Il cinema di fantascienza ha da sempre la capacità di guardare oltre l’orizzonte del presente, anticipando sfide che la società reale non ha ancora del tutto incontrato. Quando parliamo di film come The Island o Blade Runner non ci muoviamo soltanto nel terreno dell’immaginazione visionaria, ma in un laboratorio morale in cui vengono messe in scena le paure e le speranze legate alla manipolazione della vita umana. In queste pellicole la scienza non si limita a curare, ma diventa fabbrica: l’essere umano non nasce più, ma viene progettato, clonato, ottimizzato.
In Blade Runner, i replicanti sono macchine biologiche talmente raffinate da risultare indistinguibili dai loro creatori. Sono esseri programmati per servire, ma dotati di emozioni e desideri autentici, tanto da ribellarsi alla loro condizione. In The Island, i cloni crescono in un’illusione protetta, convinti di vivere in una comunità ideale, mentre in realtà esistono unicamente come riserva di organi per i loro “proprietari”. Il pubblico viene così posto di fronte a un paradosso: questi esseri sono meno umani perché costruiti, o anzi sono più umani proprio perché cercano disperatamente senso, libertà e riconoscimento?
Molti altri film hanno alimentato questa riflessione. Gattaca immagina una società dominata dall’eugenetica, dove il DNA stabilisce il valore sociale di un individuo e dove la meritocrazia biologica diventa la più feroce delle discriminazioni. Never Let Me Go affronta con delicatezza e dolore la questione della clonazione, mettendo al centro la vita interiore dei cloni: persone che sanno di essere state create per morire, e che tuttavia cercano amore e dignità. Ex Machina porta la questione sull’intelligenza artificiale, interrogando lo spettatore sul senso della coscienza e sulla sottile linea che separa il creatore dal manipolatore. Moon infine mostra l’alienazione di cloni che vivono cicli infiniti di lavoro, privati della possibilità di una vera identità.
Queste storie non sono soltanto distopie estetiche, ma specchi di una realtà che già si intravede nelle frontiere scientifiche. Le nuove tecnologie di editing genetico, come CRISPR, hanno reso possibile immaginare un futuro in cui le caratteristiche biologiche di un individuo possono essere programmate. Nel 2018, il caso dello scienziato cinese He Jiankui, che annunciò di aver fatto nascere le prime bambine geneticamente modificate per resistere al virus HIV, ha sollevato uno scandalo planetario: la comunità scientifica lo ha condannato per aver violato principi fondamentali di bioetica, aprendo un varco che fino a quel momento era rimasto confinato alla fantascienza.
Sul fronte della clonazione, l’esperimento che ha reso celebre la pecora Dolly nel 1996 ha mostrato che replicare un mammifero era possibile. Da allora sono stati clonati scimmie, cani e altri animali, e non sono mancate le pressioni di laboratori privati per spingersi verso la clonazione umana, sebbene ufficialmente proibita in quasi tutto il mondo. La prospettiva inquietante di un clone umano “su misura” richiama da vicino scenari come quello di The Island, e mantiene viva la tensione tra progresso e paura.
Anche l’intelligenza artificiale, che Ex Machina aveva immaginato come seducente e inquietante, oggi è realtà quotidiana. Le IA generative producono testi, immagini, persino simulazioni di conversazioni indistinguibili da quelle umane. Non possiedono ancora coscienza, ma il dibattito etico è acceso: se un giorno un sistema artificiale sviluppasse una forma di autocoscienza, avremmo il dovere morale di riconoscerlo come soggetto? Oppure continueremmo a trattarlo come strumento, alimentando il rischio di nuove forme di schiavitù digitale?
Questi casi reali dimostrano quanto il confine tra distopia e cronaca si stia assottigliando. Se un clone, un replicante o un’intelligenza artificiale sono in grado di provare emozioni e costruire relazioni, possiamo davvero considerarli oggetti di proprietà? Se la società decidesse di adottare la selezione genetica come strumento di progresso, non rischieremmo di generare nuove forme di disuguaglianza ancora più profonde di quelle economiche e sociali? Filosofi della tecnica come Hans Jonas hanno ammonito sul “principio di responsabilità”: la scienza deve essere valutata non solo per ciò che può fare, ma per le conseguenze a lungo termine che le sue azioni comportano. Anche la bioetica, da Habermas a Martha Nussbaum, ha insistito sull’idea che la dignità umana non possa essere ridotta a un calcolo genetico o a un progetto ingegneristico.
Ciò che emerge da queste narrazioni e da queste vicende è la fragilità del concetto di “umanità”. Non è la carne, né il DNA, né la modalità della nascita a definire ciò che siamo, ma il riconoscimento reciproco di una dignità che non può essere programmata né replicata. Il cinema distopico ci avverte che dietro la promessa di un’umanità potenziata si cela il rischio di un’umanità impoverita, priva della capacità di riconoscere nell’altro la stessa sete di senso che ci abita.
In ultima analisi, la domanda che queste opere ci consegnano è radicale e universale: cosa significa essere umani? La risposta non sta nella tecnologia, né nelle nuove biologie, ma nella capacità di non smarrire la dimensione etica che ci rende comunità. La fantascienza, con i suoi mondi futuri e inquietanti, ci ricorda che il futuro non è mai scritto soltanto nei laboratori, ma anche nelle scelte morali e politiche che decidiamo di assumere oggi.

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