«Ma chi ti vota, scusa?».
Era la domanda che mi fece mio cugino, con un sorrisetto ironico, quando, anni fa, accennai all’idea di candidarmi. Non era una provocazione cattiva. Era realismo da bar del paese. Tradotto: “Qui ti conoscono tutti, e proprio per questo non ti voteranno mai”.
Io, in fondo, lo sapevo. In quel condominio costruito da mio nonno materno, ogni porta nascondeva una memoria: una litigata, un favore, una parola detta male vent’anni fa. Mio padre, che non era del posto, era sempre rimasto un corpo estraneo. E io, cresciuto lì, avevo imparato presto che la reputazione non era un vestito cucito su misura: era un cappotto ereditato, con dentro odori, macchie e tasche rotte che non avevi scelto tu.
Il quartiere, poi, era un posto strano: ti conoscevano tutti, ma nessuno ti vedeva davvero. Era come se fossi sempre rimasto il ragazzino che correva dietro al pallone nel cortile, e non l’adulto che ora sapeva distinguere una delibera da una determina senza dover consultare un manuale.
Un mio amico ci aveva provato sul serio. Volantini, porta a porta, strette di mano. Gli elettori? Parentado e vicini. I commenti più frequenti:
«Ah, ma tu sei il nipote di Gennaro… come sta tuo zio?»
Oppure: «Bravo ragazzo, ma… la politica è un’altra cosa».
Alla fine prese meno voti del numero dei tavolini del bar all’angolo.
Fu lì che capii una cosa: in politica, come nel calcio, non è detto che la partita tu debba giocarla nello stadio di casa. A volte, per vincere, bisogna cambiare campo.
Quando mi trasferii nella città dove vivo oggi, non ci pensavo ancora. Ma col tempo, tra un’assemblea di quartiere e un evento culturale, mi resi conto che lì nessuno sapeva nulla di mio nonno, delle liti condominiali o di chi avesse litigato con chi negli anni ’80. Qui potevo parlare di progetti senza che qualcuno pensasse al cognome prima ancora di ascoltare la proposta.
Conosco un ex collega che ha fatto così. Lavorava come impiegato in un piccolo comune, poi si è spostato altrove. Ha iniziato a dare una mano a un comitato civico, ha organizzato un festival con due soldi ma tanta inventiva. In due anni, il suo nome era associato a cose fatte bene, non a storie di famiglia. Quando si è candidato, la gente lo ha votato per quello che vedeva, non per quello che ricordava.
E allora ho capito: “nessuno è profeta in patria” non è una condanna, è una strategia di liberazione. Ti toglie dal recinto dei pregiudizi e ti mette in un campo dove le regole le riscrivi tu.
La politica, come l’amore, non è accontentarsi di chi capita. È andare a cercare chi davvero ti interessa, anche se significa fare chilometri, ricominciare da zero e, magari, scoprire che proprio lì puoi diventare titolare, dopo una vita in panchina.
Nessun commento:
Posta un commento