Quando nel 1991 Wang Huning, allora giovane professore cinese di scienze politiche, pubblicò America contro America, nessuno immaginava che quel libro, frutto di sei mesi passati a girare università, biblioteche e periferie degli Stati Uniti, sarebbe diventato uno dei testi più citati per capire non solo la Cina di oggi, ma anche il futuro dell’America. Wang non era un semplice accademico: i suoi occhi di straniero colsero contraddizioni che molti americani preferivano ignorare. La sua tesi era chiara e radicale: l’America non sarà sconfitta da un nemico esterno, ma da se stessa. Se mai ci sarà una nuova guerra civile, non nascerà dall’invasione di un esercito straniero, bensì dalle fratture interne di un Paese che ha fatto dell’individualismo la sua religione.
Wang rimase colpito dalla potenza creativa degli Stati Uniti: Silicon Valley, i campus pullulanti di idee, la ricchezza diffusa nelle grandi metropoli. Ma dietro questa vetrina scintillante intravide le ombre. Nelle periferie di New York o di Chicago, annotò il degrado, la povertà estrema, la ghettizzazione. Nelle strade di Los Angeles vide le tensioni razziali esplodere in scontri che prefiguravano un tessuto sociale sull’orlo della lacerazione. Per lui, la vera contraddizione era questa: una nazione che si presenta al mondo come modello di libertà e progresso, ma che convive con disuguaglianze così radicali da minare la sua stessa sopravvivenza.
Il politologo cinese sottolineava come la democrazia americana, tanto celebrata, avesse in sé una pericolosa fragilità. Il ciclo elettorale continuo costringe i leader a pensare solo al breve periodo, sacrificando la capacità di affrontare i problemi strutturali. Le fazioni politiche, più che dialogare, si combattono come tribù nemiche. Per Wang, questo non era pluralismo, ma una lenta degenerazione verso il conflitto permanente. E quella che lui chiamò “America contro America” oggi sembra descrivere perfettamente il clima di polarizzazione che attraversa il Paese: repubblicani contro democratici, città contro campagne, élite cosmopolite contro masse impoverite.
Gli avvenimenti degli ultimi anni sembrano scritti come una postfazione al libro di Wang. Le rivolte di Ferguson e Minneapolis, le proteste del movimento Black Lives Matter, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021: tutti segnali che confermano quanto la coesione nazionale americana sia fragile. Una nazione divisa non ha bisogno di un nemico esterno per cadere: basta che le sue contraddizioni interne esplodano. E Wang lo aveva visto trent’anni prima, passeggiando tra i grattacieli e i ghetti delle metropoli americane.
La sua “profezia” non è una condanna, ma un avvertimento. L’America può scegliere di ricomporre le sue fratture, oppure può continuare a vivere in una guerra latente con se stessa. Se il sogno americano si spezzerà, non sarà colpa della Cina, né della Russia, né di un nemico lontano: sarà stata la mano degli stessi americani a scrivere la sceneggiatura della propria autodistruzione.
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