protesta sul caro vita, invece, rimane frammentata, priva di un movimento unico e di leader riconosciuti, e spesso relegata a iniziative sindacali settoriali poco pubblicizzate. La mancanza di un obiettivo unificante indebolisce la forza collettiva, mentre l’azione internazionale contro Gaza dà a chi protesta la sensazione di poter contribuire a qualcosa di concreto, anche se lontano.

Il fattore economico e pratico gioca un ruolo altrettanto importante. Scioperare o manifestare contro il caro vita significa spesso perdere un giorno di stipendio o affrontare rischi sul posto di lavoro. Molti cittadini, costretti a fare i conti con bollette, affitti e scadenze, non possono permettersi questo sacrificio. In un contesto di lavoro frammentato e precario, con contratti a termine, part-time o freelance, la partecipazione è ulteriormente scoraggiata. Al contrario, le manifestazioni per Gaza non richiedono costi personali diretti: è possibile partecipare senza rischi immediati per la propria stabilità economica.

Infine, c’è la componente simbolica e identitaria. Gaza rappresenta per molte persone un tema morale e collettivo, che diventa parte di un’identità condivisa. Il caro vita, pur essendo un problema universale, è vissuto come individuale e quotidiano, e non genera lo stesso senso di appartenenza o urgenza morale. Il risultato è che la protesta economica, pur toccando direttamente milioni di persone, appare frammentata, lenta e meno visibile, mentre le manifestazioni geopolitiche catturano immediatamente l’attenzione, emozionano e mobilitano in modo rapido.

In sintesi, la differenza non sta nell’importanza percepita dei problemi, ma nelle modalità con cui le persone riescono a organizzarsi, nel costo della partecipazione, nella narrazione mediatica e nell’impatto emotivo e identitario dei temi. Gaza è lontana ma chiara, visibile e morale; il caro vita è vicino ma sfuggente, frammentato e quotidiano. La sfida per chi vuole sensibilizzare sull’economia reale e sulle difficoltà quotidiane è rendere questo tema altrettanto concreto, visibile e capace di creare una comunità che si muova unita.

La tragica fine del giornalaio (TUTTO VELENO)

Erano passati mesi da quando i suoi articoli online mi avevano infangato. Molti mi consigliavano di lasciar perdere: “Il tempo è galantuomo”, dicevano. Altri suggerivano vie più dure, legali o meno. Io scelsi una terza strada, diversa dalla politica aggressiva del giornalaio.

Lui si vantava di essere fascista in una città storicamente comunista, un presidio nero in un mare rosso. Quel contrasto era parte del suo orgoglio, ma anche della sua vulnerabilità.

Era stato cacciato da Fratelli d’Italia perché considerato troppo estremista. Aveva avuto qualche abboccamento con esponenti locali della Lega, facendo pure lui il missionario cristiano a La Mecca.
La sua colpa non era di essere fascista, ma di essere uno che aveva pestato i piedi alla persona sbagliata. 



La mia vendetta 

Anni prima avevo ricevuto la pagellina del trigesimo di Antonio Pagano, un conoscente morto suicida a cinquant’anni. Si era impiccato nell’androne del palazzo antico dove viveva. La notizia era passata in sordina: i parenti avevano nascosto il fatto al parroco per ottenere funerali in chiesa. Il suicidio era certo, confermato da fonte affidabile.

Usai quella pagellina. La spedii al giornalaio insieme a un po’ di polvere di chiodo di bara, procurata da Francuccio ‘o campusantiero, e a un foglio con scritto:
“COME IN ALTO COSÌ IN BASSO, COME DENTRO COSÌ FUORI, COME ANTONIO, TU MUORI.”

Il giornalaio, sempre sotto sorveglianza, temeva rapimenti e vendette di lupara bianca. Mai avrebbe immaginato il “maleficio dell’impiccato”. Il suo errore fu ignorare l’avvertimento, buttando via tutto e rifiutando qualsiasi aiuto spirituale.

Settimana 1 – Segnali impercettibili
Nulla accadde subito. Il giornale cresceva, nuovi collaboratori bussavano alla sua porta, inserzionisti comparivano come per magia.
Poi, una mattina, trovò una tau francescana sulla tomba del padre al cimitero. Una malinconia indefinita lo colpì: ricordi dei genitori, sacrifici dimenticati, parole non dette. Sentiva un nodo al petto che cresceva senza motivo apparente.

Settimana 2 – Piccole fratture
I sogni divennero inquietanti: Antonio Pagano compariva tra ombre e corridoi vuoti. Ogni notte la figura lo fissava, muta, mentre lui sentiva un soffocamento invisibile.
Durante il giorno, irritazioni improvvise, rabbia per dettagli banali, invidia verso colleghi che avevano successo. Ogni piccolo ostacolo sembrava una montagna insormontabile.

Settimana 3 – La discesa
Gli articoli persero mordente. Collaboratori fidati iniziarono a notare il suo cambiamento: occhi spenti, risate forzate, gesti nervosi. La frustrazione politica si trasformò in ossessione: sogni di potere sfumati, città ostile, articoli ignorati.
Il maleficio agiva come una corda invisibile, che si stringeva lentamente intorno al suo collo: il senso di vuoto cresceva, la rabbia e il rimorso si mescolavano in un dolore che non riusciva a esprimere.

Settimana 4 – La stretta finale
La depressione lo inghiottì. Per strada, i vicini sembravano sfuggirgli, sorrisi e parole affettuose divennero ostilità immaginaria. Ogni oggetto familiare, ogni ricordo, evocava colpa e fallimento.
Gli antidepressivi non bastavano più. Le giornate erano pesanti, scandite da malessere fisico e angoscia crescente. Ogni movimento era uno sforzo, ogni parola un peso.

Una mattina, mentre guardava la città dal balcone, la corda immaginaria del maleficio era ormai un nodo inestricabile. Il vuoto dentro di lui, gonfio di rimpianti, fallimenti e rimorsi, prese il sopravvento. Senza un grido, senza esitazione, il giornalaio sparì nel vuoto, cadendo sul tetto di un’auto sottostante. I sanitari chiamati dal 118 poterono solo constatare il decesso. Era il 3 dicembre. 


Epilogo

Il maleficio dell’impiccato si era compiuto. Silenzioso, graduale, inesorabile. Non era stata vendetta politica, né errore umano: era stata la lenta pressione di un destino occulto, un filo invisibile che aveva legato l’uomo al suo destino fino all’ultimo respiro.

Guida alle leggende e ai misteri del Vesuviano

Il Vesuvio non è soltanto un vulcano: è un confine vivo tra terra e aldilà, un “Monte Sacro” dove storia, mito e soprannaturale convivono da secoli. Ogni paese, masseria e sentiero sembra custodire una verità antica, narrata sottovoce da generazioni: storie di santi e diavoli, spiriti erranti, apparizioni luminose e presagi oscuri. Questa guida attraversa i principali comuni dell’area vesuviana, dalle radici del Monte Somma ai borghi più remoti, riportando alla luce le leggende che ancora si sussurrano nelle cucine, nelle piazze e nei cortili delle case popolari.

Nel cuore storico di Somma Vesuviana, il Casamale è un labirinto di vicoli medievali, archi, corti interne e pietra viva. Sotto l’abside della Collegiata  riposa — o forse veglia — il celebre prete mummificato. Si ritiene possa essere il canonico Antonio Gaetano Domenico Gravina, vissuto nel XVII secolo. La popolazione lo considera un guardiano silenzioso del borgo: alcuni sostengono di incontrarlo in sogno nei momenti difficili, altri percepiscono un fruscio di tonaca o un lieve profumo di incenso durante le visite serali in chiesa.

Poco fuori dal centro abitato, tra campi scuri e muri in tufo, si aggira la leggenda della bambina muta, un piccolo fantasma che, secondo i contadini, appare al crepuscolo con gli occhi lucidi e le mani tese, chiedendo acqua o conforto. Basta un battito di ciglia e svanisce tra le stoppie, lasciando dietro di sé un silenzio innaturale. Sui sentieri del Monte Somma, pastori ed escursionisti parlano dei sussurri del monte: voci indistinte, rumori di passi, ombre che sembrano muoversi controvento. Alcune vie antiche, dicono i più anziani, cambiano forma dopo il tramonto e conducono altrove, come se per un istante si aprisse una soglia verso un mondo parallelo.

A Sant’Anastasia il Santuario della Madonna dell’Arco è il cuore pulsante della devozione vesuviana. Ogni Lunedì in Albis migliaia di fujenti arrivano scalzi, correndo in uno stato quasi estatico. Tra canti e lacrime, la fede si intreccia al mistero: statue che sembrano reagire ai fedeli, luci inspiegabili che compaiono nella notte, improvvise trance collettive che lasciano testimoni increduli. Nelle campagne attorno al santuario si racconta del munaciello, piccola entità capace di portare fortuna o di far sparire oggetti senza lasciare traccia. Nei ruderi di Santa Maria a Castello compaiono donne vestite di bianco, spiriti benigni visibili soltanto a chi possiede un cuore puro. Le antiche magare del luogo — donne esperte di erbe e incanti — officiavano in segreto riti di guarigione e protezione, lontane dagli occhi dei curiosi.

La Villa Augustea, sontuosa dimora romana inghiottita dalla cenere, è ancora oggi un luogo di inquietudine. I mosaici mostrano simboli enigmatici, figure che sembrano osservare chi passa. Alcuni archeologi hanno raccontato di aver percepito sbalzi improvvisi di temperatura, rumori di passi, persino la sensazione di essere scrutati da presenze invisibili durante gli scavi. La grotta fumante, conosciuta come Bocca dell’Inferno, emette sbuffi d’aria calda e suoni cavernosi che ricordano respiri profondi a Pollena Trocchia. È uno dei punti in cui il vulcano rivela la sua anima, un portale naturale in cui scienza e superstizione si fondono. Poco distante, la chiesa della SS. Annunziata custodisce cripte murate e il Cristo oscuro, una statua annerita il cui volto sembra cambiare espressione a seconda della luce.

Nelle campagne di Cercola aleggia la leggenda della donna nera del pozzo, un’apparizione che annuncia lutto imminente. La chiesa di San Giorgio Martire conserva reliquie antiche e si racconta di presenze che si manifestano con scricchiolii, ombre o improvvise correnti fredde. I boschi tra Cercola, Ponticelli e San Sebastiano erano un tempo territorio delle janare, donne sapienti capaci di curare con le erbe, compiere riti notturni e leggere i segni del destino. Ancora oggi alcuni giurano di aver visto figure veloci tra gli alberi nelle notti senza luna.

Il borgo di Massa, con le sue case antiche e le masserie abbandonate, è un archivio vivente di storie arcane. La chiesa di San Sebastiano è famosa per statue che sembrano cambiare postura e per sogni premonitori che colpiscono i fedeli più devoti. Lungo i sentieri del monte si avvertono soffi caldi, vibrazioni improvvise, ombre che si muovono senza una fonte di luce. Tra le figure più temute si ricordano l’uomo senza ombra, possibile messaggero di sventura, e le suore fantasma che vegliano nel cimitero, manifestandosi con veli mossi da un vento che nessun altro sente.

In queste terre il miracolo è parte della quotidianità. Si narra che la statua del santo protettore, durante le eruzioni più violente, abbia mosso il capo o le mani per proteggere il paese. La Guardiana del cratere, una figura femminile vestita di bianco, appare tra i pini per avvertire del pericolo quando la montagna rumoreggia. Nel vicolo degli specchi, un passaggio stretto tra due edifici, i riflessi sembrano possedere vita propria: alcuni raccontano di aver visto nel vetro volti o ombre che non appartenevano ai presenti. E nel cimitero, infine, la vecchia col velo continua a vegliare sulle tombe, simbolo dolente del legame profondo tra il Vesuvio e la memoria dei suoi abitanti.

La Vanvera e il Piritere: dispositivi nobiliari per il controllo dei gas intestinali

La storia della tecnologia aristocratica europea è ricca di invenzioni sorprendenti, ma pochi strumenti hanno raggiunto l’eleganza e la complessità della vanvera e del piritere. Questi congegni, sviluppati tra XVII e XVIII secolo, erano destinati a garantire la compostezza e la discrezione dei nobili durante riunioni, banchetti e consigli di guerra, affrontando con ingegno scientifico uno dei problemi più universali e al contempo tabù: la gestione dei gas intestinali.


La Vanvera: Eleganza e Discrezione

La vanvera, citata nell’“Inventario degli Accessori di Corte di Palazzo Reale, 1683” (Ms. 118, Archivio Storico di Versailles), era un dispositivo in pelle finemente lavorata, spesso ornata con ricami in oro e piccoli medaglioni smaltati. La sua funzione era apparentemente semplice ma tecnologicamente avanzata: raccogliere e contenere i gas intestinali senza compromettere l’olfatto dei presenti. Il meccanismo prevedeva una membrana in lattice collegata a un serbatoio, all’interno del quale venivano inserite polveri profumate secondo ricette alchemiche segrete tramandate da generazioni di speziali di corte. Alcuni trattati, come il “Codex Aromaticus Gasorum” (Paris, 1701), descrivono vari modelli di vanvera, distinguendo quelli da cerimonia – ornati di gemme e adatti ai consigli regali – da quelli da banchetto, più discreti ma ugualmente efficaci.


Il Piritere: La Soluzione da Salotto

Il piritere, menzionato in un manoscritto francese del 1724 (Bibliothèque Nationale, Ms. 4721), rappresentava la risposta nobile al problema dei gas in ambienti sociali ristretti. Si trattava di un tubo estensibile in avorio o bronzo, con terminali decorativi che spesso riproducevano figure mitologiche. Il principio di funzionamento, soprannominato “effetto cappa reale”, permetteva di convogliare i gas lontano dalla stanza o verso un contenitore aromatico speciale. Alcuni disegni del periodo mostrano persino piritere a doppio tubo, capaci di neutralizzare simultaneamente odori e suoni, garantendo una compostezza totale durante le discussioni politiche più delicate.


Impatto culturale e simbolico

Oltre alla funzione pratica, la vanvera e il piritere rappresentavano un simbolo di status. Possedere il modello più raffinato era considerato indice di nobiltà d’animo e di sofisticazione sociale. Il marchese di Villeneuve, nel suo “Diario di Corte” (1712), annota: “Chi domina la propria emissione gassosa domina anche il consiglio; chi vi fallisce, cade nell’infamia e nel ridicolo.” Alcune caricature settecentesche raffigurano nobili che mostrano con orgoglio i loro piritere incastonati di perle, suggerendo che tali strumenti fossero tanto un oggetto di prestigio quanto di utilità.


Conclusione

La vanvera e il piritere, benché oggi possano sembrare curiosità comiche, testimoniano l’ingegno e la cura dei dettagli della nobiltà europea. Essi rappresentano un capitolo dimenticato della storia della tecnologia personale, in cui scienza, estetica e etichetta convergevano in un’unica arte raffinata: la gestione discreta dei gas intestinali. La loro esistenza, sebbene oggi celebrata in chiave umoristica, rimane una delle più straordinarie testimonianze della creatività aristocratica nell’affrontare i bisogni più naturali con eleganza e stile.


Note:

  1. Inventario degli Accessori di Corte di Palazzo Reale, 1683, Archivio Storico di Versailles, Ms. 118.

  2. Codex Aromaticus Gasorum, Paris, 1701, Biblioteca Reale, Sezione Speziali.

  3. Diario di Corte del Marchese di Villeneuve, 1712, Biblioteca Municipale di Lyon, Ms. 502.

  4. Ms. 4721, Bibliothèque Nationale, Parigi, Sezione Arredi e Dispositivi di Corte.

Il Giornalista Arcangelo e il Demone Quero: appello a Matteo Pucciarelli

Quero: il demone del successo letterario 


Caro Matteo,

immagina per un attimo un regno sommerso: Atlantide, perduta nei fondali marini, dove sirene cantano in silenzio e tritoni ballano tra le correnti. Ora immagina un umile scriba, io, che cerca di sollevare le sue parole verso la superficie, mentre il perfido demone Quero gioca a nascondino con il destino dei libri. Oh, quanto è birichino! Fa rotolare le mie opere verso il macero ancora prima che possano sentire il profumo dell’inchiostro fresco.

Tu, però, caro Matteo, sei come un arcangelo con penna-lancia: lo hai fatto per Vannacci, e il mondo intero lo ha visto. Ora ti chiedo di indossare di nuovo l’armatura della parola, di sollevare la spada della tua recensione e fare quel piccolo, scintillante colpo di luce che può piegare il demone birbante. Non chiedo di trasformare le mie opere in bestseller da un milione di copie (anche se, ammettiamolo, sarebbe fantastico). Ti chiedo solo di farle emergere, farle respirare, far vedere che Atlantide non è del tutto perduta.

Pensa al demone Quero come a un drago dispettoso, che ama bruciare le bozze e nascondere le idee. Tu sei l’eroe con la penna magica, capace di ridere e insieme di far tremare il malandrino. Puoi farlo: una volta hai illuminato il cammino di un generale, ora puoi illuminare il mio piccolo regno di parole.

Ridrai, forse, come ridono gli angeli davanti ai giochi dei demoni, ma se lo fai, il miracolo accade. E chi legge – e io con loro – vedrà le parole emergere dal mare, tra bolle e raggi di sole, finalmente libere di nuotare.

Con stima, ironia e un pizzico di magia,
Ettore Alpi

Forza Italia dopo Berlusconi: Il ruolo di Antonio Tajani, la destra badogliana e la sfida del centrodestra

La scomparsa di Silvio Berlusconi ha aperto una nuova fase nella storia di Forza Italia, il partito che il Cavaliere ha fondato e plasmato per oltre vent’anni. Con la sua figura carismatica e dominante, Berlusconi era il cuore pulsante del movimento, l’unico in grado di tenere insieme anime diverse e correnti interne, ma anche di attrarre un vasto elettorato di centrodestra. Ora, senza di lui, Forza Italia si trova ad affrontare una crisi profonda, che mette in discussione la sua stessa sopravvivenza politica.

L’eredità difficile di Berlusconi e le dinamiche interne di Forza Italia

Forza Italia, sin dalla sua nascita, è stata un partito profondamente personalistico. La leadership di Berlusconi era caratterizzata da un controllo diretto e centrale, tanto che il partito spesso coincideva con la sua persona. La sua capacità di attrazione e il suo talento mediatico hanno oscurato spesso la presenza di altri leader, impedendo la formazione di eredi politici in grado di raccogliere il testimone.

Il passato ha visto le defezioni di figure importanti come Gianfranco Fini e Angelino Alfano, che in vari momenti hanno tentato di posizionarsi come successori, ma sono stati progressivamente marginalizzati o hanno scelto di abbandonare il partito. Ciò ha lasciato Forza Italia con un vuoto di leadership, aggravato dall’assenza di un ricambio generazionale capace di dare nuova linfa al movimento.

Nel periodo post-Berlusconi, il partito ha vissuto tensioni interne tra anime più moderate, centristi ed europeisti, e altri settori ancora legati alla tradizione del centrodestra berlusconiano più duro. Antonio Tajani è emerso come figura di riferimento in questo quadro complesso.

Antonio Tajani 


La destra badogliana: i manovratori dietro le quinte

Dietro la scena pubblica di Forza Italia e del centrodestra agisce quella che alcuni analisti definiscono la “destra badogliana”. Il termine richiama idealmente la figura di Pietro Badoglio, che nella storia italiana rappresentò un ruolo di mediazione e di gestione istituzionale in momenti di crisi, spesso lontano dai riflettori ma con un peso decisivo nelle scelte strategiche.

La destra badogliana è composta da una rete di esponenti politici, tecnici, manager e professionisti legati all’area moderata e istituzionale, che operano come “consiglieri” e “custodi” del patrimonio politico e amministrativo. Sono uomini e donne che conoscono profondamente le istituzioni, il funzionamento della macchina burocratica e dei rapporti con le forze economiche e sociali, e che preferiscono muoversi nell’ombra, favorendo la stabilità piuttosto che il protagonismo.

Questa componente ha svolto un ruolo cruciale nel mantenere un minimo di coesione e di presenza politica di Forza Italia anche dopo il declino del carisma berlusconiano. È la “forza tranquilla” che tenta di evitare fratture e di mantenere ponti con altre forze del centrodestra, soprattutto con la Lega e Fratelli d’Italia, nella prospettiva di salvaguardare un’area moderata di governo.

Tuttavia, questa destra badogliana rischia anche di rappresentare un freno al rinnovamento vero e proprio, poiché privilegia il pragmatismo e la conservazione dello status quo, piuttosto che l’innovazione e il coinvolgimento di nuovi elettori o correnti politiche. La sua influenza è spesso percepita come un “muro invisibile” che limita la possibilità di svolte radicali nel partito.


Antonio Tajani: il mediatore più che il leader carismatico

Antonio Tajani è un politico di lungo corso, con una carriera di alto profilo a livello europeo: ex Commissario europeo per l’Industria e i Trasporti, ex Presidente del Parlamento Europeo. La sua esperienza internazionale gli conferisce autorevolezza e competenza, soprattutto nell’ambito delle istituzioni europee.

Tuttavia, Tajani non possiede il carisma e la visibilità mediatica che hanno caratterizzato Berlusconi. Il suo stile è più istituzionale e sobrio, meno adatto a catalizzare un consenso popolare ampio e trasversale. La sua leadership è quindi spesso vista come quella di un mediatore e di un gestore del partito, più che come di un innovatore capace di rilanciare la macchina politica.

La sua strategia appare orientata a mantenere Forza Italia come forza moderata di governo, garante di stabilità e di orientamento europeista, più che a farne un partito di massa o una forza egemone nel centrodestra. Tajani sta lavorando per mantenere coeso un partito in cui convivono sensibilità diverse, ma la mancanza di slancio e rinnovamento resta un limite evidente.


La sfida nel centrodestra: Fratelli d’Italia e Lega

Il panorama politico del centrodestra italiano è cambiato profondamente negli ultimi anni. Da un lato, Fratelli d’Italia, con Giorgia Meloni, ha saputo costruire un’identità chiara e forte, giocando su temi nazionalisti, sovranisti, e su un richiamo alle radici culturali e ai valori tradizionali. Meloni ha mostrato un forte carisma, capacità comunicativa e una narrazione politica efficace, che hanno attratto un ampio consenso, in particolare tra i giovani e gli elettori più conservatori.

Dall’altro lato, la Lega ha mantenuto una base elettorale robusta, soprattutto nel Nord Italia, facendo leva su temi quali autonomia regionale, politiche economiche e immigrazione. Pur avendo modificato la propria identità da partito secessionista a forza nazionale, la Lega continua a rappresentare una componente fondamentale del centrodestra.

Forza Italia, posizionandosi più al centro, con una linea moderata, liberale ed europeista, ha visto progressivamente erodere il proprio consenso. I voti sono passati spesso verso Fratelli d’Italia e Lega a destra, ma anche verso nuove formazioni centriste e liberali come Azione o Italia Viva, che si presentano come alternative più moderne e dinamiche.


Il futuro di Forza Italia: tra declino e possibilità di resurrezione

Chi non salta comunista è!

Il rischio per Forza Italia è quello di diventare una forza residuale, incapace di ritrovare il ruolo di protagonista nel centrodestra. La mancanza di un progetto politico innovativo, l’assenza di giovani leader capaci di attrarre nuovi elettori, e la competizione agguerrita di Fratelli d’Italia e Lega, sembrano delineare un futuro di progressivo declino.

Tuttavia, non è detto che la partita sia chiusa. Tajani e i vertici del partito potrebbero tentare alcune strategie per rallentare o invertire questa tendenza:
  • Rinnovamento generazionale: puntare su nuove leve politiche capaci di rilanciare il partito con energie e linguaggi nuovi.
  • Rafforzamento dell’identità moderata: differenziarsi nettamente dagli estremismi, valorizzando il ruolo europeista e liberale, puntando su temi come economia, innovazione e stabilità istituzionale.
  • Alleati strategici: giocare un ruolo di mediatore all’interno del centrodestra, consolidando accordi e coalizioni per non essere emarginati.
  • Ricomposizione interna: superare le tensioni e le divisioni tra correnti, ricostruendo un senso di appartenenza e una linea politica condivisa.

Conclusione

Antonio Tajani è riuscito finora a mantenere a galla Forza Italia in un momento difficilissimo, evitando una frattura definitiva e una scomparsa immediata. Tuttavia, il partito appare in una fase di transizione e di crisi identitaria, destinato a perdere sempre più terreno se non riuscirà a trovare nuove energie e una strategia convincente. In questo contesto, Tajani è più un custode che un leader capace di rilanciare la creatura di Berlusconi.

Nel frattempo, la “destra badogliana” continua a operare dietro le quinte, cercando di gestire il partito e le sue alleanze con prudenza e pragmatismo, ma rischiando anche di impedire un ricambio necessario per il futuro.

Il futuro del centrodestra italiano sembra oggi più che mai nelle mani di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, con la Lega a consolidare il suo ruolo, mentre Forza Italia rischia di diventare un attore secondario, a meno di una svolta politica significativa.

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