Oltre la pena: educare per prevenire la violenza di genere

Quando, in un breve arco di tempo, arrivano notizie di due giovani donne uccise a pochi giorni l’una dall’altra, il dolore si mescola all’indignazione e alla consapevolezza che il problema è collettivo. A Messina, Sara Campanella, 22 anni, studentessa, è stata accoltellata a una fermata dell’autobus da un suo collega – uno studente dell’università – che la perseguitava da due anni . Poche ore dopo, a Roma, il corpo di Ilaria Sula è stato ritrovato in una valigia abbandonata nei pressi della capitale: anche lei aveva appena 22 anni, e il sospetto è rivolto a un ex fidanzato . Questi omicidi — portano a undici il numero delle vittime femminili in pochi mesi nel 2025 — hanno innescato in molte città italiane l’appello convinto a una “rivolta culturale”, non solo a modifiche legislative .



Quella di Sara e Ilaria non è che l’ultima in una serie di storie tragiche e potenti. A novembre 2023, Giulia Cecchettin, 22 anni, è stata assassinata dall’ex fidanzato con 75 coltellate e il suo corpo è stato nascosto in un burrone, avvolto in sacchi neri . La sua morte ha rappresentato uno spartiacque nel dibattito pubblico: migliaia di persone hanno partecipato al suo funerale, l’università le ha conferito una laurea postuma e il padre, Gino, ha fondato una associazione in suo nome per promuovere l’educazione e la prevenzione . Più ancora la sua sorella Elena ha scritto – con dolore e lucidità — sul Corriere della Sera che “i ‘mostri’ non sono malati, sono figli sani del patriarcato”, invitando tutti, e in particolare gli uomini, a interrogarsi sul proprio ruolo nella società patriarcale . Parole che hanno una forza dolorosa e liberatoria, e che squarciano la narrazione che confina la violenza a casi isolati o patologici.


E ancora, la giovane e purtroppo brevissima esistenza di Martina Carbonaro, 14 anni, uccisa a colpi di pietra dall’ex fidanzato nel maggio 2025, ha acceso i riflettori sull’allarme adolescenziale. Un passaggio doloroso e inquietante: la violenza che spesso viene considerata un problema dell'età adulta emerge anche nell’infanzia stessa, laddove i legami affettivi più fragili diventano motivo di tragedia . E non è isolato: secondo dati ANSA aggiornati a maggio 2025, in Italia ci sono stati almeno 16 femminicidi dall'inizio dell’anno, già di più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Accanto al caso di Martina, c’è quello di Teodora Kamenova, 47 anni, uccisa a Civitavecchia dal suo compagno .


Ogni volta che un femminicidio scuote le cronache, l’opinione pubblica reagisce con sgomento, dolore e rabbia. La domanda che ritorna sempre è: “Come possiamo fermare questa strage silenziosa?”. In molti invocano pene più severe, o almeno la certezza che quelle già previste vengano applicate senza esitazioni. È una reazione naturale, quasi istintiva: quando si resta senza parole davanti all’orrore, l’inasprimento del castigo sembra l’unico appiglio rimasto.

Eppure la storia mostra che la deterrenza penale, da sola, è un’illusione. Nel Settecento, nella Londra delle impiccagioni pubbliche, persino i furti erano puniti con la forca. Eppure la città pullulava di borseggiatori. Un celebre quadro dell’epoca ritrae una scena paradossale: mentre la folla assiste all’esecuzione di un ladro, un altro approfitta della distrazione per derubare un malcapitato. È un’immagine potente, che sintetizza meglio di mille discorsi l’impotenza della sola repressione: la pena può punire, ma non può prevenire se non si interviene a monte, sulle radici sociali e culturali del comportamento.

La violenza di genere non sfugge a questa logica. Il femminicidio non nasce mai come un fulmine a ciel sereno: è quasi sempre l’ultimo anello di una catena fatta di controllo, svalutazione, minacce e sopraffazioni, che affondano le loro radici in una cultura ancora impregnata di modelli patriarcali. L’idea che la donna sia “di proprietà” dell’uomo, che l’amore giustifichi la gelosia, che il rifiuto sia una ferita intollerabile, continua a influenzare la psicologia individuale e collettiva. Inasprire le pene senza scardinare questi schemi equivale a svuotare il mare con un cucchiaino.

È allora sulla prevenzione che bisogna investire. Prevenzione significa educazione, e l’educazione comincia molto prima dell’aula di tribunale. La scuola e la famiglia hanno una responsabilità decisiva. Ai bambini e ai ragazzi non basta insegnare la grammatica e la matematica: occorre trasmettere anche una grammatica delle emozioni. La psicoaffettività dovrebbe diventare una materia trasversale, che insegni a nominare le proprie fragilità, a riconoscere la rabbia, a gestire la frustrazione, ad accettare il “no” come parte integrante delle relazioni umane. In un mondo adulto spesso dominato dalla frustrazione, è fondamentale educare fin da piccoli a sopportare l’idea che non sempre gli altri la pensano come noi e che non tutto ci è dovuto.

Molti uomini che diventano carnefici non sono mostri nati dal nulla, ma persone incapaci di elaborare la fine di una relazione, incapaci di reggere il peso del rifiuto. È in quel vuoto emotivo che germina la convinzione di poter esercitare un controllo assoluto, fino alla violenza estrema. Una società che vuole davvero contrastare il femminicidio deve aiutare i ragazzi a crescere con la consapevolezza che amare non significa possedere e che il rispetto dell’altro è la prima forma di dignità di sé.

Accanto all’educazione, serve anche una rete di supporto concreta. Troppo spesso le avvisaglie di violenza restano inascoltate: denunce archiviate, segnali minimizzati, parole di allarme delle vittime lasciate cadere nel vuoto. La prevenzione passa anche da qui: dalla capacità delle istituzioni di reagire subito, di offrire protezione e ascolto tempestivi, di investire in centri antiviolenza e servizi sociali capaci di intercettare i rischi prima che diventino tragedie.

La giustizia penale resta necessaria, ed è giusto che chi uccide una donna paghi fino in fondo. Ma pensare che basti la paura del carcere a fermare il prossimo delitto significa illudersi. È solo un lavoro lungo, culturale e collettivo che può trasformare davvero la società. Educare alla libertà, insegnare il limite, diffondere modelli positivi di mascolinità e femminilità: questa è la vera sfida.

Il senso di impotenza che ci assale dopo ogni femminicidio non deve diventare rassegnazione. Al contrario, può essere la spinta a riconoscere che la violenza non è una fatalità, ma il prodotto di una cultura che possiamo cambiare. E che cambiare, lentamente ma radicalmente, è un dovere di tutti.

La legge, intanto, compie un passo importante: nel marzo 2025, il governo italiano ha approvato un disegno di legge che, per la prima volta, introduce nella normativa una definizione specifica di “femminicidio”, con pene fino all’ergastolo, nonché aggravanti e inasprimenti per stalking, revenge porn e violenza sessuale . Il segnale è forte, ma non basta. L’opposizione le ha dato il benvenuto, ma ha avuto il merito di ricordare che “solo la repressione non cambia la cultura” . E molti movimenti femministi l’hanno definita una mossa simbolica, lasciando aperto il nodo della discriminazione sistemica che accompagna la disparità anche nella scuola, nel lavoro, nelle relazioni quotidiane .

Il salto culturale non avviene per decreto. È un processo lento, che parte dall’educazione, dal riconoscimento delle fragilità e dagli strumenti di mediazione emotiva. Serve che la scuola diventi luogo di cura, non solo di conoscenza; che la famiglia diventi teatro di confronto, non di imposizione; che la politica investa nel tessuto sociale e non solo nella paura.

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