La Germania stende il tappeto: la Porta di Brandeburgo come zerbino geopolitico


La Germania non ha mai smesso di inginocchiarsi: dall'espiazione sacrosanta al servilismo automatico, ha trasformato la colpa storica in una politica estera acritica. La Porta di Brandeburgo illuminata con i colori di Israele non è solidarietà: è zerbinismo istituzionalizzato.

Parlare a favore della Palestina è, oggi più che mai, un gesto che comporta rischi. Chi osa sollevare critiche verso le politiche del governo israeliano si trova spesso etichettato frettolosamente come “antisemita”, “estremista” o “fiancheggiatore del terrorismo”. Una semplificazione pericolosa, che mette a tacere il dibattito e crea un clima di intimidazione intellettuale.

Eppure, il diritto internazionale parla chiaro: la questione palestinese è una delle più complesse e irrisolte del nostro tempo. Denunciare l’occupazione militare, la colonizzazione dei territori, le condizioni disumane in cui vive un'intera popolazione non significa negare il dolore della Shoah, né tantomeno alimentare odio. Significa, semplicemente, non voltarsi dall’altra parte.

Quando il primo ministro israeliano definisce l’ONU una “palude antisemita”, dimentica forse che l’ONU è composta da quasi tutti gli Stati del mondo, con visioni diverse e sensibilità differenti. Ridurre ogni critica a un attacco antiebraico è un’operazione retorica che, purtroppo, sta diventando strategia. Ma la solidarietà non si può censurare. Non possiamo accettare che ogni voce dissenziente venga delegittimata a colpi di accuse infamanti.

C'è il rischio, oggi, che chiunque – anche chi ha sempre manifestato il massimo rispetto per il popolo ebraico – venga sospettato, schedato o etichettato solo per aver espresso una posizione scomoda. È un clima preoccupante. L’idea stessa che esista una lista di “proscrizione” per giornalisti, intellettuali o semplici cittadini che si espongono sul tema, dovrebbe allarmare chiunque abbia a cuore la libertà d’espressione.

Siamo testimoni di una tragedia lunga oltre 70 anni: un popolo privato della propria terra, della propria libertà e, in troppi casi, anche della propria dignità. Non possiamo ignorarlo solo perché farlo ci rende vulnerabili o impopolari.

Siamo Goyim, sì – termine con cui, nella tradizione ebraica, si indicano i non ebrei – ma siamo prima di tutto esseri umani che ascoltano la voce della coscienza. E la coscienza, quando è sveglia, non si inginocchia davanti alla propaganda né si lascia comprare dal silenzio.

Scegliamo, allora, di non essere complici. Anche a costo di essere fraintesi, anche a costo di pagare un prezzo personale. Perché la verità, quando fa male, è ancora più necessaria.


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