Fine vita: tra dignità e deriva. Il fragile equilibrio tra il non accanirsi e il non uccidere

In Italia, il tema del fine vita è uno dei più complessi e delicati dell’intero dibattito bioetico. La nostra legislazione non contempla una legge organica sull’eutanasia come avviene in altri Paesi, ma si regge su un insieme di norme e pronunce giurisprudenziali che, nel tempo, hanno cercato di bilanciare il diritto alla vita con quello all’autodeterminazione del paziente.

La legge 219 del 2017 ha rappresentato un passo importante, riconoscendo il diritto di ciascuno a rifiutare o interrompere i trattamenti sanitari, incluse idratazione e alimentazione artificiali, e introducendo le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT). Queste consentono di esprimere in anticipo le proprie volontà sulle cure, nel caso in cui in futuro non si fosse più in grado di comunicarle. È un testo normativo che sancisce il principio di non accanimento terapeutico, ma allo stesso tempo vieta qualsiasi atto diretto a provocare la morte.

Accanto a questa legge esiste anche la 38 del 2010 sulle cure palliative, che garantisce terapie finalizzate ad alleviare la sofferenza nelle fasi terminali della vita. Tra queste, la sedazione palliativa profonda è ammessa quando i sintomi non rispondono ad altri trattamenti e la malattia è ormai giunta alla fase conclusiva. È una pratica che non anticipa artificialmente la morte, ma riduce la coscienza del paziente fino al decesso naturale, offrendo sollievo dal dolore.

Un passaggio importante nella storia recente è arrivato con la sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale, nata dal caso di Marco Cappato e DJ Fabo.


CASO ITALIANO – DJ FABO E MARCO CAPPATO (2017)
Fabiano Antoniani, conosciuto come DJ Fabo, rimase cieco e tetraplegico dopo un incidente. Decise di recarsi in Svizzera per accedere al suicidio assistito. Marco Cappato lo accompagnò alla clinica Dignitas e poi si autodenunciò per stimolare un cambiamento legislativo. La Corte Costituzionale stabilì che l’aiuto al suicidio non è punibile in casi molto circoscritti: malattia irreversibile, sofferenze intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e piena capacità di scelta, previa valutazione del Servizio Sanitario e di un comitato etico.

Altri casi italiani hanno avuto un impatto ancora più profondo sulla coscienza collettiva.

CASO ITALIANO – ELUANA ENGLARO (1992-2009)
Rimasta in stato vegetativo permanente dopo un incidente stradale, Eluana fu alimentata artificialmente per 17 anni. Il padre, Beppino Englaro, sostenne che la figlia non avrebbe voluto vivere in quelle condizioni. Dopo una battaglia legale durata più di un decennio, la Cassazione autorizzò la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, avvenuta in una clinica di Udine. La vicenda divise profondamente l’Italia.


CASO ITALIANO – PIERGIORGIO WELBY (2006)
Affetto da distrofia muscolare progressiva, Welby chiese pubblicamente il diritto di interrompere la ventilazione artificiale. Un medico accolse la sua richiesta, somministrandogli sedativi e staccando il respiratore. L’episodio portò a un processo, concluso con l’assoluzione del medico, e riaccese il dibattito sul diritto a “lasciarsi morire”.


Guardando oltre i confini nazionali, le differenze sono significative.

In Olanda, l’eutanasia è stata legalizzata nel 2002 come possibilità eccezionale per malati terminali, ma negli anni i criteri si sono ampliati.

CASO OLANDA – DEPRESSIONE RESISTENTE (2023)
Una donna di 29 anni, fisicamente sana ma affetta da una grave depressione resistente ai trattamenti, ha ottenuto l’eutanasia. Il caso ha sollevato interrogativi profondi sul limite tra sofferenza psichica e condizione terminale, e su come valutare la capacità decisionale in questi contesti.


In Belgio, la legge è molto simile e prevede anche l’eutanasia per minori, con il consenso dei genitori.

CASO BELGIO – LE GEMELLE VERBESSEM (2012)
Sorde dalla nascita e affette da una malattia degenerativa che avrebbe causato anche la perdita della vista, le gemelle Marc e Eddy Verbessem chiesero di morire prima che la loro condizione peggiorasse. L’eutanasia venne eseguita, suscitando dibattiti sull’opportunità di includere malattie non terminali ma invalidanti.


La Svizzera adotta un modello diverso: non permette l’eutanasia attiva ma consente il suicidio assistito, purché non vi sia un movente egoistico.

 CASO SVIZZERA – CLINICA DIGNITAS
Molti stranieri, tra cui italiani, si recano a Dignitas per porre fine alla propria vita. L’associazione fornisce assistenza medica e legale, ma i casi vengono spesso criticati per la difficoltà di verificare la reale libertà di scelta, specialmente quando la richiesta proviene da pazienti psicologicamente fragili.


Il Canada è forse l’esempio più evidente di come la portata di una legge possa estendersi rapidamente.

CASO CANADA – ALAN NICHOLS (2019)
Nichols, un uomo con perdita dell’udito ma senza malattie terminali, ottenne il suicidio medicalmente assistito. La famiglia denunciò che non fosse in grado di prendere una decisione consapevole e che l’accesso alla procedura fosse stato eccessivamente facilitato.

L’esperienza di questi Paesi evidenzia il rischio di un progressivo slittamento dei limiti iniziali. Ciò che nasce come opzione per situazioni estreme e terminali, col tempo può includere condizioni non letali, sofferenze psicologiche, o persone incapaci di confermare la propria volontà. Questo fenomeno, chiamato “piede nella porta” o “vaso di Pandora”, è uno degli argomenti più forti contro la legalizzazione ampia dell’eutanasia.

Le criticità non sono solo legali o mediche, ma anche culturali e sociali. In sistemi sanitari sotto pressione, un anziano o un disabile potrebbe sentirsi un peso per la famiglia o per lo Stato e optare per la morte non per scelta autentica, ma per senso di colpa. E se la morte assistita diventa una pratica comune, il confine tra diritto e dovere di morire può diventare pericolosamente sfumato.

Il modello italiano, con i suoi limiti, resta ancorato a un equilibrio delicato: garantire dignità nel morire, evitando l’accanimento terapeutico, ma senza legittimare un intervento diretto che provochi la morte. Per molti credenti e non credenti, la sfida etica dei prossimi anni sarà proprio mantenere questo argine, senza cedere né alla crudeltà di prolungare inutilmente la sofferenza, né alla tentazione di banalizzare il gesto estremo di porre fine a una vita.


Nessun commento:

Posta un commento

Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pan...