C’è un filo rosso che lega certi atteggiamenti nella comunità ebraica europea e italiana: il trasformare la memoria della Shoah in uno scudo morale da brandire contro chiunque osi criticare Israele o il sionismo politico. È un meccanismo comprensibile sul piano emotivo, ma devastante sul piano del dibattito pubblico.
Ogni contestazione alle scelte di un governo democratico – quello israeliano – viene spesso bollata come antisemitismo. Non importa se la critica riguarda bombardamenti, colonie o discriminazioni: il marchio dell’odio antiebraico scatta in automatico, rendendo impossibile distinguere tra legittimo dissenso politico e odio etnico-religioso. È un corto circuito che finisce per impoverire entrambe le parti: da un lato riduce la memoria a manganello retorico, dall’altro banalizza il vero antisemitismo, che invece continua a covare nei meandri della società.
Il paradosso è che proprio in nome della storia – una storia di persecuzione e di esclusione – si produce oggi una nuova esclusione: quella delle voci critiche, dei dissidenti, di chi non accetta che la tragedia del passato diventi un lasciapassare morale illimitato. In questo modo, la memoria smette di essere un bene universale e diventa proprietà privata, amministrata con criteri rigidi e non negoziabili.
Il rischio è evidente: se tutto è antisemitismo, nulla lo è davvero. E così si svuota di senso la lotta contro l’odio, si confonde la politica con la religione, la storia con l’attualità. La memoria non è più un ponte, ma un muro.
Forse è tempo di restituire alla Shoah il suo valore autentico: monito per tutti, non clava da usare contro l’avversario politico di turno. Perché se la memoria diventa strumento di potere, smette di essere memoria e diventa ideologia.
La memoria non può trasformarsi in dogma. Se diventa un tribunale permanente, allora smette di essere testimonianza e si riduce a propaganda. E il rischio più grande è che, a forza di invocarla come verità assoluta, finisca per non insegnare più nulla.
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