Il Manuale di resistenza al pensiero unico di Simone Pillon rappresenta uno dei tentativi più organici, all’interno del panorama italiano, di proporre una lettura critica delle trasformazioni culturali legate al genere, alla famiglia e alle nuove frontiere del transumanesimo. La sua pubblicazione ha polarizzato il dibattito: da un lato, chi lo considera una bussola indispensabile per difendere i fondamenti antropologici della società; dall’altro, chi vi legge una retorica divisiva, che rischia di delegittimare le esperienze e i diritti delle minoranze.
La critica conservatrice: un argine al relativismo
Il pensiero di Pillon si inserisce in una lunga tradizione conservatrice che considera la differenza sessuata maschio/femmina come fondamento antropologico e sociale. La famiglia, nella sua forma tradizionale, viene vista non solo come un’istituzione privata, ma come pilastro pubblico che assicura coesione, trasmissione di valori e stabilità.
Secondo questa prospettiva, le teorie di genere, le rivendicazioni delle identità non binarie e le sperimentazioni del transumanesimo costituirebbero una minaccia per l’ordine simbolico su cui si regge la comunità. La loro diffusione, attraverso scuola, media e legislazione, non sarebbe soltanto un riconoscimento di diritti, ma un progetto culturale che tende a normalizzare ciò che, per secoli, è stato considerato eccezione.
Il punto di forza di questa critica è la sua capacità di dare voce a un disagio reale: la percezione, diffusa in molti settori della società, che i cambiamenti avvengano troppo velocemente, senza un adeguato dibattito e senza valutare fino in fondo le conseguenze etiche, psicologiche e sociali. La paura di un “pensiero unico” nasce anche dall’esperienza di chi si sente escluso dal discorso pubblico semplicemente perché solleva dubbi o richiama alla prudenza.
I limiti dell’inclusione assoluta
Sul versante opposto, la cultura progressista ha fatto dell’inclusione un principio cardine. L’idea è che ogni identità, ogni orientamento, ogni espressione di sé meriti pieno riconoscimento, e che ogni resistenza a questo processo equivalga a discriminazione.
Ma qui sorge un problema: quando l’inclusione diventa dogma, essa rischia di generare nuove forme di esclusione. Chi sostiene modelli tradizionali, chi invoca gradualità, chi teme conseguenze indesiderate per i minori viene spesso liquidato come retrogrado o omofobo. La possibilità stessa di discutere viene così ridotta, alimentando la sensazione di vivere in un contesto ideologico altrettanto rigido di quello che si vorrebbe superare.
In altre parole, l’inclusione senza limiti può trasformarsi in un nuovo pensiero unico: una grammatica morale che, nel tentativo di abbattere barriere, impone un conformismo culturale altrettanto stringente.
L’equità come via mediana
Per uscire da questa impasse, occorre distinguere tra inclusione ed equità. L’inclusione tende a inglobare tutte le differenze in un unico spazio simbolico, spesso a costo di cancellare i conflitti. L’equità, invece, riconosce le differenze ma le inserisce in un quadro di bilanciamento tra diritti individuali e bene collettivo.
Un approccio equitativo implica, ad esempio, garantire alle persone transgender percorsi di tutela sanitaria e legale, senza però forzare scuole e famiglie a rinunciare a ogni riferimento al binarismo sessuale. Significa riconoscere nuove forme familiari senza per questo svalutare il ruolo della famiglia tradizionale come risorsa sociale e culturale. Vuol dire valorizzare la libertà individuale senza rinunciare a porre limiti etici all’uso delle biotecnologie e alle derive del transumanesimo.
Equità significa proteggere i più fragili senza trasformare i diritti in privilegi, custodire le tradizioni senza congelarle in archetipi immutabili. È un principio dinamico, che richiede dialogo, compromesso e capacità di modulare le norme sulla base delle situazioni concrete.
Per una società plurale ma non frammentata
La vera sfida, oggi, non è decidere se essere conservatori o progressisti, ma evitare che la società scivoli in una frammentazione permanente, dove ogni gruppo vive in una bolla identitaria e rivendica riconoscimento assoluto.
La prospettiva dell’equità offre un orizzonte diverso: una società plurale, ma capace di condividere un linguaggio comune; una società che accoglie, ma che non perde il senso dei limiti; una società che resiste al dogmatismo sia del passato sia del presente.
Conclusione
Il libro di Pillon ha il merito di rompere il silenzio e di portare in superficie la paura di molti cittadini di fronte a cambiamenti epocali. Ma la sua proposta, centrata quasi esclusivamente sulla difesa della tradizione, rischia di non cogliere la complessità della modernità. Dall’altro lato, l’inclusivismo radicale rischia di dissolvere il tessuto comune in una miriade di identità irriducibili.
Tra questi poli, l’equità rappresenta la via più promettente: un cammino non facile, che non offre slogan né certezze immediate, ma che può restituire alla società un equilibrio fatto di rispetto, responsabilità e solidarietà. È qui che potrebbe nascere un nuovo spazio politico e culturale, capace di andare davvero oltre il pensiero unico.
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