C’era un tempo in cui l’IRI era quasi una seconda Repubblica. Nacque nel 1933 per salvare le banche in ginocchio dopo la crisi mondiale, ma nel dopoguerra divenne molto più di una semplice “bad company”: era la mano visibile dello Stato che costruiva ponti, acciaierie, autostrade, centrali elettriche, che dava lavoro a intere generazioni. Negli anni del miracolo economico, l’Italia cresceva grazie a quell’intreccio anomalo tra pubblico e privato che faceva storcere il naso agli anglosassoni, ma che funzionava. Senza l’IRI, non avremmo avuto la rete autostradale, la grande siderurgia, il telefono in ogni casa.
Poi arrivarono gli anni Ottanta. Le prime crepe comparvero nei bilanci, i debiti si accumulavano, le nomine dei manager erano sempre più frutto di compromessi partitici. “Abbiamo trasformato le partecipazioni statali in un bancomat della politica”, confessava amaramente un ex ministro socialista. Lo Stato copriva le perdite, i cittadini pagavano con le tasse, e la macchina industriale arrancava.
Il colpo di grazia fu Tangentopoli. Con il crollo della Prima Repubblica, quell’immenso arcipelago industriale perse anche il suo pilastro politico. Nello stesso momento, l’Europa bussava alla porta con il Trattato di Maastricht: deficit da ridurre, aiuti di Stato da eliminare, disciplina di bilancio da rispettare. “Non possiamo più permetterci questo pachiderma”, disse nel 1992 Giuliano Amato, quando annunciò il piano di privatizzazioni. Sembrava l’unica strada: fare cassa, mostrarsi “virtuosi” a Bruxelles, alleggerire lo Stato.
E così iniziò il grande smantellamento. Nel 1997 fu la volta di Telecom Italia. La tv mostrava sorrisi e promesse: liberalizzazione, efficienza, concorrenza. Ma bastò poco perché l’ex gioiello nazionale diventasse preda di scalate finanziarie. Ricordano in molti la “cordata Colaninno”: un’operazione fatta più di debiti che di capitali, che lasciò l’azienda fragile e zavorrata. Il sogno digitale italiano si trasformò presto in un incubo di speculazioni e mancate strategie. Oggi la rete che era di tutti è contesa tra fondi stranieri, e l’Italia è uno dei Paesi europei più in ritardo nella banda larga.
Due anni dopo toccò alle Autostrade per l’Italia. Le vendite furono celebrate come un successo: lo Stato incassava, i privati avrebbero investito. La concessione passò al gruppo Benetton. In realtà, i pedaggi salirono, i dividendi schizzarono, gli investimenti in manutenzione calarono. Nel 2018, il crollo del ponte Morandi a Genova trasformò quella storia in tragedia: 43 morti ricordarono al Paese cosa significa privatizzare senza controllare. La rete costruita con i soldi pubblici era stata consegnata a un monopolio privato che aveva anteposto i profitti alla sicurezza.
L’Ilva di Taranto è un’altra ferita aperta. Un tempo orgoglio della siderurgia europea, simbolo della missione dell’IRI nel Sud, fu ceduta negli anni Novanta ai Riva. Promettevano rilancio, arrivarono inquinamento e disastro sanitario. Le immagini delle polveri rosse che ricoprivano i balconi dei quartieri popolari sono rimaste nell’immaginario collettivo. Oggi l’Ilva è un gigante dimezzato, sospeso tra procedure fallimentari e commissari straordinari.
Potremmo continuare con i casi bancari, con la svendita di imprese energetiche, con i cantieri navali. Ovunque, lo schema fu simile: l’IRI e le partecipazioni statali furono liquidati in nome della modernità, ma senza un piano industriale. Lo Stato incassò miliardi, ma li usò solo per tappare i buchi del debito, che rimase sostanzialmente intatto.
La gente comune capì presto che il gioco non era a somma positiva. “Paghiamo tariffe più alte, abbiamo servizi peggiori”, scrivevano i giornali locali già nei primi anni Duemila. Gli operai che uscivano dai cancelli delle fabbriche dismesse del Sud non parlavano di Europa e modernizzazione: parlavano di disoccupazione, di desertificazione, di futuro negato.
Oggi, guardando indietro, il bilancio è amaro. Il mito delle privatizzazioni come panacea si è rivelato una favola utile a pochi e devastante per molti. Mentre Francia e Germania conservavano le loro leve pubbliche nei settori strategici, l’Italia svendeva Telecom, Autostrade, Ilva. Abbiamo scambiato sovranità con dipendenza, politica industriale con finanza speculativa.
E allora la domanda non è più se le partecipazioni statali andassero riformate: certo che sì. La domanda vera è perché invece di riformarle le abbiamo liquidate così, in fretta e furia, spesso a prezzi di saldo. La risposta è scomoda: perché eravamo un Paese fragile, senza più partiti solidi, sotto ricatto del debito e delle pressioni europee, guidati da una classe dirigente che preferì vendere il patrimonio pubblico piuttosto che affrontare i nodi strutturali.
Chi ha guadagnato? I cittadini no. I lavoratori nemmeno. Lo Stato men che meno. A guadagnarci sono stati pochi gruppi privati, poche banche d’affari, poche famiglie industriali. Oggi quelle famiglie controllano ciò che una volta apparteneva a tutti.
E allora il finale polemico è inevitabile: ci dissero che privatizzare significava modernizzare. In realtà, abbiamo semplicemente barattato la nostra indipendenza economica per un incasso momentaneo. Abbiamo venduto l’Italia pezzo per pezzo, e ora che ne restano solo macerie industriali ci accorgiamo, troppo tardi, che lo Stato imprenditore non era un lusso superfluo, ma l’unico argine contro la rapacità dei mercati.
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