“Insegnanti per l’inclusione” è l’ultimo eufemismo di Valditara per una categoria che cerca la propria inclusione nel settore pubblico, tramite supplenze e corsi abilitanti di quello che, come un peso, si è chiamato finora “sostegno”. Dietro il nome accattivante si nasconde una realtà più pragmatica: un sistema che premia chi sa muoversi tra graduatorie, corsi costosissimi e cavilli burocratici, più che chi sa davvero includere.
Si tratta spesso di non giovanissimi che approdano al mondo della scuola come chi si aggrappa a un salvagente dopo il naufragio di una carriera professionale. C’è l’avvocato che dopo anni di causa persa dietro causa persa scopre che il suo talento dialettico può essere speso in classe con un ragazzino con la 104. C’è il commercialista che, tra un bilancio e l’altro, decide che spiegare la matematica a una quinta elementare è meno stressante che inseguire clienti morosi. Psicologi, farmacisti, filosofi, scienziati della comunicazione: tutti pronti a lavorare per l’inclusione, spesso senza avere la minima esperienza con bambini e ragazzi.
Fanno corsi abilitanti di migliaia di euro per ottenere una supplenza, compreso chi paga corsi universitari all’estero. Una volta, a Napoli, una classe di “inclusivi” si lamentava di quanto fosse complicato ottenere l’abilitazione; una docente raccontava di aver seguito un corso online di dieci settimane dall’Argentina, pagando quasi quanto un semestre di Erasmus, e di aver scoperto solo alla fine che il corso non valeva per la provincia in cui sperava di insegnare. Un altro raccontava di aver investito tutti i risparmi per un corso in Spagna, arrivando a Barcellona con valigia e laptop: “Alla fine mi hanno detto che per le graduatorie italiane serviva un modulo in più, di 0,5 crediti”, spiegava ridendo amaro. Si sa, quando ci sono i polli, c’è sempre chi fa il business di spennarli, se non addirittura di cuocerli allo spiedo.
Sono professionisti per cui la libera professione non paga più e trovano nella scuola la backdoor per un impiego pubblico senza concorso, funzionando il reclutamento attraverso graduatorie provinciali. Un’amica farmacista, ad esempio, mi raccontava come durante un anno di supplenze abbia iniziato a conoscere meglio la cartella elettronica scolastica che il suo software gestionale da farmacia. Alla fine, diceva ridendo, “almeno qui qualcuno mi ringrazia”. Un ex avvocato napoletano, invece, raccontava di aver spiegato diritto costituzionale a ragazzi di seconda media: “Non capivano nulla, ma almeno ero pagato per stare seduto davanti alla lavagna per sei ore”.
Non importa se un ragazzino con la 104 viene davvero incluso. Diciamolo chiaramente: prenderà la pensione con l’accompagnamento vita natural durante. Sono loro, i docenti che sostengono, molto probabilmente se stessi con lo stipendio da precari che con questo sistema riescono finalmente ad ottenere, ad includere se stessi. Fino al 2022 era possibile pure al Sud con un punteggio modesto. Poi, il Suor Orsola Benincasa, in Spagna e in Romania, ne hanno sfornati così tanti che le graduatorie sono sature pure a Roma in prima fascia. Adesso Firenze, Bologna, ma c’è chi arriva sulle lunghe alle Langhe, a Cuneo, o sulle Prealpi a Treviso. Meridionali amanti del posto fisso statale. Retrogradi. Una volta al Nord, le aziende serie che pagano e ringraziano ci sono.
Una volta, durante un colloquio in provincia di Treviso, un aspirante docente raccontava di essersi spostato da Napoli con moglie e figli, lasciando una carriera decennale in banca, pur di ottenere “la chiamata”. Raccontava di essere felice di essere stato nominato supplente per sei ore a settimana in una scuola con tre classi e venti alunni ciascuna. La passione per l’inclusione? Non si sa. Il fatto di avere un contratto pubblico, sì.
In un’altra scuola, a Cuneo, una docente raccontava di aver visto un collega arrivare con tre valigie, una per i vestiti, una per i libri, e una piena di diplomi e certificazioni. “Mi ha detto che se non avesse trovato lavoro qui, avrebbe provato le Langhe”, rideva. La sua ambizione? La sicurezza. La missione educativa? Accessoria.
Se mancano i badanti nelle scuole è perché i loro stipendi sono più alti. E intanto, tra corsi di abilitazione milionari, graduatorie intasate e professionisti disillusi che si rifugiano nel sostegno, il vero scopo dell’inclusione spesso rimane un’illusione: quel ragazzino con la 104, e tutti gli altri che avrebbero davvero bisogno di attenzione, vengono spesso lasciati alle briciole di un sistema che premia più la sopravvivenza dei docenti che il loro lavoro.
Tra un colloquio, una graduatoria e un corso di abilitazione, i veri “sostenuti” sembrano essere i docenti stessi. La scuola diventa così un palcoscenico surreale: chi dovrebbe aiutare, spesso si salva. Chi dovrebbe essere aiutato, invece, osserva e aspetta. E il salvagente? È per chi lo tiene in mano, non per chi galleggia in acqua.
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