Il libro che non doveva essere scritto

Ho il PC pieno di libri già pronti per il selfpublishing. Centinaia di pagine, file ben ordinati, idee già sviluppate, parole pensate per un pubblico che forse non esiste più — o che, semplicemente, non mi interessa più raggiungere.

Eppure non riesco a pubblicarli.
Non perché non siano “abbastanza buoni”, ma perché non mi ci riconosco più.
Sono il frutto di un’altra versione di me. Uno che scriveva per affermarsi, per condividere, forse anche per spiegare. Ma ora?

Ora mi sento seduto in contemplazione. Guardo la vita scorrere e non trovo più nulla da dire. Non perché non ci sia nulla da raccontare, ma perché sento che non serve. O forse, semplicemente, non mi interessa più aggiungere rumore al rumore.

La verità?
Forse non ho più niente da dire al prossimo.
Forse sono diventato lettore, non autore. Osservatore, non oratore. E va bene così.


La scrittura come saccenza


Scrivere un libro è spesso un atto di saccenza.

Lo dico senza rancore, ma con disillusione. Il 99% degli scrittori crede di avere qualcosa da insegnare agli altri. Ma pochi hanno davvero qualcosa di così profondo da meritare d'essere condiviso. Gli altri? Riempiono scaffali. Fanno rumore.

A volte penso che la vera saggezza sia restare in silenzio.
Lasciare che ognuno impari da solo, leggendo direttamente la vita.
Perché chi sale in cattedra con troppa facilità spesso rivela solo la propria ignoranza.


E se il silenzio fosse l’opera?

E allora, perché non pubblicare proprio questo?
Un’opera senza arroganza. Un libro senza contenuto, solo contemplazione.
Una raccolta di pensieri su ciò che non vale la pena dire, su ciò che si comprende solo stando zitti.

Non per spiegare.
Non per convincere.
Ma solo per testimoniare che c’ero, e che ho imparato a tacere.


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