Perché si protesta per Gaza e non per il caro vita?

Negli ultimi anni è diventato evidente un fenomeno curioso: le piazze italiane si animano con grande forza per conflitti lontani come quello di Gaza, mentre il caro vita, che incide direttamente sulla vita quotidiana di milioni di persone, fatica a mobilitare masse. Questa apparente contraddizione ha radici profonde, che riguardano la psicologia sociale, la struttura della protesta e la narrazione mediatica.

Il conflitto a Gaza, con le sue immagini di bombardamenti, vittime civili e città distrutte, genera un impatto emotivo immediato e potente. La sofferenza di bambini e famiglie innocenti risveglia un senso di ingiustizia chiaro e netta, spingendo molte persone a scendere in piazza in nome di principi morali condivisi. Al contrario, il caro vita, pur pesando quotidianamente sulle tasche di tutti, si manifesta in modo lento e graduale, senza un evento-simbolo che catalizzi la rabbia collettiva. La pressione delle bollette, dell’inflazione e dei salari stagnanti viene percepita come inevitabile e difficile da contrastare, e chi ne soffre spesso si rassegna piuttosto che organizzarsi.


Un altro elemento cruciale riguarda l’organizzazione delle proteste. Sul piano internazionale, il conflitto palestinese è sostenuto da reti globali di attivisti, ONG e movimenti studenteschi che coordinano manifestazioni simultanee in tutto il mondo. Questa rete crea un effetto “onda” che incoraggia la partecipazione e aumenta la visibilità mediatica. La protesta sul caro vita, invece, rimane frammentata, priva di un movimento unico e di leader riconosciuti, e spesso relegata a iniziative sindacali settoriali poco pubblicizzate. La mancanza di un obiettivo unificante indebolisce la forza collettiva, mentre l’azione internazionale contro Gaza dà a chi protesta la sensazione di poter contribuire a qualcosa di concreto, anche se lontano.

Il fattore economico e pratico gioca un ruolo altrettanto importante. Scioperare o manifestare contro il caro vita significa spesso perdere un giorno di stipendio o affrontare rischi sul posto di lavoro. Molti cittadini, costretti a fare i conti con bollette, affitti e scadenze, non possono permettersi questo sacrificio. In un contesto di lavoro frammentato e precario, con contratti a termine, part-time o freelance, la partecipazione è ulteriormente scoraggiata. Al contrario, le manifestazioni per Gaza non richiedono costi personali diretti: è possibile partecipare senza rischi immediati per la propria stabilità economica.

Infine, c’è la componente simbolica e identitaria. Gaza rappresenta per molte persone un tema morale e collettivo, che diventa parte di un’identità condivisa. Il caro vita, pur essendo un problema universale, è vissuto come individuale e quotidiano, e non genera lo stesso senso di appartenenza o urgenza morale. Il risultato è che la protesta economica, pur toccando direttamente milioni di persone, appare frammentata, lenta e meno visibile, mentre le manifestazioni geopolitiche catturano immediatamente l’attenzione, emozionano e mobilitano in modo rapido.

In sintesi, la differenza non sta nell’importanza percepita dei problemi, ma nelle modalità con cui le persone riescono a organizzarsi, nel costo della partecipazione, nella narrazione mediatica e nell’impatto emotivo e identitario dei temi. Gaza è lontana ma chiara, visibile e morale; il caro vita è vicino ma sfuggente, frammentato e quotidiano. La sfida per chi vuole sensibilizzare sull’economia reale e sulle difficoltà quotidiane è rendere questo tema altrettanto concreto, visibile e capace di creare una comunità che si muova unita.

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