Romani fino alla fine: la storia dimenticata dell’Impero di Costantinopoli

Quando oggi parliamo di “Impero bizantino”, in realtà utilizziamo una definizione moderna, nata nella storiografia rinascimentale, che non rispecchia come i suoi abitanti percepivano sé stessi. Chi viveva a Costantinopoli e nelle province orientali non si è mai definito “bizantino”. Fino alla caduta della città nel 1453, essi si chiamavano Ῥωμαῖοι (Romani) e consideravano il loro Stato la naturale continuazione dell’Impero romano fondato da Augusto. La loro capitale, Costantinopoli, era il cuore della Basileía tôn Rhōmaíōn, l’Impero dei Romani, e i suoi abitanti non avevano dubbi: erano Romani fino alla fine.

Santa Sofia ad Instabul (già Bisanzio e Costantinopoli)

Il termine “bizantino” deriva dall’antico nome della città, Bisanzio, ma non fu mai usato dai contemporanei. Solo nel XVI secolo, con gli umanisti occidentali come Hieronymus Wolf, la storia dell’impero d’Oriente cominciò a essere chiamata Byzantinae Historiae, per distinguerla dall’antico impero romano latino. Questa etichetta, però, rischia di oscurare una realtà essenziale: l’impero di Costantinopoli era, per i suoi cittadini, la Roma eterna.

L’imperatore non era un “bizantino”, ma l’Autokrátōr tôn Rhōmaíōn, l’Imperatore dei Romani, e tale veniva riconosciuto dai sudditi e, almeno fino all’800, anche dall’Occidente. Solo con la nascita del Sacro Romano Impero e il progressivo distacco politico e culturale tra Roma e Costantinopoli, l’Europa latina cominciò a percepire l’Oriente come qualcosa di “altro”, riducendo l’impero orientale a un’entità greca separata.

Nonostante questo, l’identità romana rimase salda. L’impero mantenne istituzioni, diritto e religione come eredità diretta di Roma. La lingua ufficiale passò dal latino al greco, ma il cambiamento linguistico non significava una rottura con l’antico impero. Anche nei secoli in cui l’impero si ridusse a pochi territori intorno a Costantinopoli e al Peloponneso, i Romani d’Oriente sapevano chi erano e cosa rappresentavano.

Un esempio chiaro è il regno di Giustiniano (527-565), che cercò di ricostruire l’unità imperiale riconquistando Italia, Africa e parte della Spagna. Per lui non si trattava di espandere un impero nuovo, ma di restaurare l’ordine romano originario. Le guerre gotiche, descritte dallo storico Procopio di Cesarea, non erano conquiste di nuove terre, ma il ritorno alla patria di province “usurpate” dai Goti.

Le fonti ecclesiastiche confermano la stessa percezione: san Massimo il Confessore, nel VII secolo, definisce l’imperatore di Costantinopoli Basileus tōn Rhōmaiōn, ovvero Imperatore dei Romani, incaricato da Dio di guidare il popolo cristiano. Più tardi, nel XII secolo, Anna Comnena, nella sua Alessiade, chiama costantemente i sudditi dell’impero “Romani” e descrive la missione imperiale come difesa della cristianità, mentre i crociati latini appaiono come stranieri quasi barbari.

Anche alla caduta di Costantinopoli nel 1453, la consapevolezza di essere Romani non svanì. Testimoni come Giorgio Sfranze raccontano la disperazione dei cittadini assediati dai Turchi: mai una volta si definiscono “bizantini”, ma piangono la fine dei Rhōmaíoi, i Romani, mentre la loro città, la nuova Roma, cade sotto un nuovo dominio. Questa identità sopravvive ancora sotto l’impero ottomano: i greci ortodossi continuano a chiamarsi Romioi, e gli stessi turchi li designano come Rum, cioè Romani.

La civiltà che oggi chiamiamo “bizantina” fu dunque l’ultima fase di una storia iniziata sul Tevere molti secoli prima. L’etichetta moderna serve agli storici per distinguere l’esperienza orientale dall’Occidente medievale, ma resta retrospettiva. Per chi visse entro le mura di Costantinopoli, fino all’ultimo giorno prima che la bandiera ottomana sventolasse sulla cupola di Santa Sofia, non vi era alcun dubbio: essi erano i Romani, e il loro impero era Roma, l’eterna.

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