Il freno invisibile: perché l’imprenditoria italiana non decolla


In Italia, certi proverbi non sono soltanto frasi tramandate dai nonni: sono schegge di mentalità che, ripetute e interiorizzate per generazioni, finiscono per influenzare il modo in cui si guarda al lavoro, al rischio e alla ricchezza. Dire “Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quello che lascia e non sa quello che trova” può sembrare un invito alla prudenza, ma per un imprenditore diventa un monito a non cambiare, a non innovare. Allo stesso modo, l’ironico “La migliore società è formata da meno di tre soci e in numero dispari” nasconde un messaggio pericoloso: fidati solo di te stesso, non condividere il controllo, non cercare alleanze.

Questo atteggiamento affonda le radici nella storia del Paese. Per secoli l’Italia è stata un mosaico di piccoli Stati, ognuno con una propria economia locale autosufficiente. Nelle campagne, la sopravvivenza dipendeva dalla capacità di proteggere ciò che si possedeva, non di rischiare per ottenere di più. Al Sud, la lunga influenza cattolico-spagnola consolidò una visione della ricchezza come patrimonio da custodire — terreni, immobili, beni di famiglia — piuttosto che come capitale da far circolare. Il commercio e l’impresa, soprattutto se comportavano esposizione pubblica o rischio finanziario, erano visti con sospetto, quasi come attività moralmente meno nobili del possesso fondiario.

Quando arrivò l’industrializzazione, l’Italia vi entrò tardi e in modo disomogeneo. Il Nord si sviluppò più rapidamente, trovando nel tessuto urbano e nella vicinanza con l’Europa centrale un terreno fertile per la manifattura e le esportazioni. Il Sud restò in larga parte ancorato a un’economia agraria e di rendita, con poche industrie di grande scala. Questa differenza si riflette ancora oggi nella struttura produttiva nazionale, che assomiglia a una piramide: in cima, pochissimi grandi gruppi industriali capaci di competere a livello globale; al centro, una fascia di piccole e medie imprese competitive ma spesso legate a mercati regionali; alla base, una distesa sterminata di microimprese familiari, con risorse limitate e scarsa propensione all’investimento.

Il modello familistico è il vero marchio di fabbrica dell’imprenditoria italiana. La decisione resta nelle mani del fondatore o dei suoi eredi, e il passaggio generazionale raramente prevede l’inserimento di manager esterni. Se figli o nipoti sono incapaci, l’azienda rallenta o declina, ma il timore di “perdere il controllo” supera la necessità di garantire la continuità aziendale. Questo si combina a una diffidenza atavica verso i soci e le partnership strategiche: meglio rimanere piccoli e autonomi che rischiare conflitti o divisioni degli utili.

La cultura del rischio è un altro nodo critico. In Italia il fallimento è visto come una macchia da nascondere, non come un’esperienza da cui imparare. Nei Paesi anglosassoni, al contrario, un imprenditore che ha fallito viene spesso considerato più esperto, perché ha già affrontato ostacoli reali. Questa differenza di mentalità ha conseguenze enormi: altrove si tende a puntare in alto e a scalare velocemente, mentre qui si preferisce crescere piano, mantenendo il controllo totale.

Il confronto internazionale è illuminante. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, l’ambiente è più favorevole a chi vuole crescere: il capitale di rischio è abbondante, le istituzioni sostengono l’innovazione e il fallimento non comporta una condanna sociale. In Germania, le aziende familiari — il famoso Mittelstand — riescono comunque a strutturarsi in modo manageriale e a collegarsi strettamente con la ricerca e lo sviluppo. In Israele, una nazione molto più piccola, la cultura dell’iniziativa ha trasformato la scarsità di risorse in un trampolino per la creazione di startup innovative capaci di competere in tutto il mondo.

L’Italia, dal canto suo, resta un Paese di straordinaria creatività, capace di produrre eccellenza nel design, nella moda, nella gastronomia, nella meccanica di precisione. Ma queste qualità, se non accompagnate da una visione imprenditoriale aperta e ambiziosa, rischiano di rimanere confinate nel piccolo laboratorio o nella bottega di famiglia.

Cambiare rotta richiede un lavoro culturale prima ancora che economico. Serve introdurre l’educazione imprenditoriale nelle scuole, ridurre lo stigma del fallimento, incentivare le reti tra imprese e l’apertura a manager esterni. Soprattutto, occorre scardinare quella prudenza difensiva che ha avuto senso in un’economia di sussistenza, ma che oggi è un freno invisibile alla crescita.

Finché continueremo a credere che sia meglio non lasciare la strada vecchia per la nuova, resteremo a guardare gli altri prendere rotte che noi non osiamo tracciare. E allora, più che un problema economico, sarà una questione di mentalità collettiva, una di quelle profezie che si autoavverano e che nemmeno il più geniale degli imprenditori riuscirebbe a smentire

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